R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Abbiamo da poco incrociato il nome del batterista Tom Skinner nel bell’album del trio The Smile, pubblicato solo qualche mese fa insieme a Thom Yorke e Johnny Greenwood, due componenti dei Radiohead. Nel bel mezzo di quest’autunno ritoviamo il nostro batterista con un’altra uscita discografica, Voices of Bishara, primo album pubblicato a suo nome. Sebbene Skinner sia un importante agitatore dell’attuale scena jazz inglese da almeno vent’anni a questa parte, fino ad ora aveva editato due dischi da titolare sotto lo pseudonimo di Hello Skinny, titolo preso da un vecchio brano dei Residents uscito nel 1978 con l’Ep Buster and Glen. Inoltre Skinner ha fatto parte dei Sons of Kemet, gruppo scioltosi da pochissimo tempo, avendo ruotato attorno alla figura del leader trentottenne saxofonista Shabaka Hutchings che ritoviamo ad ogni modo tra le fila dei musicisti presenti in Voices of Bishara – Off Topic si è già occupato più volte di questo sassofonista e se foste interessati a saperne di più potete cliccare qui, oppure qui… La storia di questa ultima produzione discografica è quanto meno curiosa. Potremmo dire che tutto è iniziato in un locale londinese, il Brilliant Corners, dove ci fu una seduta di Played Twice (= suonato due volte), cioè un set particolarmente interessante in cui dall’impianto audio del locale veniva prima mandata una storica incisione jazz – nell’occasione era un album di Tony Williams, Life Time del 1965 – e poi il gruppo ospite, tra cui il nostro Skinner, eseguiva dal vivo una sorta di “risposta” improvvisata sotto lo stimolo di ciò che si era appena ascoltato. Parte del materiale sonoro così ottenuto è finito in Voices of Bishara ma di assoluta importanza è stato anche un album di Abdul Wadud, violoncellista americano di Cleveland, che nel 1977 uscì con un Lp in solitaria, By Myself, a cui Skinner ha dedicato molta attenzione durtante il blocco Covid. “Bisharra” – con due erre – era il nome dell’etichetta di proprietà di Wadud e Skinner utilizza lo stesso termine con una piccola modifica ortografica, sapendo che Bishara – con una sola erre – in lingua araba significa “buone notizie”. Il lavoro di post-produzione è continuato in un secondo tempo con il cut-up che l’Autore ha esercitato sul materiale registrato. Quindi possiamo dire che Skinner si sia sentito stimolato sia da Williams che da quel lavoro di Wadud – forse soprattutto da quest’ultimo – e in effetti l’atmosfera di Voices sembra approfittare di uno shunt spazio-temporale che ci riporta parzialmente a quel periodo della seconda metà dei ’60 fino a gran parte dei ’70, a contatto con la nascita del cosidetto spiritual jazz il cui album di assoluto riferimento è A Love Supreme di John Coltrane, uscito nel 1965. Ma in questo genere di musica, caratterizzato dalla progressiva presa di coscienza del valore religioso e dalla nuova politica dei diritti civili da parte della comunità nera americana, troviamo altri illustri rappresentanti, come ad esempio Pharoah Sanders, Don Cherry, Alice Coltrane, Sun Ra, Albert Ayler ecc…

Che cosa caratterizza ancora oggi quello stile, di cui Skinner si fa in qualche modo quasi portavoce con il suo ultimo album? Una tumultuosa miscellanea di elementi musicali, spesso volutamente caotici ma interposti a lunghi tratti di sequenze melodiche, frequentemente reiterate tra accessi rabbiosi, intemperanze ritmiche e parentesi orientaleggianti, in cui il free si fa strada con obiettivi di destabilizzazione, suggerendo istanti di bellezza primigenia ed arcana. Una sorta di neo-primitivismo che non pare finalizzarsi ad un percorso retrogrado, quanto piuttosto a un parziale azzeramento delle regole, irridendo il bel suono in quanto tale e offrendo interpretazioni intense, purchè sinceramente provenienti dalla profondità dell’anima. Certo è che ascoltare questa musica nel 2022 lascia una sensazione straniante, è come un fuori-sincrono a cui il Tempo ha aggiunto giocoforza un po’ di polvere. Per quello che riguarda la formazione di questo album ho cattive notizie – si fa per dire – perchè i nomi pervenuti con le note stampa non corrispondono a quelli che si trovano indicati da diverse fonti giornalistiche. Da quello che posso aver capito, non avendo in questo momento a disposizione il supporto fisico, i video che circolano su YT sono suonati da una formazione diversa rispetto ai musicisti che invece hanno partecipato al disco. Ad ogni modo, fidandomi più dell’autorevole fonte di All About Jazz che non del bollettino-stampa allegato, gli strumentisti a fianco di Skinner e della sua batteria dovrebbero essere Shabaka Hutchings al sax tenore e al clarinetto basso, Nubya Garcia al sax tenore e al flauto, Kareem Dayes al violoncello, Tom Herbert al contrabbasso e al basso elettrico.
Occupiamoci ora del primo brano di questa selezione, Bishara. Il violoncello imposta un bordone con note che ballano all’interno di un intervallo di quinta giusta mentre i sax in contemporanea impostano una strana melodia dal suono processionale. Skinner comincia a divertirsi sminuzzando il ritmo in tanti piccoli frammenti. Un sax inizia a sollevare la testa, soffiando rabbia fino a raggiungere un climax coltraniano che lo trascina in una spirale free, riuscendo anche a scombinare il violoncello che lo segue in questa deriva, dimenticandosi del drone. Tutto diventa caotico e anarchico fino a quando il sax recupera una parvenza di normalità, focalizzandosi su poche note. Si ascoltano più violoncelli sovraincisi, poi il mood si spegne lentamente. Red 2 è un cupo fiorire di fiati, lento e progressivo. I clarini e i flauti si accompagnano al violoncello che disegna un vago perimetro sonoro. Corolle di fiori notturni sembrano aprirsi e richiudersi, l’atmosfera è magica e rituale e il flauto di Garcia innesca frammenti di melodie cromatiche, con il sottofondo percussivo di Skinner e l’inquietante arco a terminare con una sequenza di tre note racchiuse in un intervallo di terza minore.

The Journey sembra appoggiarsi ad una ritmica moderna, quasi oriental-dance, dove l’incrocio vincente è fra contrabbasso e batteria e mentre il sax s’infila con qualche nota a rinforzarne l’assetto. Il tutto sembra il mix di un abile dee-jay e forse Skinner qui ha messo lo zampino nei tagli, oltre ad operare sulla batteria, con il solito smembramento dei tempi. Questo pezzo è il più contemporaneo tra tutti, quello che sembra più in linea con i suoni e le ispirazioni dei nostri giorni e più lontano dalle tensioni spiritualiste fin qui avvertite, offrendoci anche un buon assolo di contrabbasso più o meno all’altezza di metà brano. The Day After Tomorrow recupera qualcosa dall’Arkestra riallacciandosi alla dimensione momentaneamente abbandonata dal brano precedente, alludendo ad un breve tema che verrà ripreso e ripetuto lungo tutto il decorso della traccia. Tema suonato a turno da tutti gli strumenti – in questo caso i due sax, il violoncello e il contrabbasso – con qualche breve variante che sconfina poi nella ricerca di libertà nel free, ma senza quella componente rabbiosa che compariva nel primo brano dell’album. Anzi, questa è la dimensione del raccoglimento e della collettività, proprio perchè lo stesso tema viene toccato da tutti. Si ascoltano forse delle sovraincisioni o delle manipolazioni di Skinner che nel frattempo riempie i silenzi con rumori percussivi. Voices (of the past) ci porta invece vicino a The Journey, almeno per quella componente ritmica qui abbondantemente esposta al cut-up, con immissioni di fruscii vinilici e note di chitarra probabilmente estratte da dischi del passato. Quiet As It’s Kept si presenta con un poderoso contrabbasso e il clarino basso di Hutchings che comandano i giochi all’interno della pulsazione ritmica di Skinner. Un certo spiritaccio selvatico corre attraverso la band fino a metà brano perchè da lì in poi tutto rallenta in un’oasi che vorrebbe essere paradisiaca ma che conserva comunque un’ombra inquieta.
Una buona esperienza collettiva, il gruppo di Skinner, che merita senz’altro un’affettusa attenzione per questo suo sforzo ragionato e dedicato. Perché anche se è fuor di dubbio il debito emotivo con un’epoca precisa della storia del jazz, è altrettanto vero che questo album non è un cerebrale gioco di montaggio né un luogo di sperimentalismo situazionista. Diversi elementi contemporanei si mescolano ai velati omaggi che ascoltiamo qui e là, tra istanti di clima divampante e qualche inaspettato incedere crepuscolare. Ma l’impressione finale è che Skinner sia ancora al di qua del guado necessario che possa portarlo in un territorio più vasto di quello pur sufficientemente esteso abitato attualmente.
Tracklist:
01. Bishara (5:38)
02. Red 2 (2:57)
03. The Journey (5:02)
04. The Day After Tomorrow (4:59)
05. Voices (Of the Past) (4:51)
06. Quiet as It’s Kept (4:04)
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