R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Mi ero fatto un’idea, evidentemente balzana, che alcuni musicisti reagissero ad una eventuale stage fright, cioè a quella paura da palcoscenico che impedisce a volte di ricordare le parole d’una canzone, altre volte di azzeccare gli accordi giusti o una melodia nel suo corretto sviluppo. Non sapevo ancora che una coppia artisticamente collaudata del livello di Fred Hersch ed Esperanza Spalding, invece, quando sale sul palco non solo è piuttosto rilassata, ma non si preoccupa nemmeno di organizzare un arrangiamento definito al pianoforte né di non aver nessuna linea guida da seguire. Anzi, accade anche, come in questo album, che la Spalding si trovi a modificare spontaneamente il testo di una canzone durante la sua esecuzione, magari inserendovi delle osservazioni polemiche o spiritose, come appunto vedremo tra poco. Se dunque d’improvvisazione si tratta – e nel jazz ciò è assolutamente vitale – improvvisazione sia, persino nel modo un po’ avventuroso che Hersch & Spalding propongono al loro pubblico. In realtà, secondo quanto i due artisti dichiarano pubblicamente, il bello di collaborare insieme da una decina d’anni sta soprattutto nell’aspetto poco formale del gioco, nella possibilità di far musica senza necessariamente dover inquadrare il tutto in un contesto seriosamente professionale. La verità è che questa coppia si diverte nell’esibirsi senza rete e tutto questo lo si percepisce dal clima che si crea durante il concerto live, col pubblico talora divertito dalle battute della Spalding ma che nel contempo ascolta attentamente la musica performata. Naturalmente si parla di un mood particolare che si può cogliere solo in piccoli locali, meglio ancora se si tratta di luoghi storici come il Village Vanguard di New York che Hersh conosce bene per avervi suonato già parecchie volte e per averci inciso sei concerti. In questo vero e proprio tempio del jazz si è realizzato questo concerto dal vivo, Alive at the Village Vanguard, registrato nell’Ottobre del 2018, anche se pubblicato solo quest’anno. In realtà questo evento è stato organizzato durante un periodo piuttosto drammatico in concomitanza di problemi personali di natura fisica e professionale che avevano interessato entrambi i musicisti. Nulla di drammatico emerge, però, da questa sessione live che ci restituisce un umore solido ed eclettico, accogliente e informale come se ci si trovasse ad una serata tra amici.

Bisogna dire che la Spalding è nota più per la sua maestria nel contrabbasso che non per la sua voce. Infatti il suo modo di cantare forse non ha l’appeal delle tante vocalist jazz che popolano la scena internazionale. Le sue corde vocali non prevedono tonalità profonde e la timbrica più frequente si sintonizza sulle modalità medie ma ha la particolarità di glissare con sinuosa eleganza verso le note più alte. Inoltre possiede una buona intonazione ed un’altrettanta capacità di incamminarsi verso il vocalese o anche avventurarsi in estemporanee parentesi di scat. La sua microfonazione, in questo frangente, non ha riverbero alcuno, per cui la voce esce così com’è, diciamo senza artifici. Bisogna dire che la presenza pianistica di Hersch è impeccabile, fantasiosa e imprevedibile, in grado di sintonizzarsi perfettamente anche con il clima che si viene a creare tra la Spalding ed il pubblico in sala. (Chi fosse interessato può consultare notizie in più di Hersch pubblicate in Off Topic cliccando qui e qui.).

But Not For Me è il primo brano della serata, un classico standard di George e Ira Gershwin composto nel 1930 e che ebbe in passato numerosissimi interpreti, tra cui le prime in assoluto Ginger Rogers e Judy Garland. In questi dieci minuti circa di durata del pezzo succedono molte cose. Innanzi tutto l’incipit brillante e sincopato di Hersch con la voce della Spalding che attacca bene e va a toccare note molto alte e sospirate. Poi, però, nello scorrere del testo, la cantante opera una estemporanea sostituzione di spezzoni di frasi, sostituendo alcuni vocaboli ed espressioni che giudica desuete, commentandole con qualche accenno ironico e spiritoso che stimola il riso nel pubblico. Inoltre improvvisa uno scat che le riesce tutto sommato bene, al di là di qualche prevedibile incertezza. Quello che colpisce, però, è soprattutto la grande intesa con Hersch che non la lascia sola un attimo e che attaccherà un assolo indefinibile di piano, con tanti e tali spunti che per rendersene conto di tutti occorre riascoltare più volte l’intero brano, anche se comunque, ad ogni ascolto, ci si sente travolti dall’imprevedibile fantasia di questo eccezionale pianista. Applausi e gridolini d’approvazione del pubblico sono veramente strameritati. Dream of Monk è un brano dello stesso Hersch che è stato precedentemente pubblicato in un altro live, Alive at the Vanguard registrato in trio nel 2012. Non c’è niente di lineare quando si parla di Monk ed anche questo pezzo non è decisamente di facile ascolto. E questo nonostante le acrobazie dei due musicisti che piroettano senza perdere l’equilibrio tra strutture pianistiche molto complesse e l’ibrido vocalese-scat, impostato questa volta con estrema bravura dalla Spalding, considerando anche la difficoltà del brano in sé. Little Suede Shoes è di Charlie Parker (1951) – anche se la composizione di Bird porta il titolo più integrale di My Little Suede Shoes – e pure in questa circostanza il piano di Hersch costruisce attorno alla melodia, imbastita di per sé da forti tinte latineggianti, una serpentina di note cristalliformi, mentre la Spalding improvvisa frasi ex-novo seguendo a tratti il tema trainante della traccia. Ascoltando il lavoro pianistico di Hersch sembra quasi che egli, a volte, si smarrisca volontariamente in un mondo tutto suo, quasi immaginando chissà quali birichinate irriverenti da tradurre in linguaggio musicale. Le strutture così create appaiono spesso informi e visionarie ma in realtà sono tecnicamente quadrate come le aree di un quadro di Mondrian. In Girl Talk la Spalding si scatena. Prende a prestito una canzone degli anni’60 composta da Neal Hefti e Bobby Troup e ci fa sopra una tiritera spiritosa riguardo il testo infelicemente sciovinista. Tutto ok, ma sono passati sessant’anni da quel mondo lontano e tutto cambia e si trasforma, anche e soprattutto il modo di pensare e lo spirito conseguente dei tempi. Atteggiamenti catacronici di questo tipo lasciano lo spazio che trovano ma in fondo s’allineano con il politically correct ad ogni costo, retaggio sociologico ingombrante ereditato proprio dagli Stati Uniti. Comunque il tono resta leggero e il piano bluesy aiuta a mantenere un certo distacco emotivo dalla storiella raccontata dalla Spalding, sempre molto brava, anche come affabulatrice.

La situazione cambia radicalmente con Evidence, brano di Thelonious Monk composto originariamente nel 1948 con il nome di Justice. Attraversato da una complessità melodica a dir poco sconcertante, diventa quasi incredibile notare come Hersch, destrutturando (in realtà questa composizione è già destrutturata di per sé…) e ristrutturando questo pezzo, non perda i contatti non solo con la Spalding ma soprattutto con sé stesso, impegnato in una serie di declinazioni armoniche tutt’altro che immediate. Stupisce anche la tecnica della Spalding che rincorre gli intervalli assurdi creati dal piano azzeccando il 99% delle note sulle quali cade con precisione matematica. Some Other Time non è l’omonimo brano di Leonard Bernstein ma una canzone del 1944 creata da Sammy Cahn e Jule Styne. Il pianoforte di Hersch si romanticizza e muta d’identità, passando dall’orbita schizzata del pianeta Monk all’atmosfera fumosa e raccolta che doveva esserci in un piccolo locale, più o meno come il Vanguard, tra i ’40 e i ’50. Cancellato quel mitologema dall’esaltazione infervorata del salutismo, ci resta però una splendida musica con la Spalding che canta a modo suo, apparentemente quasi svagata in verità sempre concentrata, lavorando come sa far bene, coi toni molto acuti che si trasformano in affascinanti, asciutte vocali sospirate. Loro è una composizione del brasiliano Egberto Gismondi del 1981 e pubblicata con l’Lp Sanfona nello stesso anno. Gismonti è un fior di compositore e polistrumentista ma non è un autore molto facile. Anche se questo pezzo può sembrare all’apparenza un po’ leggero – nella versione originale è solo suonato, tra l’altro con un assolo di piano che tira, guarda caso, dalle parti di Monk – cantandolo, la Spalding, cerca di alleggerire il tema rendendolo forse più sbarazzino e improvvisandoci qualche commento dei suoi, con il pubblico che risponde divertito. Hersch, dal canto suo, s’impegna a contrappuntare la melodia e il canto riuscendoci in gran parte, avventurandosi tra le note più acute della sua tastiera con spirito agitato. Finale tra i vocalizzi della cantante e la progressiva rarefazione della presenza del piano. Scroscio di applausi da parte del pubblico che pare apprezzare molto. A Wish è una traccia composta da Hersch e da Norma Winstone che fu inclusa nel loro album Songs & Lullabies del 2003. Si chiude quindi con una melodia che sta inizialmente dalle parti di un innodico gospel per poi supportare la voce della Spalding che qui sembra modificare leggermente lo spattro sonoro, forse estendendolo al suo massimo. Una bella canzone per terminare in dolcezza il concerto.

Questo live ha la strana caratteristica di passare da momenti di intensa turbolenza armonica ad altri di soave malinconia. Il pianismo enciclopedico di Hersh sembra trovare una partner ideale nella Spalding, grazie non solo alla sua voce espressiva ma anche a quella temeraria capacità d’intervenire improvvisando verbalmente sulle canzoni con inserti, commenti e battute ironiche, riuscendo spesso a creare col pubblico una comunicazione empatica di inusuale profondità.

Tracklist:
01. But Not for Me (9:32)
02. Dream of Monk (7:36)
03. Little Suede Shoes (9:03)
04. Girl Talk (12:03)
05. Evidence (6:36)
06. Some Other Time (8:30)
07. Loro (9:37)
08. A Wish (4:35)

Photo © Chris Drukker, Erika Kapin