R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il trombettista Wadada Leo Smith è attualmente un personaggio tra i più intriganti del panorama jazz statunitense. All’alba dei suoi ottantuno anni, con una discografia vasta quanto un elenco telefonico, Smith si presenta abitualmente con la propria filosofia musicale, coraggiosa quanto radicale. E su quest’ultimo attributo c’è poco da discutere, vista la condivisione artistica insieme ad alcuni dei suoi compagni di viaggio più estremi, dall’AACM a cui si unì nel ’67 ad Anthony Braxton con cui incise sette dischi in dieci anni e ancora da Derek Bailey a Henry Kaiser fino a John Zorn nel 2003. Ma è chiaro che si sta molto semplificando, volendo solo indicare qualche riferimento a musicisti considerati abitualmente difficili da metabolizzaree collocati nella nicchia dell’avant-garde, a sua volta all’interno di un’altra area ristretta per natura qual è di solito la musica jazz contemporanea. Se andate a curiosare sul sito personale di Smith v’imbatterete in una approfondita e filosofica disquisizione sul reale significato dell’improvvisazione, dove addirittura il trombettista del Mississippi si trova a teorizzare l’esistenza di almeno cinque diverse forme di creazione estemporanea. Per lui il termine improvvisare non s’allinea con l’atto di suonare sopra strutture preordinate, né con quello dl prestare attenzione cosciente al lavoro degli altri musicisti con cui ci si esibisce. Significa invece lasciarsi andare totalmente, confidando nella familiarità e nell’empatia degli altri elementi del gruppo. Insomma, ogni volta è un salto nell’imponderabile e in ciò sta evidentemente la bellezza e il fascino di questa arte. Se c’è una cosa, però, che ogni appassionato di jazz impara presto è che esiste sempre un certo gap tra parola scritta e la musica in sé. Un conto, per esempio, è appuntare una recensione, un altro è ascoltare la musica che ne viene descritta. Interpretando il vero e proprio mini-trattato epistemologico depositato sul sito web dell’Autore, potremmo avere l’impressione che la sua musica sia un po’ carbonara, riservata ad una cerchia ristretta di adepti. Invece, almeno per questo ultimo lavoro Fire Illuminations, ogni pregiudizio cade di fronte ad un’interessante alternanza tra groove checi attraggono verso il loro centro ritmico-gravitario e spazi surreali in cui ci si perde con una certa voluttà, abbandonandosi alla deriva di una sospesa, estatica corrente sonora.

Il gruppo che accompagna Smith in questa avventura si chiama Orange Wave Electric ed è in effetti un insieme in cui compare una cospicua presenza di chitarre e bassi elettrici, con in più vari effetti elettronici sullo sfondo. Il suono spettrale e spiritato ma sempre squillante della tromba dell’Autore potrebbe essere avvicinato a quello del Miles Davis del periodo orbitante attorno a Bitches Brew e oltre, diciamo da In A Silent Way a On The Corner, a cavallo dei primi anni ’70, fino però ad arrivare ad un album per certi versi simile a questi come lo è stato il più tardivo Star People, pubblicato nell’83. Il che potrebbe significare da un lato o che l’inventiva di Davis abbia generosamente precorso i tempi – e questo potrebbe essere plausibile – o che Smith non proponga, in fondo, niente di profondamente nuovo. Ma anche qualora quest’ultima affermazione si dimostrasse vera, il modo in cui lo stesso Smith squaderna il suo lavoro di jazz-fusion contemporaneo ha una chiarezza unitaria di fondo in cui la sonorità della sua tromba emerge con la stessa autorità di un comandamento Mosaico, facendosi strada tra un multiforme brulichio di eventi sonori. C’è però un importante appunto da considerare che si concentra sul lavoro di post-produzione. Cioè, da quello che ho potuto capire, i singoli brani sono stati eseguiti in diverse sessioni con un’alternanza di musicisti diversi, da cui si sono estratte le performance più convincenti e sulle quali è stato aggiunto o tolto qualcosa. Tutto bene, da un certo punto di vista. Il lavoro post produttivo – tra l’altro fu proprio Miles Davis a introdurre certe manipolazioni creative di taglia e cuci, ad esempio proprio nel già citato In A Silent Way – è una pratica che sta diventando sempre più usuale e permette di aggiungere un ulteriore tocco di rifinitura alla musica così registrata. Ma a questo punto dove va a finire la filosofia dell’improvvisazione? Cosa ne resta, infine, se poi si interviene attivamente e coscientemente all’atto dell’assemblaggio finale, puntando ad un editing che si presenti nel migliore dei modi possibili? O forse il momento dell’improvvisazione è da intendersi solo nell’ambito live? Lasciamo in sospeso questi interrogativi per concentrarci sulla band arancione ed elettrica che ruota attorno a Smith. Questa è composta da musicisti che hanno quasi tutti già collaborato con il nostro trombettista, dalle tre chitarre elettriche, quella di una vecchia conoscenza come Nels Cline – di cui troverete una sua recensione qui – oltre a quelle di Brandon Ross e Lamar Smith. I due bassisti sono Bill Laswell e Melvin Gibbs, alla batteria c’è Pheeroan Aklaff, alle percussioni Mauro Refosco – forse l’unica novità in questo gruppo – e Hardedge agli effetti elettronici.

Il brano iniziale, Ntozake, è dedicato alla drammaturga e poetessa femminista Ntozake Shange, scomparsa nel 2018. Nell’insieme magmatico di tutti e nove i musicisti coinvolti, la traccia assume le sembianze di una sequenza rockeggiante che lavora su due accordi discendenti posti alla distanza di un tono uno dall’altro, quasi fossero power chords, con le chitarre distorte che si muovono aspre ed aggressive su una ritmica piuttosto heavy. La presa psicologica è immediata, la tromba di Smith ci ricorda che il linguaggio di base è un jazz contemporaneo ma l’assetto complessivo potrà sicuramente piacere anche agli amanti del rock. Infatti le abrasive chitarre si sbizzarriscono con effetti distorsivi, wha-wha e altre aggiunte elettroniche. Il tutto almeno fino al minuto 8 e 30” – la lunghezza complessiva del brano sfiora i sedici minuti – perché da qui in poi la marea chitarristica si ritira, lasciando la tromba e la sua sordina in solitudine tra momenti elettronici e note rarefatte di basso elettrico. È proprio in un frangente come questo, anche se il coinvolgimento ritmico della prima parte viene meno, che i ricordi con gli spazi ionosferici di Miles Davis paiono affiorare, al netto di qualche “disturbo” elettronico sul fondale scenico. Il finale riprende la quota musicale iniziale, però con un ritorno meno deciso al clima dei primi minuti.

In seguito compare il dittico ma scomposto in due parti separate dedicato al pugile Muhammad Alì altrimenti conosciuto come Cassius Clay. Il primo di questi omaggi è Muhammad Alì’s Spiritual Horizon e si estende su una trama intricata di percussioni dove resta attiva, oltre ai due bassisti, anche la sola chitarra di Lamar Smith. La tromba dell’altro Smith interviene con note lunghe, tenute accese dai molti riverberi e dalle corde della chitarra, quasi appena toccate ma intricate tra effetti delle medesime e vibranti suoni di piatti e sonagli. Fire Illumination, brano che intitola anche l’album, è il momento più free del disco e forse più vicino alla filosofia dell’improvvisazione così come la si legge sulla home page dell’Autore. La tromba è molto davisiana, il set identico a quello della traccia precedente. Le percussioni ribollono un po’ meno, quel tanto che basta per far meglio risaltare sia la tromba, più asciutta e apparentemente con meno riverbero in corpo, e la chitarra che prende un po’ più di coraggio. I colori si fanno agri, gli accordi più tensivi. Si comprende come il gergo jazzistico dagli anni ’70 in poi, sia completamente sedimentato tra le menti dei musicisti e un po’ di quell’estetica dell’eccesso riappare anche in un brano come questo. Tony Williams è evidentemente dedicato al famoso batterista che militò con Davis già all’età di diciassette anni entrando nel suo quintetto. Il set si ricompone nella sua totalità. Uno squillo acuto di tromba esordisce in questo pezzo, accompagnato solo da qualche sporadica percussione. Poi lo strumento di Smith trova qualche lenta soluzione discendente fino a quando batteria e chitarre e il resto del gruppo entrano quasi in successione nella partecipazione a questa sorta di elegia, come fosse un blues lancinante, colmo di profonda malinconia. Dopo poco più di quattro minuti la batteria prende un andamento moderato, in mid-tempo, dove le chitarre rispondono alle escursioni della tromba, creando un drammatico controcanto. Per rendere meglio l’idea del mood di questo brano potete provare ad immaginarvi un frammento di Bitches Brew, più melodico e con un procedimento ritmico che diventi via via più vicino al rock, sicuramente per mezzo delle chitarre che ringhiano in sottofondo. Una forma di hard jazz rock attraversata da sibili elettronici che a tratti si allontana molto dai tratti più canonici del jazz. Anche questa traccia può esercitare grande presa emotiva all’ascolto, più o meno com’era successo per il brano di apertura, Ntozake. E proprio sul finale la strumentazione si allontana da Smith, lasciandolo in una quasi solitudine, contornata da qualche percussione e vibrazioni elettroniche. L’album si chiude con la seconda parte del dittico dedicato a Muhammad Alì, Muhammad Alì and George Foreman Rumble in Zaire Africa. Il chilometrico titolo si riferisce allo storico incontro avvenuto a Kinshasa – oggi capitale delle repubblica congolese – tra i due pugili. L’incontro fu soprannominato Rumble in the Jungle (rissa nella giungla), ricordato perché Alì riprese il titolo di campione del mondo dei massimi vincendo l’incontro. Sarebbe troppo facile e banale descrivere la musica come una pantomima del suddetto incontro di boxe e non mi farò, quindi, prendere in trappola. Certo, le percussioni ravvicinate, gli stridori della chitarra di Cline, la modalità completamente free hanno un sentore selvaggio. Ma la tromba di Smith compare solo dopo quasi cinque minuti di controllato delirio sonico, sempre più davisiana, proprio quando il resto della band imbastisce una base ritmica ben sostenuta. Chitarra e tromba si integrano e si alternano, ma il loro è solo un dialogo, non una lotta.

La tromba smagliante di Smith ripercorre, in parte e com’è giusto che sia, le orme del nume tutelare (Davis) dei trombettisti jazz, almeno di quelli afro-americani. La novità sta nell’aver assemblato un gruppo eterogeneo imperniato su tre chitarre e due bassi che danno un’impronta diversa da quella che potrebbe offrire una più classica formazione jazzistica. La musica che ne risulta conserva comunque un ordine che rifiuta gli eccessi e si mantiene lontanissima da certe indecorose sbracature free che vorrebbero spacciarsi per contemporanee. Invece il suono di Wadada Leo Smith è sempre meditato, quasi centellinato e avverso a esasperati perfezionismi.

Tracklist:
01. Ntozake Shange (15:53)
02. Muhammad Ali’s Spiritual Horizon (3:52)
03. Fire Illuminations in Side the Particles of Light (4:35)
04. Tony Williams (15:43)
05. Muhammad Ali and George Forman Rumble in Zaire Africa (8:27)

Cover: Icelandic highlands, 2000. Photo © Einar Falur Ingólfsson
Photo © Michael Jackson