Ricerca

Off Topic

Solo contenuti originali

Tag

Joel Ross

Arooj Aftab – Night Reign (Verve Records, 2024)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Un album pieno d’amore, questo gioiello della cantante pakistana – nata però in Arabia Saudita – Arooj Aftab. Sembra raccontare un eros mancato, di quelli che non riescono ad accendersi nemmeno dopo lunghi e insistenti sguardi. E nonostante la Aftab celebri la Notte con tutta la sua valenza poetica come cosmica mediatrice d’incontri, nel suo canto profondamente riflessivo e languido si avverte come una costante sensazione di distacco, di un vuoto che possa riempirsi solo di attese. Ma del resto non è questo il pegno di tutti i poeti? Non è forse questa mancanza, la principale sorgente delle elegie più profonde? Night Reignquinta uscita discografica dopo il fortunato e pluripremiato Vulture Prince e il precedente album in trio Love in Exile per questa cantante asiatica residente da quasi vent’anni a New York – trabocca di sentimenti amorosi, abbarbicato com’è al canto vellutato della stessa autrice e ad una serie di risoluzioni musicali di notevole, lirica raffinatezza. C’è molto silenzio tra le frasi strumentali, un silenzio che paradossalmente è il rumore di fondo di questo album. C’è inoltre un palese senso di misteriosa attesa che si diffonde con levità tra le melodie sfuggenti dalla cadenza fortemente orientale. Ma non si tratta di musica propriamente etnica, per la verità. Sono visibili molte influenze occidentali, accenti provenienti dalla contemporaneità, dal jazz e non solo, compare perfino in modo occasionale un autotune stratificato sulla voce a farsi strada tra strumenti acustici ed elettronici con elegante nonchalance.

Continua a leggere “Arooj Aftab – Night Reign (Verve Records, 2024)”

Johnathan Blake – Passage (Blue Note Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

La copertina dell’ultimo album Blue Note di Jonathan Blake, Passage, dice tutto. Il bambino dallo sguardo intenso in braccio al padre non rappresenta solo un transito generazionale ma anche il suggello di continuità per quel che riguarda una certa eredità musicale. E suggerisce anche un altro concetto, più volte ripreso lungo il decorso dell’opera. Allude al tempo che passa e all’evoluzione della musica. Sottintende il valore dei legami familiari che sembrano rappresentare, leggendo le interviste personali fatte a molti musicisti jazz contemporanei, una vera e propria ancora di salvezza. Tutto diverso da qualche decennio fa, dove alcuni jazzisti non avevano mai posseduto una casa propria, come Chet Baker, oppure ciondolavano lungo le strade cittadine in cerca del loro pusher occasionale. Ma qui siamo nella ricca mitologia del jazz. Oggi, giustamente, il musicista gode, almeno in teoria, di un maggior rispetto di sé e di una considerazione sociale diversa. E soprattutto nessuno più, almeno credo, s’infila eroina nelle vene credendo di poter suonare come Charlie Parker o come Bill Evans. Ma c’è ancora un’ultima cosa, in merito alla foto di copertina, forse la più importante. Essa racconta di un ragazzino che, crescendo, è riuscito a realizzare i propri sogni. Oggi Jonathan, figlio di John, dedica appunto questo Passage alla memoria del padre, famoso violinista jazz. Attualmente Jonathan è infatti uno dei migliori batteristi in circolazione e se foste sufficientemente curiosi potreste fare un giro qui a rileggervi la recensione di Off Topic del precedente album, il denso e bruciante Homeward Bound del 2021. Ma di Blake abbiamo parlato anche recensendo Lonnie Smith col suo Breathe (2021, vedi qui) e in occasione del disco di Oded Tzur, Isabela, (2022, lo trovate qui). In questo ultimo album Blake si presenta con i Pentad, cioè gli stessi colleghi con cui ha registrato il già citato Homeward Bound. E questi musicisti fanno parte, attualmente, della crema dei jazzisti statunitensi.

Continua a leggere “Johnathan Blake – Passage (Blue Note Records, 2023)”

Jalen Baker – Be Still (Cellar Music Group, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Se mai esistesse un rapporto aureo per ciò che riguarda la musica e non solo per le arti figurative, son quasi sicuro che questo sarebbe ben adeguato al vibrafonista Jalen Baker. Già ci occupammo due anni fa di questo musicista – vedi recensione qui in concomitanza con il suo esordio discografico. Oggi torniamo ad accendere i riflettori sul suo secondo album, questo Be Still, pubblicato in quartetto quasi con gli stessi strumentisti presenti nel precedente lavoro, This is Me,This is Us. Quindi, accanto al vibrafono di Baker, si muovono sempre Paul Cornish al piano, Gabe Godoy al contrabbasso e Gavin Moolchan alla batteria. Questa volta, però, non ci sono quartetti d’archi né la tromba di Giveton Galin, segno di come Baker stia cercando la quadra nell’essenzialità di una formazione solida, senza macchinamenti elettronici né sovrastrutture aggiuntive, un ensemble di base peraltro in via di costante collaudo da circa quattro anni. E in effetti sembra proprio che Baker abbia scoperto la propria sezione aurea in un equilibrio di proporzioni armonicamente perfetto in un album in cui tutto appare ben bilanciato e misurato, pur vorticando impetuosamente in un flusso continuo di note. Il quartetto del vibrafonista getta le fondamenta su cui costruire una musica solida, elegante, sviluppata in un appassionante blend di umori ben amalgamati ma che si presenta all’ascoltatore come una labirintica successione di momenti ritmici e melodici. Sulla scia di Joe Locke, a cui mi sembra di poterlo maggiormente avvicinare, e in misura minore a quella di Joel Ross, Baker imposta il suo album attorno ad una personale, peculiare riflessione. Lo star fermi che il titolo suggerisce non vuole certamente alludere ad un significato statico per ciò che riguarda lo sviluppo della musica ma è un pensiero nato – come per tanti altri artisti – durante l’isolamento pandemico. Un invito a non progettare il proprio futuro per filo e per segno perché l’imprevedibile disegno del destino è affidato ad un potere superiore, cosmico, che infine decide per noi. In altre parole la filosofia di Baker è lasciare che la Vita tracci irruentemente la sua strada, a prescindere da quello che noi stessi possiamo pensare di pianificare.

Continua a leggere “Jalen Baker – Be Still (Cellar Music Group, 2023)”

Meshell Ndegeocello – The Omnichord Real Book (Blue Note Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Ferraioli

Meshell Ndegeocello fa il suo ritorno trionfante con il nuovo album, The Omnichord Real Book. In questo lavoro straordinario, Ndegeocello continua a sfidare le convenzioni musicali e ad esplorare nuovi territori sonori, dimostrando ancora una volta la sua maestria artistica. Con un mix avvincente di stili e influenze, l’artista ci guida in un viaggio emozionante attraverso una collezione di brani originali che ci catturano dall’inizio alla fine. Meshell è un’artista di spicco nel panorama musicale contemporaneo. Nata nel 1968 in Germania e cresciuta nel Maryland, USA, ha sviluppato una carriera artistica straordinaria come cantante, musicista, compositrice e produttrice. Sin dall’inizio della sua carriera, ha dimostrato una capacità eccezionale di spaziare tra diversi generi musicali, tra cui il soul, il funk, il jazz e il rock, dando vita a un suono unico e riconoscibile.
Meshell Ndegeocello ha raggiunto notorietà con il suo album di debutto nel 1993, Plantation Lullabies, che ha ricevuto plausi dalla critica e ha stabilito la sua posizione come una delle voci più innovative e influenti della sua generazione. Da allora, ha continuato a produrre una serie di dischi acclamati, guadagnandosi una reputazione come artista intraprendente e originale.

Continua a leggere “Meshell Ndegeocello – The Omnichord Real Book (Blue Note Records, 2023)”

Brandee Younger – Brand New Life (Impulse!, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Sono sempre molto contento quando riesco ad ascoltare l’arpa di Brandee Younger. Un po’ perché mi piace il suono dello strumento ma soprattutto per l’indiscutibile perizia di questa musicista, il cui lavoro spesso viene arricchito da collaborazioni tutte sempre importanti e stimolanti e come vedremo abbondantemente presenti anche in questo suo ultimo album, Brand New Life. Ad un immediato e veloce ascolto esplorativo mi pareva di aver trovato questo disco un po’ al di sotto delle mie aspettative, almeno se paragonato al precedente, Somewhere Different, uscito due anni fa sempre per la medesima, iconica etichetta Impulse! [potete trovare questa recensione insieme a maggiori note biografiche sulla Younger giusto qui]. Ulteriori ascolti hanno invece modificato la mia prima, improvvida sensazione e mi sono maggiormente convinto dell’effettiva bontà di Brand New Life. Si tratta di un’opera di elevata qualità a cui però occorre avvicinarsi con una certa arrendevolezza per godere della sua piena amabilità ed esserne così gratificati. Come già suggeriva la stessa Autrice presentando il precedente album, questa musica ha una propria costruzione apparentemente semplice ed un immediato profilo percettivo, ragion per cui si dovrebbe accostarla prendendo atto della sua forma eterea e della novità degli inserimenti contemporanei legati alla cultura hip hop e soul, senza pregiudiziali o fraintendimenti interpretativi. L’album, infatti, è un sentito omaggio ad una pioniera dell’arpa jazz come Dorothy Ashby, morta nel 1986 poco più che cinquantenne. La Younger ripropone dunque alcuni brani di questa grande arpista scomparsa, scegliendo tra quelli editi ed altri mai pubblicati ed infine rielaborandone alcuni secondo una visione più moderna dentro cui rientrano, in controllati flussi sonori, gli stimoli musicali della nostra epoca. Così facendo si mettono direttamente a confronto le linee armoniche della Ashby con le istanze più attuali delle nuove generazioni di musicisti e questo al di là dei generi abitualmente consolidati.

Continua a leggere “Brandee Younger – Brand New Life (Impulse!, 2023)”

Ben Wolfe – Unjust (Resident Arts Records, 2023)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il Jazz è un atto immediato di espressione emozionale. Una sintesi tra il qui ed ora e la sua memoria storica. Uno sviluppo continuo da non leggersi secondo una logica lineare ma come espressione circolare, una musica che torna spesso a verificare sé stessa, come per cercare sicurezza ed accertarsi delle sue fondamenta. Prendiamo ad esempio l’ultimo lavoro del contrabbassista americano Ben Wolfe, Unjust, più precisamente il suo decimo disco da titolare. Questo musicista si è creato un curriculum di tutto rispetto avendo lavorato con Wynton Marsalis – ed anche, in parte, col fratello Brandford – entrando poi nell’orchestra di Harry Connick jr. e partecipando ad una tournee con Diana Krall, oltre alle collaborazioni con due nomi dell’eccellenza pianistica statunitense come lo scomparso Frank Kimbrough e Marcus Roberts. In questa incisione, tra l’altro, in aggiunta allo stesso Wolfe, trovano spazio alcuni musicisti a cui Off Topic ha dedicato spesso una particolare attenzione, come Immanuel Wilkins al sax contralto – trovate una sua recensione qui – e il vibrafonista Joel Ross – se cercate qui e qui di recensioni ne trovate addirittura due. Partecipano inoltre all’impresa il trombettista Nicholas Payton, i pianisti Addison Frei e Orrin Evans, Aaron Kimmel alla batteria e la tenor-sassofonista Nicole Glover. Ebbene, questo album, dimostrando un evidente bifrontismo concettuale, paga un importante tributo alle radici swinganti del jazz, al bebop, alle classiche ballad con tanto di sax fuligginoso ma aggiungendo a queste atmosfere urbane quell’oncia di modernità che fa di questa musica non solo il racconto di una storia dai lontani natali ma anche il riflesso di una effervescente contemporaneità. L’incedere notturno del contrabbasso e il suo loquace dialogo con la batteria, le sonorità spesso voluttuose dei fiati, gli interventi misurati dei pianisti e l’impronta brillante del vibrafono sono tra gli elementi che soddisferanno ampiamente tutti i jazz-addicted, nessuno escluso. Unjust mostra quindi un certo piglio old-fashioned all’interno di cui possiamo intravedere le ombre di Monk, di Mingus, del Modern Jazz Quartet fino alle visioni più cool di un Gerry Mulligan. Il rischio è che da un certo punto di vista possano venire evocate alcune fascinose immagini di luoghi comuni ormai appartenenti più alla mitologia del jazz che non all’attualità, cioè le strade congestionate di traffico frenetico, panoramiche di notturni boulevard sotto la pioggia con le immancabili luci artificiali riflesse sull’asfalto. Eppure, al di là di ogni banale interpretazione retorica, queste immagini rimangono, nonostante tutto, indelebilmente tatuate nella memoria comune. In fondo anche nel jazz sussiste un certo romanticismo che alle volte si ha persino paura di nominare – per non essere tacciati di passatismo – che sopravvive tra le radici di questa musica, anzi, ne costituisce un supporto irrinunciabile.

Continua a leggere “Ben Wolfe – Unjust (Resident Arts Records, 2023)”

Makaya McCraven – In These Times (XL/Nonesuch/International Anthem, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Credo di averlo ribadito già più volte e proprio qui, sulle pagine di Off Topic, che il jazz di Chicago non è solo il riferimento attualmente più importante negli USA ma è forse una delle proposte più innovative di tutta la musica contemporanea. È chiaro che in questa circostanza la vexata quaestio riguardi il significato letterale del termine ”jazz“ come del resto, l’autore di In These Times, cioè Makaya McCraven, ha così sottolineato:  “Cerco solo di creare la miglior musica possibile e non so neppure se chiamarla jazz…  e forse non è necessario etichettarla in questo modo” (da All About Jazz – 29/01/21). Ma come mai il batterista McCraven si schermisce nell’attribuirsi questo ruolo di jazzista? Non siamo alle soglie di alcun utopismo musicale, McCraven non è un teorico – anche se si fa chiamare “scienziato del ritmo” e definisce la sua musica come “organic beat music” – bensì un musicista che agisce diacronicamente su ciò che suona e non solo per quello che riguarda i consueti approcci improvvisativi. L’azione, in realtà, si prolunga oltre l’incisione musicale in sé. Come già fecero, in passato, Miles Davis con il suo produttore Teo Macero, sui nastri o comunque sulle tracce raccolte vengono operati dei tagli, delle cuciture, degli assemblaggi trasversali tra celle musicali differenti per ottenere una sorta di musica “reinventata”, prolungando il lavoro creativo oltre i limiti della pura performance. Inoltre McCraven accoglie nelle sue composizioni tutto ciò che può apparirgli congeniale, dagli archi ai droni di sottofondo, dai suoni urbani contemporanei dell’hip-hop al dub e ai ritmi jungle, inserti modali, soul music, spiritual jazz… Persino la scelta degli strumenti è estremamente fluida per cui ai tradizionali elementi dei gruppi jazz si aggiungono arpe, flauti traversi, marimbe, sitar, quartetti d’archi ed altro ancora. Pur non essendo originario di Chicago – McCraven è infatti nato in Europa, a Parigi, nel 1983 – qui si è trasferito a 24 anni, dopo una prima residenza nel Massachusetts. Ma è proprio nella Città Ventosa che il batterista franco-americano viene ben presto ad includersi nella scena musicale della città, tesa tra avant-garde e tradizione. Ora, dopo aver pubblicato il suo primissimo disco da titolare nel 2012 – Split Decision – e dopo una serie di interessanti uscite tra cui l’ultimo, acclamatissimo Deciphering The Message dell’anno scorso, McCraven propone un album con undici tracce, registrate in cinque studi differenti e in quattro performance dal vivo.
Questo lavoro ha richiesto una preparazione durata circa sette anni, avvenuta tra l’altro in contemporaneo allestimento di tutte le altre pubblicazioni, a cominciare da In The Moment del 2015. Sembra proprio che In These Times si sia voluto rappresentare una sorta di sintesi complessiva dell’estetica musicale di McCraven, quasi a tirar le fila di un discorso iniziato diversi anni fa e mai portato definitivamente al suo compendio. L’Autore viene accompagnato da una quindicina di elementi, tra cui qualche nostra vecchia conoscenza come Brandee Younger – una recensione la trovate quiJoel Ross – anche lui è recensito quiGregg Spero – potreste dare un’altra occhiata quied una serie di altri validi musicisti che elencherò alla fine della recensione.

Continua a leggere “Makaya McCraven – In These Times (XL/Nonesuch/International Anthem, 2022)”

Joel Ross – The Parable of the Poet (Blue Note Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il modo migliore per affrontare la nostra epoca, fortemente ripiegata su sé stessa, sembra essere quello di superare il progressivo nichilismo che ci avvolge come un velenoso rampicante. Per ogni verità che appaia tale se ne profila un’altra antitetica e la Musica, come l’arte in genere, avverte questo conflitto esprimendosi come può, suggerendo la speranza di qualche soluzione positiva. Su questa linea costruttiva si dimostra il vibrafonista Joel Ross, uno tra i riferimenti più luminosi dell’attuale, variegata scena jazzistica statunitense. Insieme ad altri nomi altrettanto risonanti, tra cui Immanuel Wilkins e Marquis Hill, Ross è protagonista di questa ultima prova dal titolo suggestivo, The Parable of The Poet. Un album complesso, a tratti scorrevole e tranquillo, in altri più turbinoso e agitato. Acque trasparenti e torbide che si alternano a testimonianza di come lo spirito del nostro Tempo sia tribolato e mutevole, con grande difficoltà nel reperire punti fermi, con avvenimenti che sembrano sempre sfuggire di mano da un momento all’altro. Ross ha l’idea che il limite tra musica scritta e improvvisata, una volta facilmente rintracciabile nel jazz come espressione di momenti separati – esposizione del tema, giro d’improvvisazioni, recupero del tema iniziale ecc – debba essere rivisto e riproposto in altra forma. Riascoltando le proprie improvvisazioni, Ross recupera da queste alcune frasi sonore su cui elabora una nuova scrittura per proporre poi il tutto in questa attuale veste, se vogliamo, di “recupero”. Una volta realizzato ciò, la musica viene proposta agli strumentisti – che hanno con lo stesso vibrafonista forti legami d’amicizia – su cui ciascuno elaborerà, al di là della lettura obbligata delle parti tematiche, una propria creazione estemporanea. Si ottiene così una dinamica ciclica dalle forti connotazioni emotive che teoricamente potrebbe continuare all’infinito. Al di là delle osservazioni tecniche, questo lavoro di Ross può essere visto in forma di suite, collegando idealmente i vari brani tra loro con quel substrato di corrente spirituale che scorre come un fiume sotterraneo tra i solchi del disco. Perché una delle vere ragioni di una musica come questa è il sentimento quasi religioso che si libera dalle note, come si trattasse di una preghiera, con le sue umanissime scorie di risentimento e di accesa speranza, di devozione e di pentimenti. Insomma, un unico, lungo gospel contemporaneo in cui il Poeta traccia la sua parabola con i mezzi a disposizione, in questo caso una musica che a tratti diventa bellissima e coinvolgente ed in altri momenti sembra annegare in stati di temporaneo smarrimento.

Continua a leggere “Joel Ross – The Parable of the Poet (Blue Note Records, 2022)”

Greg Spero – The Chicago Experiment (Ropeadope Records, 2022)

R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Non potrei dire che la musica di Greg Spero & Co. sia completamente nuova perché in questo The Chicago Experiment, dove si ascolta un po’ di tutto, ogni cosa è stata masticata e ben digerita, dall’hip hop al soul, dal nu jazz al funky groove fino al free jazz che proprio a Chicago ha vissuto momenti gloriosi con l’Art Ensemble e l’AACM. Comunque sia, sarà l’impressione rilassata che questo album riesce a trasmettere o la mia personale convinzione ma questa musica potrebbe essere, in un certo senso, molto rappresentativa di questo secolo. The Chicago Experiment ha un fascino ammaliante, insinuante ed etereo che s’appropria dei nostri sensi pian piano senza un’apparente ragione strategica. Perché è certo che questo lavoro, una volta che proviamo a smontarlo, mostra delle singole parti che già conosciamo e che abbiamo ascoltato e metabolizzato da tempo. Però, una volta ricomposto l’intero, ci accorgiamo che la totalità ha un significato maggiore della somma dei frammenti ricomposti. L’interessante figura di Greg Spero, pianista di Chicago a cui è stato affidato il compito di organizzare questo Experiment, non è solo musicista compositore maanche proprietario a sua volta di una piccola etichetta musicale, la Tiny Room. Inoltre è un esperto di tecnologie digitali e di NFT (Token non fungibili), cioè strumenti assolutamente virtuali in grado però di certificare l’appartenenza e il copyright digitale di artisti che lavorano sul web. Occorre spendere due parole sulle motivazioni presenti alla base di questo album. La casa discografica americana Ropeadope – in realtà originata da un consorzio tra diverse etichette – ha ideato un progetto a largo raggio circa vent’anni fa con l’intento di dedicare una serie di “esperimenti” musicali a qualcuna delle città USA più rappresentative nell’ambito del jazz, assemblando e pianificando una serie di session e utilizzando musicisti che si muovono nell’area delle città designate. Così si è iniziato col Philadelphia Experiment nel 2001 con Christian McBride, Uri Caine e Pat Martino e si è proseguito nel 2003 con il Detroit Experiment che vedeva la partecipazione di Geri Allen, Amp Fiddler e Karriem Riggins. Nel 2007 Ropeadope fa uscire Harlem Experiment ma dopo di questo c’e stato un silenzio durato quattordici anni fino ad oggi.

Continua a leggere “Greg Spero – The Chicago Experiment (Ropeadope Records, 2022)”

Sito web creato con WordPress.com.

Su ↑