R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Il ritorno del vibrafono sulla scena jazz internazionale ha rievocato, soprattutto negli USA, il ricordo del leggendario Milt Jackson scomparso nel 1999. A dire il vero il suo mito non era mai tramontato ma, diciamo così, era stato leggermente oscurato dalla pletora di sassofonisti, trombettisti e pianisti che via via hanno riempito le cronache musicali jazz in questi ultimi dieci anni o giù di lì. Non che Jackson sia mai stato l’unico vibrafonista a cui richiamarsi, ricordo solo i nomi di Lionel Hampton, Gary Burton, Red Norvo, Roy Ayers, Warren Wolf tanto per citare a memoria, ma bisogna tener presente come, per i jazzisti nero-americani, furono proprio Milt Jackson e il suo Modern Jazz Quartet a costituire la vera stella polare, il riferimento stilistico per eccellenza. Gli ultimi personaggi più in vista come vibrafonisti sono stati i giovanissimi Joel Ross di Chicago e l’esordiente Jalen Baker di cui oggi ci occupiamo, che vanta tra l’altro con Milt Jackson anche una certa somiglianza fisica. Nato a Washington D.C. ma cresciuto a Houston, Baker ha avuto l’opportunità di essere prodotto, per il suo primo disco da band leader, dal batterista Ulysses Owen Jr. che l’ha ben apprezzato per averci suonato assieme, riconoscendo in questo giovane musicista la stoffa necessaria per farlo esordire in tutta scioltezza. Baker si differenzia da Joel Ross sul piano dell’impatto sonoro, forse meno trascinante di quest’ultimo ma più delicato, più aereo e con un’attenzione se possibile maggiore alla struttura musicale che si crea attorno al suo vibrafono.

Autore di tutti i brani del suo disco This is me, this is us, tranne l’ultima traccia che è di Stevie Wonder, Baker dimostra una sicurezza compositiva disarmante ed una scioltezza esecutiva invidiabile e viene da chiedersi come le scuole musicali americane siano in grado di formare musicisti di tale levatura tecnica. Lo swing non è più l’oggetto fondamentale di questi giovani che rispetto ai loro padri evidenziano un interesse multiforme per diverse figure musicali. Ad esempio in questo disco si trova un’affascinante collocazione per un quartetto d’archi a dare un colore del tutto originale alle composizioni presenti. Nelle intenzioni di Baker c’è la convinzione di condividere gli aspetti emotivi gioiosi e dolorosi che avvolgono l’umanità e di farsi interprete di questi sentimenti universali riproponendoli in forma musicale. In effetti il primo brano che apre il disco, So help me God pare un’invocazione, una richiesta d’aiuto che stimoli l’umanità a superare le salite più impervie che da sempre si trova ad affrontare. Il brano si divide in due parti, dove la prima viene introdotta da una formazione di archi, in un clima quasi ellingtoniano. La tromba di Giveton Gelin s’accompagna al vibrafono precedendo lo sviluppo della seconda parte, dominata alternativamente ora da Baker ora da Gelin, in una continua altalena vicendevole di richiami e di rimandi. Don’t Shoot s’annuncia con una ritmica di basso e l’accompagnamento degli archi che ricorda certe melodie di Piazzolla. Seguono poi un assolo di tromba e di vibrafono, con la chiusura vagamente romantica del piano di Paul Cornish. L’interludio breve, immediatamente seguente, apre la strada al quarto brano Healing che inizia con una linea di note ripetute dal vibrafono creando in progressione un sistema armonicamente complesso, con molti cambi di tonalità, molteplici incastri strumentali e variazioni ritmiche, e c’è pure lo spazio anche per un breve assolo di piano verso la fine. L’affascinante struttura del brano lascia piacevolmente sorpresi per ciò che riguarda la maturità compositiva ma del resto Baker, Ross e ad esempio il quasi coetaneo sassofonista Immanuel Wilkins sono l’esempio di tre giovani musicisti che ci stanno abituando a prove di questo tipo. Patience si presenta con un’introduzione di violino che finisce in una delicata, intima, avvolgente melodia, segnata anche da una sequenza di assoli di tromba e di vibrafono che ancora una volta s’inseguono reciprocamente sopra il sottofondo melodico degli archi. We regret to inform you ci riporta su piani più movimentati e meno raccolti. Un mid-tempo scandito dalla batteria ci offre qualche suggerimento fusion ed è un piacere rendersi conto della pulizia formale di questa costruzione. Tutti gli strumenti sono intellegibili, con ampi spazi attorno ad essi. La sensazione è di percepire un sistema unitario di suoni, senza sbavature né inutili sovrapposizioni. Praise ripropone grosso modo la stessa atmosfera del brano precedente ma è più melodica e ancor più controllata, se possibile, in un’ottica di moderazione dove si rende anche giustizia al bel pianismo di Paul Cornish. Di lui si avverte il canticchiare sullo sfondo, come fanno spesso i pianisti durante le improvvisazioni, utilizzando il loro sussurrare melodico come guida lungo la strada non facile della composizione estemporanea. Il vibrafono completa il tutto con la sua solita, aggraziata tendenza alla rifinitura armonica. In Faith la formazione si riduce momentaneamente a trio, con Baker supportato dalla discretissima batteria di Gavin Moolchan e il basso di Gabriel Godoy, finalmente con la possibilità di concedersi un breve ed espressivo assolo. In questa traccia si ripesca un po’ di quello swing che è stato l’anima del jazz più tradizionale e che viene ridimensionato dalle esigenze stilistiche più moderne, com’è quella appunto di Baker. Un ripescaggio che riporta ad un certo classicismo e che dimostra come questa band sia in grado veramente di suonare a 360°. Obey Disobey allarga il trio precedente in un classico quartetto includendo il piano ma riproduce, in qualche maniera, le stesse direttive di Faith offrendo all’azione swingante dei musicisti anche un alone piacevolmente romantico più vicino a Gary Burton che non a MIlt Jackson. Love’s in need of love today è affrontata in solitaria dal vibrafono di Baker che rispetta l’andamento di forma-canzone di Stevie Wonder, chiudendo l’album con una suggestione ottimista, almeno rispetto ai più partecipati e commossi brani iniziali. Un disco che illumina le capacità compositive dello stesso Baker e ne rimarca la maturità progettuale, offrendo nel contempo numerosi spunti di riflessione sul destino della musica jazz. Che si stia cambiando strada è sotto gli occhi di tutti, anche se la direzione è però ancora tutta da verificare. Comunque i risultati ottenuti da un lavoro come questo fanno ben sperare in futuro sempre più luminoso…
Tracklist:
01. So Help Me God
02. Don’t Shoot
03. Interlude (Prayer for the Fallen)
04. Healing
05. Patience
06. We Regret to Inform You
07. Praise
08. Faith
09. Obey Disobey
10. Love’s In Need of Love Today
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