I N T E R V I S T A
Articolo di Stefania D’Egidio
Riflettevo sul potere della musica: un giorno ti arriva un press kit e il nome dell’artista ti ricorda vagamente qualcosa, un attimo dopo ti tornano in mente i sapori di casa, gli odori della piccola via dove hai trascorso la tua infanzia e quel bar all’angolo dove andavi a comprare il Cucciolone, dopo aver giocato, per ore e ore, a nascondino con gli altri bambini del quartiere. La vita a volte fa giri strani e ti ritrovi a 500 km di distanza ad ascoltare i brani di un ragazzo che è partito dal tuo stesso paese, anche se una ventina di anni dopo te, in cerca della sua strada…
Questa volta ho il piacere di intervistare Francesco Savini, cantautore classe 1996, abruzzese doc, ma milanese di adozione.

Quando hai capito che la musica era la tua strada?
Sono sempre stato attratto dalla musica fin da piccolo quando cantavo le canzoni dello Zecchino d’oro, ma ho capito che era davvero la mia strada quando ho fatto il mio primo concerto a quattordici anni. Ricordo tutto di quel giorno e ricordo anche che da lì la mia vita cambiò, non solo da un punto di vista di priorità, ma soprattutto nel modo di relazionarmi con le altre persone.
Chi sono i tuoi modelli?
Ho sempre avuto tanti modelli di riferimento essendo cresciuto con tanti generi musicali. A quattordici anni scrivevo in inglese e i miei modelli erano i Bon Jovi, Aerosmith, Guns’N’Roses; poi ho scoperto gli Alter Bridge e Myles Kennedy che ho preso come modello per imparare a cantare. Mi sono approcciato alla scrittura in italiano solo da qualche anno e lo devo soprattutto a Cesare Cremonini, Lucio Dalla, Vasco Rossi.
Scrivi prima i testi o la musica?
Di solito scrivo prima i testi. Ho sempre trovato più semplice scrivere le melodie rispetto ai testi e per questo motivo preferisco concentrarmi prima sul testo fino a quando non ne sono soddisfatto al 100%, per poi dedicarmi alla musica che di solito arriva molto velocemente.
Ho sempre pensato che scrivere testi in italiano fosse molto più difficile che in inglese, lingua molto più sintetica della nostra: pensi che la canzone debba essere solo orecchiabile o che debba veicolare anche messaggi a sfondo sociale?
Secondo me non c’è un “più facile” o un “più difficile” nella scrittura in italiano o in inglese. Anche io penso sia più facile per me scrivere in inglese, ma perché è una lingua di cui ho un vocabolario limitato e di conseguenza anche i contenuti sono limitati. In italiano invece per esprimere un concetto ci sono mille modi perché conosco il vocabolario e quindi la scelta è molto più complessa ed articolata.
Per me la canzone serve per veicolare un messaggio sia testuale che musicale. Quando scrivo non voglio mai trovarmi a sacrificare l’aspetto musicale a favore di quello testuale e viceversa. A mio avviso però non c’è sempre bisogno di un messaggio a sfondo sociale, a volte basta anche un testo o una melodia che ci renda spensierati per quei tre minuti e che magari ci torni in mente per trasmetterci tranquillità quando siamo stressati. La bellezza della musica è anche questa.
So che David Bowie e Brian Eno per buttare giù i testi ricorrevano a un gioco di carte, ognuna delle quali conteneva una parola: tu da cosa parti per scrivere?
Non sapevo di questa storia e credo proprio che ne farò uso, grazie mille! Solitamente per scrivere parto da un gioco di parole. Mi piace usare le parole, vedere da cosa sono composte e poi girarle in base ai vari significati che possono ottenere. È uno stratagemma che uso molto e devo dire che mi diverte anche un casino!
Si dice sempre che gli artisti di adesso vadano avanti a suon di like o con i talent show senza fare la tradizionale gavetta: è davvero così? Cosa deve fare un musicista per sopravvivere in tempi di covid?
Secondo me non bisognerebbe fare di tutta l’erba un fascio. È vero, i talent negli ultimi anni hanno rappresentato il successo per molti artisti, però è anche vero che ce ne sono molti, come i Pinguini Tattici Nucleari, i Coma_cose, Wrongonyou, ecc.. che sono anni che fanno parte della scena e solo adesso stanno ottenendo ciò che meritano da tempo. La mia filosofia è lavorare, lavorare, lavorare e cercare di fare più cose possibili. Credo che la gavetta sia quella fatica enorme che però alla lunga darà i frutti più buoni. Mi piace pensarla così. Questo ragionamento si estende anche alla seconda domanda: per sopravvivere in tempi di covid bisogna lavorare ancora di più, perché quando si tornerà alla normalità bisognerà farsi trovare pronti!
Vieni, come me, da una piccola città di provincia: pensi che l’attaccamento alle radici sia importante per un artista o sia più importante aprirsi al mondo?
Penso che l’attaccamento alle radici sia importante per creare la persona, ma bisogna poi aprirsi al mondo per mettersi in gioco. A 18 anni, finito il liceo, sono partito per Londra insieme alla mia vecchia band per inseguire il sogno di suonare all’estero, e naturalmente non abbiamo fatto niente.
Quell’esperienza mi ha insegnato che per ottenere qualcosa bisogna pianificare prima nei minimi particolari ed è il pensiero che mi porto dietro da allora e che metto in pratica anche nel mio progetto.
In Italia purtroppo l’arte e la cultura sono sempre relegate in fondo alla lista delle priorità per la nostra classe politica: ti piacerebbe fare un’esperienza all’estero?
Cavolo, ho risposto alla domanda prima ancora che me la potessi porre! Scherzi a parte, posso dire che sono stato a Londra e mi è piaciuto da matti, però mi piace molto anche stare in Italia. Non ho idea di cosa mi riservi il futuro, ma so per certo che un’esperienza come quella di qualche anno fa la ripeterei molto volentieri.
So che hai frequentato il CPM di Franco Mussida e che hai scritto una tesi sul controverso rapporto tra musica e droghe nella psichedelia; nonostante siano stati anni fantastici per la musica per fortuna quei tempi sono passati: tu in cosa trovi l’ispirazione per comporre?
L’ispirazione per comporre la trovo nella vita di tutti i giorni: nelle persone sul tram, nei comportamenti degli amici, nelle cose che mi colpiscono più duramente. Per questo motivo il primo lockdown è stato molto impegnativo per la scrittura di canzoni perché per scrivere ho bisogno di vivere all’aperto. Adesso mi sono quasi abituato a questa situazione, quindi per comporre cerco di scavare dentro di me e utilizzare la canzone come sfogo personale.
Hai aperto con il tuo vecchio gruppo per i Linkin Park agli I-Days del 2017: quanto ti è mancata la dimensione live negli ultimi mesi?
Quanti ricordi mi stai facendo rivivere! La musica live è la mia vita e mi manca ogni giorno e ogni giorno sempre di più. Mi mancano l’adrenalina, la paura, il farmi trasportare dalla musica, ma mi manca anche assistere ai concerti, l’ansia che per qualche motivo sale prima che il tuo idolo stia per salire sul palco, l’abbracciare sconosciuti, urlare. Dio se mi manca tutto questo…
Negli ultimi due anni hai sfornato quattro singoli: Maratoneti racconta la tua generazione, stretta nella morsa degli errori politici del passato e ora privata anche della dimensione sociale nell’ultimo anno; tu stesso hai detto che, per scrivere, hai bisogno di vivere: credi ci sia ancora una chance per venirne fuori? Come lo vedi il bicchiere? Mezzo pieno o mezzo vuoto?
Cerco il più possibile di vedere il bicchiere mezzo pieno anche se spesso mi sento a pezzi e vorrei solo urlare. Come dicevo prima, l’unico modo per andare avanti è lavorare e cercare di sfruttare al meglio questo periodo in cui tutto è fermo per scrivere il più possibile.
Molto carino anche il relativo video: di solito dici la tua anche sulle immagini o ti affidi completamente a terzi?
Siamo un team, una squadra e lavoriamo insieme su ogni minima parte del progetto (eccetto la scrittura, per quello ho bisogno di restare solo con me stesso). Il video di Maratoneti ad esempio è stata una mia idea mentre il video de La facoltà del tempo perso è stata un’idea di Luca, il mio manager. Ogni lavoro è strutturato insieme ed è questo ciò che amo di più del mio progetto: credo che il lavoro di squadra sia una cosa molto importante nella crescita di un artista.
In Bombe Nucleari canti la fragilità dei rapporti umani e la dipendenza dai social media: quanto ha influito la pandemia sul testo?
La pandemia non ha influito molto se non per il chiudermi dentro casa affinché scrivessi la canzone. La cosa che ha influito di più è stata l’uscita di Maratoneti che mi ha tenuto per giorni incollato ai social network tanto da utilizzare il cellulare anche a pranzo e a cena mancando di rispetto a chi era con me. Sono stati episodi che mi hanno fatto riflettere molto e da lì è nata Bombe nucleari.
Aspetto con ansia il tuo primo album e mi auguro di vederti presto dal vivo, magari nella nostra Roseto degli Abruzzi, in una bella notte d’estate. In bocca al lupo per tutto!
Non dirmi così che altrimenti mi riempio di aspettative per l’estate e va a finire che ci chiudono anche lì ahahah.
Certo ci vedremo sicuramente a Roseto appena tutto passerà.
Crepi il lupo, un abbraccio!
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