L I V E – R E P O R T
Articolo di Claudia Losini, immagini sonore di Federico Cardamone
Anche quest’anno, a fine agosto, ci troviamo a fare i conti con l’estate finita, il rientro al lavoro, ma soprattutto a fare il resoconto del TOdays festival, che, da 8 anni a questa parte, ci accompagna verso settembre.
Cominciamo col dire che la line up di quest’anno è stata coraggiosa, con tanti nomi da scoprire durante il weekend, con Tash Sultana headliner il venerdì e FKJ il sabato, mentre il big di richiamo di questa edizione, i Primal Scream, sono saliti sul palco la domenica per un’unica data italiana celebrativa dei 30 anni di Screamadelica.
Ma, come è successo nel 2021, la scelta delle band non è casuale: nel rappresentare la contemporaneità e i suoni del futuro prossimo, anche questa volta Gianluca Gozzi ci sorprende e ci offre una selezione di musica di cui sentiremo parlare, e tanto, nei prossimi mesi.

A partire da Eli Smart, che ha avuto l’onore e l’onere di aprire non solo il venerdì, ma tutto il festival. Chiamato in sostituzione dei Geese, ha fatto ballare e divertire tutti con quello che può essere definito “aloha sound”: un indie rock dal sapore hawaiano. Non possiamo dire altro se non che sono stati irresistibili, non solo per il sound orecchiabile, ma per la loro energia, la gioia con cui ci hanno fatto sentire come se fossimo tutti ospiti a un loro party, e ci siamo tutti divertiti, senza troppi pensieri. Ma non è questo, anche, il senso della musica?
Tash Sultana è già considerata una celebrità, e sul palco ha decisamente fatto il suo dovere, lasciando prima tutti a bocca aperta padroneggiando non si sa quante loop station in uno one man band show che pareva quasi un djset da Sonar, poi ci ha concesso una pausa con la band, dimostrando che è anche una brava cantante. Devo confessare che con la band Tash Sultana perde un po’ di tono, ma in generale è una brava artista, una brava polistrumentista, forse il live dopo la metà diventa ripetitivo, d’altronde quando ci si basa su loop station la costruzione del pezzo segue quasi sempre le stesse fasi, ma in ogni caso ha chiuso nel migliore dei modi la prima serata che ha avuto alti e bassi.

La line up del venerdì includeva infatti, tra gli altri, uno dei nomi più chiacchierati del momento: i Black Country, New Road. Che, insieme agli Squid e agli Yard Act, in line up rispettivamente il sabato e la domenica, rappresentano i fenomeni giornalistici del momento.
Di questo gruppo ormai si chiacchiera più per il lascito del cantante e la forzata riorganizzazione della band, dove ora tutti cantano canzoni riadattate e sistemate, che hanno un impatto notevolmente diverso da ciò che tutti abbiamo sentito sul disco: purtroppo non penso verranno più citati come rivelazione dell’anno, nonostante tecnicamente siano bravi. Sono giovani, forse troveranno altri modi con cui crescere come nuovo gruppo, ma hanno bisogno di evolvere e di cambiare direzione, perché questa a quando si è sentito, forse non è quella giusta.

Se i Black Country, New Road non sottendono le aspettative, gli Squid e gli Yard Act letteralmente distruggono ogni aspettativa e portano sul palco due dei migliori live in assoluto del festival.
Gli Squid, in apertura il sabato, sono l’antitesi dell’headliner FKJ: se da un lato troviamo un pop elegante francese, romantico, un polistrumentista che ci ha invitato nel suo salotto (con tanto di divano, lampade e giradischi sul palco) per farci ascoltare la sua musica dolce sotto la pioggerella di mezzanotte, dall’altro gli inglesi di Brighton, usciti per la Warp, sono sudati, graffianti, cattivi, con la voglia di spaccare tutto e distruggerci le orecchie con un muro sonoro che ha lasciato tutti senza fiato e senza timpani.
Passiamo agli Yard Act, anche loro inglesi, di Leeds. Per parlare degli Yard Act dobbiamo parlare di tutta la giornata di domenica. A partire dall’altro, immenso gruppo in apertura: gli Arab Strap. Anzi, a partire dal talk di Maurizio Blatto sulle band scozzesi, e sulla storia della musica, sul fatto che i Primal Scream abbiano inventato un nuovo suono a fine anni 80, un acid house che si sposa con il rock, e che gli Arab Strap abbiano perfezionato il concetto di “piangere ballando”, spaziando tra rock psichedelico e sperimentale, arrivando al post rock e all’elettronica.

Sul palco di assistiamo quindi a una vera e propria lezione di storia della musica, raccontata dalla voce di Aidan Moffat: gli Arab Strap sul palco sono eccellenti, e ci insegnano che certe sonorità rimangono, anche nel corso di decenni, attuali. Cosa che gli yard Act hanno compreso benissimo: il live è energetico, unisce spoken word, attitudine punk un po’ “rotten” tipicamente inglese, e sfumature di indie rock alla Rapture che ci fanno capire che il fenomeno dell’indie sleaze è solo all’inizio. Sentiremo sempre più spesso suoni che arrivano dagli inizi 2000.
Nel mezzo i DIIV, che ci offrono una pausa melanconica di nu shoegaze, che, per quanto suonata bene, non fa altro che ricordarci gli anni trascorsi dal 2011, tempo dell’uscita del loro primo album, a oggi: non è cambiato nulla, per i fan nostalgici di questa ondata musicale.

E arriviamo all’annosa questione della domenica: i Primal Scream. La band più attesa del festival, chiamata a chiudere questa lezione di storia con il live dedicato ai 30 anni di Screamadelica, un album che tutt’ora suona come fosse prodotto ieri. Grazie anche a Andrew Weatherall.
Purtroppo non è andata come il pubblico si aspettava, il live è stato senza mordente, quasi come se la band fosse disunita, Gillespie e gli altri ci fanno ascoltare solo due brani del loro capolavoro, uno in un bis forse forzato. Fa effetto trovare a chiedersi se sia stata “colpa” della potenza e dell’energia esplosiva degli Yard Act, oppure se, a volte, non sia meglio che una band che ha fatto la storia rimanga nella storia senza il bisogno di tornare a suonare dal vivo.
Tra le sorprese positive, l’enorme quantità di fan dei Molchat Doma, band bielorussa di new-wave cantata in bielorusso: nonostante il temporale che si è abbattuto sul concerto, sono rimasti tutti sotto il palco a cantare e a divertirsi. Non interessa tanto il sound, che non è poi così originale, ma l’impressione è che sia tutto al posto giusto: dai lampi, alla pioggia, ai capelli del cantante che ondeggiavano al ritmo del pubblico in visibilio. Chi se lo sarebbe immaginato? Forse i veri vincitori morali, insieme a Eli Smart, sono loro.

Quello che il Todays ci vuole insegnare, in tutti questi anni, è che bisogna continuare a credere: a credere nel potere della musica, nelle proprie passioni, nell’andare avanti anche con scelte apparentemente sfidanti, e nelle sorprese, perché le cose migliori si possono trovare sotto un palco tra la folla che rimane nonostante la pioggia o la polvere tra i capelli, nelle band che non ti aspettavi di vedere e in quelle che confermano le tue aspettative, nelle persone che ritrovi e in quelle che conoscerai. Perché in fin dei conti è la musica quel collante che non ci fa smettere di credere, di sognare, di tornare sotto quel palco tutti insieme. E forse non è questo il senso della musica?



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