[Illustrazione di Ana Isabel Gil]

50 album (più 1) per scandagliare il 2017 in musica. Ancora una volta si è assunto oneri e onori Simone Nicastro che con grande attenzione e competenza ha ripercorso un anno ricco di proposte interessanti e stimolanti. Lo ha guidato la curiosità, indole che noi di Off Topic apprezziamo molto, lo ripetiamo sempre. La classifica stilata da Simone non ha la pretesa di essere esaustiva, tantomeno di incontrare il gusto di tutti: vuole essere un momento di confronto, lo spunto per una riflessione, l’occasione per scoprire ciò che è sfuggito o trovare conferma alle proprie preferenze. L’importante è che leggiate e ascoltiate con mente aperta e che vi lasciate trasportare in quello stupendo viaggio che la musica sa offrire. Sì, perché la musica è viaggio, conoscenza, scoperta e incontro!

Il nostro augurio per il 2018 che sta per arrivare è che siate curiosi anche voi, che siate anche voi delle voci fuori dal coro, che non vi fermiate alle certezze del “conosciuto” ma che abbiate la voglia di rischiare!

(La redazione)

Articolo di Simone Nicastro

51° Best Album 2017: Depeche Mode – Spirit

Anche il 2017 è in dirittura d’arrivo ed eccomi, come di consueto, alla classifica di fine anno dei miei album preferiti degli ultimi 12 mesi. Di solito la mia lista si compone di 50 nuovi dischi ma farò un’eccezione per i Depeche Mode. L’album mi ha molto deluso (per non parlare del live di San Siro) ma per me è fisicamente impossibile non citarli quando escono con canzoni inedite (si chiama amore e gratitudine). Però non sarei a mio agio nell’inserirli nella vera lista dei 50. Sorry.

50° Best Album 2017: Poni Hoax – Tropical Suite

Il French Touch non interessa solo la musica “dance”, è un’attitudine precisa, un modo di segnalarsi sofisticati senza però diventare formali se non addirittura kitsch. I parigini Poni Hoax, al quarto lavoro in studio, si confermano una band esemplare nell’essere in equilibrio tra derive artsy e rotondità wave, senza mai perdere di vista una certa “orecchiabilità”. Ad oggi “Tropical Suite” è senza dubbio il loro miglior album e un eccellente punto di partenza per chi ancora non li conoscesse.

49° Best Album 2017: Baustelle – L’amore e la violenza

Dopo la sbornia neo classica/cantautorale e un po’ soporifera di “Fantasma”, Bianconi e soci tornano a fare quello che san fare meglio: mosaici di citazioni pop rock, cinismo letterario e fotografie sensualmente decadenti. “Amanda Lear”, “Ragazzina” e la simonelenziana “Eurofestival” sono perfetti deja vu che ci riportano ancora oggi a quando noi maschietti ci innamorammo tutti di Rachele e le femminucce scoprirono un nuovo tipo di romantico a Milano chiamato Francesco. I nostri anni tra Martina, Charlie e Betty non sono ancora finiti.

48° Best Album 2017: Elder – Reflections of a Floating World

Lo stoner rock senza paura, quello che si permette di sprofondare nell’oscurità doom, attraversare le tempeste psichedeliche, cavalcare lunghe divagazioni progressive e raggiungere infine le stelle con maestria e espressività epica. Solo sei brani per più di un ora di musica chiarisce all’istante la materia di cui è fatto questo album degli Elder, che tra il versante Sabbath e l’origine Crimsoniana, passando per gli imprescindibili Sleep, propendono in realtà per una lisergico e contaminato romanticismo senza età. Non solo per appassionati.

47° Best Album 2017: Ibeyi – Ash

Le sorelle franco-cubane Diaz proseguono nel loro percorso con un valido secondo album che se da una parte le conferma tra le più “pure” interpreti di quel r’n’b sperimentale tra minimalismo strumentale e infiltrazioni pop/elettroniche dall’altra parte si ispessisce su connotazioni politiche e sociali grazie anche a collaborazioni “di peso” come Kamasi Washington, Chilly Gonzales, la rapper spagnola Mala Rodriguez e con addirittura una incursione “virtuale” di Michelle Obama. In ascolto però la breve delizia catchy di” I Wanna Be Like You”.

46° Best Album 2017: Stars – There Is No Love in Fluorescent Light

Quest’anno nella mia lista saranno presenti una serie di artisti canadesi che oltre al proprio progetto confluiscono tutti anche in una realtà più “composita” (il cui album troverete più avanti). Cominciamo con gli Stars che per tutti gli anni zero, tra alti e bassi, rappresentano comunque una certezza per tutti gli amanti dell’indie rock zuccheroso e melodico, sempre accessibile ma molto più stratificato di quanto possa sembrare ad un ascolto superficiale. Canzoni per tutte le stagioni dell’anno (e forse della vita).

45° Best Album 2017: Walt Wagner – Reworks (Live at Canlis)

Chi mi conosce sa che il mio strumento preferito è il piano (e tutte le sue incarnazioni). Quindi ho un debole per i pianisti, di qualsiasi estrazione, e mi piacciono molto gli album in cui questi diventano protagonisti assoluti. Walt Wagner ha 73 anni e per vent’anni si è esibito nel “piano bar” del rinomato ristorante Canlis di Seattle. Nella sua lunga carriera ha collaborato con artisti rinomati dello show business americano e, con la sua band “The Exotics”, è stato un punto di riferimento per la musica della città per tutti gli anni 50 e 60. Nel 2016 la mitica etichetta Sub Pop l’ha convinto a rileggere e suonare alla propria maniera, nella sua ultima esibizione presso il Canlis, brani dei Fleet Foxes, Phoenix, Prince, Band of Horses, My Bloody Valantine e DJ Shadow. Nel 2017 l’album è stato pubblicato con il titolo “Reworks”. Nonostante non vorrei mai mettere dischi live nella classifica di fine anno alla fine ci casco sempre!

44° Best Album 2017: Mauro Ermanno Giovanardi – La mia generazione

Come per la posizione precedente anche in questo caso possiamo ascoltare rielaborazioni di brani di altri artisti in chiave decisamente personale: solo che in questo caso l’artista in questione è stato anche tra le voci più autorevoli di quel decennio fenomenale di album “alternative” italiani (gli anni 90) di cui questo lavoro in studio non solo è una celebrazione ma soprattutto un atto d’amore con il cuore ben piantato nell’oggi di Mauro Ermanno Giovanardi, il Gio dei mai dimenticati La Crus. Csi, Afterhours, Casino Royale, Bluvertigo, Ustmamò, Ritmo Tribale e altri che con queste (e tante altre) canzoni hanno lasciato un segno indelebile nella storia musicale di questo paese. Nonostante qualcuno ancora oggi faccia finta di niente.

43° Best Album 2017: Washed Out – Mister Mellow

Ernest Greene con il suo progetto Washed Out ha veramente molti detrattori: da chi l’accusa di un appiattito e inflazionato revivalismo a chi non sopporta la monotonia del suo cantato sullo sfondo. Lui incurante delle critiche si è riproposto ad inizio estate con un terzo long playing, a quattro anni dall’ultimo EP, che varia di ben poco la sua formula chillwave/glo-fi aumentando solamente il numero di riferimenti all’interno del suo abisso di loop, synth e pattern lisergici. Soundtrack malinconicamente lounge per un breve viaggio/trip dai ricordi sfuocati, incontri improbabili e strade forse sbagliate. Sempre che sia possibile trovare quelle giuste.

42° Best Album 2017: The Dream Syndicate – How did i find myself here?

Ho sempre avuto sentimenti contrastanti per la creatura di Steve Wynn: da qualche parte in casa ho ancora la meravigliosa e consumata musicassetta di “Medicine Show” (anche se temo che il nastro sia ormai smagnetizzato) ma da un’altra parte (del cervello) ho i ricordi di album a seguire non proprio degni di quel capolavoro. In effetti anche i dischi solisti di Steve durante gli anni 90 e 2000 sono stati a volte delle gradite sorprese e delle altre ascolti non proprio da ricordare. Quindi ad essere sinceri pensavo che il ritorno di un album a nome The Dream Syndicate, a distanza di 23 anni dall’ultimo, fosse più un azzardo che altro. E invece dopo un paio di ascolti allo stupore si è unito un senso di gratitudine per una band che non si è tirata indietro né dalla sua grandezza passata né da tutta l’acqua passata sotto i ponti in questi decenni, riuscendo a confezionare un best of di tutte le proprie qualità pur introducendo alcuni elementi di novità. Non solo “Paisley Underground” (se mai fossero stati solo quello) ma solo uno dei più talentuosi gruppi rock in attività. Grazie.

41° Best Album 2017: Lali Puna – Two Windows

Un altro ritorno anche se con tempistiche molto inferiori a quello dei The Dream Syndicate recensiti precedentemente: solo 7 anni (in realtà un’era geologica nella frenesia di questi tempi). Alfieri dell’indietronica di inizio anni zero, i Lali Puna hanno visto il loro culto probabilmente ridursi ma mai spegnersi del tutto e ora a ranghi ridotti (Markus Acher dei The Notwist ha abbandonato il progetto) sono tornati con questo “Two Windows” che non solo li vede in grande forma ma aggiunge alle loro classiche sonorità “glitch” e sintetiche accenti vagamente new-soul elettronico. Inoltre dell’LP mi fa piacere segnalare uno dei brani pop a mio avviso più belli dell’intera annata: “Deep Dream”.

40° Best Album 2017: Jen Cloher – Jen Cloher

C’è stata molta attenzione da parte della critica indie per l’album duetto di Courtney Barnett e Kurt Vile “Lotta Sea Lice” con alla fine della fiera giudizi molto contrastanti (per inciso a me non è dispiaciuto) ma  qualche mese prima la Milk! Records, etichetta della Barnett, ha pubblicato un album ben più pregevole e incisivo di quest’ultimo: “Jen Cloher”, il self titled dell’artista australiana è una vera e propria bomba folk-rock con testi diretti e affilati, atmosfere schizoidi e chitarre acustice/elettriche sghembe e irresistibili. 11 esempi di nitido rock’n’roll triturato in decine di possibili attinenze con i più grandi maestri/e. Ben fatto veramente Jen!

39° Best Album 2017: Beck – Colors

Il genietto losangelino è tornato, più pop che mai e meno lo-fi di sempre. Ha raccolto le idee e si è divertito a sbugiardare chiunque abbia azzardato che la sua parabola sia ormai in fase calante. La solita voce “scazzata” su una serie di canzonette piene di groove, tastierine zuccherose e memorie dance. Per non parlare di forse la miglior canzone dei Police non scritta da Sting e soci, “No Distraction”, e l’irresistibile funky-discomusic del singolo “Up All Night”. Mai prevedibile Beck continua a muoversi di qua e di la ad ogni uscita senza però perdere mai di vista il suo unico obiettivo: musica di qualità per i gusti di tutti.

38° Best Album 2017: Edda – Graziosa Utopia

Contrariamente all’opinione che forse va per la maggiore tra la critica di settore, non so se la strada intrapresa da Edda verso un pop-rock più confezionato e quindi più accessibile sia quella migliore da percorrere. Certo l’immediatezza dei nuovi brani è un “bell’ascoltare” con arrangiamenti più curati, rotondi e fluidi ma la vena irruenta, imprevedibile e carnale dell’ex voce dei Ritmo Tribale, per quanto mi riguarda, resta un po’ sacrificata rispetto ai dischi precedenti. Tutto questo non toglie nulla all’ennesimo centro per un artista che si immaginava perso per sempre e che negli ultimi anni invece ci sta regalando una serie di canzoni tra le cose migliori realizzate nel nostro paese. Oltre evidentemente la straordinarietà e unicità della sua voce.

37° Best Album 2017: Syd – Fin

Sydney Bennet, cantante e producer nella band The Internet, ha deciso di inaugurare la sua carriera solista con un album che guarda al passato, al presente e al futuro in egual maniera. L’album si muove tra l’hip hop di nuova generazione e un r’n’b anni 90 su cui i testi spaziano dai ringraziamenti dovuti a chi ha creduto in lei alle accuse e rimproveri verso gli “haters” non dimenticando l’argomento di una sessualità non proprio vissuta con tranquillità. La qualità vocale della cantante è di indubbio valore sia nel flow che soprattutto nel cantato (nu) soul trasportando gli ascoltatori su basi più vuote che piene e per questo terribilmente inebrianti. Con un maggior distacco dalla matrice della band (qui ancora troppo evidente) la ragazza potrebbe stupirci molto nel prossimo futuro (è del 1992 tanto per chiarirci).

36° Best Album 2017: The War On Drugs – A Deeper Understanding

Non ci sono dubbi che questi sono gli anni di Adam Granduciel e della sua creatura The War On Drugs. Il suo frullatore di rock in dipendenza 80’s ha il coraggio di shakerare insieme Petty e il “Boss”, Dylan e la malinconia dei Dire Straits, una leggera psichedelia alla Young e un attitudine quasi AOR. Il miracolo è riuscire a fare tutto ciò, non solo risultando perfettamente a proprio agio, ma continuando a macinare attestati di stima da parte degli appassionati (e non) del genere e, tra l’altro, in continua crescita a livello numerico. L’album non raggiunge l’apice di quello precedente ma conferma decisamente lo stato di grazia in cui versano in questo momento storico l’autore e la sua band.

35° Best Album 2017: Piano Magic – Closure

Inutile prenderci in giro: la musica è sempre un fattore personale, è legata a doppio filo con la nostra vita, con gli avvenimenti, gli incontri, i dolori e le piccole felicità di tutti i giorni. A volte è solo colonna sonora e a volte qualcosa di più, di molto di più. Ci sono canzoni per brevi momenti e opere destinate a rimanere lì in quell’angolo della mente (e dell’anima) fino alla fine dei nostri giorni. Ci sono artisti che vediamo nascere e alcuni che possiamo solo ritrovare. Altri ancora appaiono solo in qualche luogo strano del nostro percorso. I Piano Magic li ho visti nascere e quest’anno ne ho potuto, purtroppo, constatare la fine con “Closure”, il loro ultimo album. Ecco loro “quell’angolo” se lo sono conquistati e non l’hanno mai abbandonato. Grazie di cuore per questi vent’anni a Glen Johnson e a tutti coloro che l’hanno assecondato.

34° Best Album 2017: Hercules & Love Affair – Omnion

Quando riappare Andrew Butler, l’artista dietro gli Hercules & Love Affair, per me è sempre cosa buona e giusta. Pochi come lui hanno lasciato il segno negli ultimi anni in quella scena dance capace di flirtare con l’electro, l’house e un’attitudine “art” senza risultare caotici. Dopo un periodo di abusi di alcol e droghe. Andrew è ricomparso con un quarto album come sempre ricco di ospiti alle voci e ancor più multi genere del solito, calibrato però su una forma canzone pop-standard per quasi tutti gli 11 episodi della raccolta. Nel giorno in cui scrivo è previsto tra l’altro un loro concerto a Milano a cui purtroppo non riuscirò a partecipare. Quindi alla prossima in tutti i sensi!

33° Best Album 2017: Florist – If Blue Could Be Happiness

I Florist di Emily Sprague sono una di quelle esperienze che mai mi sarei aspettato mi entrassero così rapidamente nel cuore. Ma è proprio il cuore ad essersi messo di mezzo davanti a questo folk sussurrato e melanconico che a stento riesce ad uscire dalla cameretta di questa ragazzetta occhialuta newyorkese. Tra sussurri, arpeggi delicati e ben poco altro Emily ti afferra e ti incatena al suo umore autunnale e alla trasparenza delle sue strofe. A solo un anno di distanza del precedente “The Birds Outside Sang”, i Florist di nuovo splendidamente lo-fi si confermano un piccolo grande piacere da ascoltare e riascoltare anche in questi mesi invernali e chissà per quanto tempo ancora a venire.

32° Best Album 2017: Pallbearer – Heartless

Da Little Rock, Arkansas, i Pallbearer rappresentano oggi, a mio modesto parere, quanto di meglio si possa trovare nel doom metal. Ci sono certamente altre band, anche più storiche e in parte più rilevanti, ma nessuna sta dimostrando la (frequente) continuità di questi ragazzi che album dopo album si confermano meravigliosamente in bilico tra l’oscurità e la sofferenza sabbathiana e diverse aperture melodiche di natura progressive. Le chitarre veleggiano su ritmi sempre più espansi toccando in diversi punti vertici di emotività difficilmente riscontrabile altrove. Ennesimo grande lavoro.

31° Best Album 2017: Vitalic – Voyager

Un album che difficilmente troverete in altre classifiche di fine anno. Del resto posso anche capirne il motivo: il francese è tornato dopo qualche anno con un lavoro che non cambia di una virgola il suo sound pieno di citazionismo 70’s, tra Moroder a Cerrone, con il mantello dell’onnipresente synth pop e l’evidente accenno al rinascimento voluto dai “due col caschetto”. Eppure alla fine dei conti quest’album è “girato” molte volte tra i miei altri ascolti in questi 12 mesi. Come del resto la visione dello straordinario videoclip di “Waiting For The Stars”.

30° Best Album 2017: Nate Smith – Kinfolk: Postcards From Everywhere

Il mio album jazz dell’anno. Rispetto a quelli degli anni precedenti siamo su lidi forse più canonici ma non per questo privi di una certa caratterizzazione che spinge su una analisi attuale a 360° della black music, compreso il suo lato più “cantabile”. Comunque tra i featuring di leggende quali Dave Holland e Chris Potter, Nate Smith, oltre ad essere un batterista stratosferico, si è rivelato con questo primo lavoro un compositore attuale e di tutto rispetto. Ascolto consigliatissimo.

29° Best Album 2017: Brunori Sas – A casa tutto bene

Essere un cantautore nell’Italia di questi anni non è per niente semplice. Da una parte i tradizionalisti ipercritici e dall’altra generazioni che non vedono l’ora di svecchiarsi. Cadono quasi tutti dopo qualche inizio promettente. Dario Brunori invece sta vincendo la partita con la giusta dose di umiltà, giocosità, riferimenti passati e quell’indispensabile talento nell’essere popolare ma non banale. “A casa tutto bene” è il suo album più riuscito dopo l’esordio e rappresenta sia il punto di sintesi della sua storia finora che il trampolino di lancio verso un probabile futuro ancora più luminoso. Io sinceramente me lo auguro viste le premesse ottime.

28° Best Album 2017: Queens Of The Stone Age – Villains

Ad un certo punto della sua carriera Josh Homme deve essere diventato antipatico. A parte del pubblico, a molti giornalisti e anche alla polizia considerato l’ultimo arresto. Per me è l’unica spiegazione ragionevole per la palese avversione che i suoi Queens Of The Stone Age stanno ricevendo negli ultimi tempi nonostante uscite discografiche che, non saranno capolavori, ma ce ne fossero. Prendi questo “Villains” dove la mano del produttore Mark Ronson ha dato giusto quella spruzzata di funk ai consueti costrutti punk/pop/desert rock dei ragazzi. Ci sono le solite cavalcate e le ballatone, ci sono i soliti quadretti quotidiani e anche una forte voglia di dimenarsi. Sia chiaro, anche a me quando qualcuno mi sta antipatico non ce n’è, però questo è un signor album per lasciarselo sfuggire per un motivo così futile.

27° Best Album 2017: Jane Weaver – Modern Kosmology

Una frase che va per la maggiore è “non ci sono più dischi (artisti) come quelli di un tempo” che in realtà nasconde per me solo due possibilità: poca volontà/desiderio di scoprire l’oggi o imbecillità mascherata da spocchia (o viceversa). Perdonerete questa sentenza, che come tutte le sentenze lascia un poco il tempo che trova, ma io invece mi dispero ogni volta che mi sfugge palesemente un disco o un artista valido sotto il naso, figurarsi una carriera di anni! Jane Weaver ha già realizzato diversi album, sia con una band che da solista, e questo suo “Modern Kosmology” è una perla kraut-rock con ogni elemento perfetto al posto giusto: vocalità evocativa, tratti space/psichedelici e tastiere a fiumi. Ci sono eccome dischi come quelli di un tempo (che tra l’altro non significa niente a pensarci bene) e in questo caso devo pure recuperarne alcuni. Quelli di Jane ad esempio.

26° Best Album 2017: Four Tet – New Energy

Karen Hebden non ha dimenticato i suoi primi vagiti “folktronici”. Questo il senso di “New Energy”, ripercorrere strade conosciute ma con tutto quello che il tempo, i dj set e i palchi in ogni dove, hanno insegnato e fatto diventare Four Tet, nome d’arte di Karen, l’artista che è ora. Con i suoi campionamenti “naturali”, una conoscenza della melodia sopraffina e un “mood” sempre semplice pur nella complessa struttura del sound, l’artista ci regala un’altra collezione da brividi, meno dancefloor e più ambient, tra pulsioni jazz e strumenti acustici/filtrati. Molti i brani superlativi ma “Planet” vale da solo il prezzo del biglietto.

25° Best Album 2017: Alvvays – Antisocialites

Ci sono sempre band che in modo o nell’altro sembrano destinate a risplendere tra le altre simili. Non è dato sapere se sono effettivamente più bravi o hanno una fortuna sfacciata: a pari condizioni questi artisti emergono e acquisiscono una reputazione da predestinati. Vero anche che molti di questi tanto velocemente salgono così altrettanto rapidamente cadono. Ai canadesi Alvvays sta accadendo tutto ciò: il loro secondo album “Antisocialites” ha fatto proseliti un pò ovunque tra tutti gli amanti dell’indie rock più zuccheroso, leggermente dream, molto catchy, tra riverberi shoegaze e la voce di Molly a ricordare(mi) i tanti struggimenti di cuore e soprattutto l’età in cui è ancora permesso farlo senza risultare ridicolo. Tipo oggi.

24° Best Album 2017: Valerie June – The Order Of Time

A volte faccio molta fatica a capire quello che sembra un certo tipo di culto per la “voce”, soprattutto in quei frangenti musicali dove sembra che per molti sia necessario chissà quale tipo di timbro, estensione e quant’altro. Probabilmente chi è seguace di detto culto avrà le sue buone ragioni ma per quanto mi riguarda la voce deve essere solo uno degli strumenti nelle canzoni necessario alla bellezza delle stesse. Prendete ad esempio la voce nasale di Valerie, questa ragazza del Tennessee, che in questo concept sul tempo (tra chitarre/banjo, batteria, basso, hammond, fiati e sezione d’archi) non vorrei cambiare con nessun’altra al mondo più potente e/o limpida. Tutto in queste canzoni è così equilibrato, delicato e amabilmente umano che una volta che ci si mette all’ascolto non si può che rimanere totalmente rapiti. Le auguro una carriera luminosissima.

23° Best Album 2017: Havah – Contravveleno

La migliore sorpresa italiana del 2017. Gli Havah sono il progetto capitanato da Michele Camorani, già attivo con La Quiete, e hanno all’attivo già due album e uno split. Purtroppo io non li conoscevo e, incuriosito da una intervista, ho deciso di ascoltare il loro nuovo e terzo album uscito quest’anno, “Contravveleno”. Amore al primo ascolto! Post punk, wave, estetica (e non solo) alla prima Diaframma e racconti della tragedia nazifascista vista dai più deboli e disperati. Le chitarre sferragliano, la voce catacombale narra e canta, i synth fanno capolino nei momenti topici e il tutto scorre sospinto dai bassi impellenti. Probabilmente non per tutti ma quanto mi piacerebbe fosse il contrario.

22° Best Album 2017: Ekat Bork – YasДyes

“La sua voce è semplicemente un arazzo di striature che parrebbero distanti, quasi inconciliabili e invece si sintetizzano magicamente in una bellezza unica. Questa giovane ragazza siberiana, artista di strada per anni e ora residente in Svizzera, ha confezionato un secondo lavoro che ha per il sottoscritto del sensazionale”. Una citazione dalla mia stessa recensione dell’album di qualche mese fa. “YasДyes” non è un ascolto facile e abbisogna di un abbandono totale ad esso: l’elettronica composita, a volte conciliante e altre volte molto meno, asseconda durante tutti i 14 brani la maestria e il carisma di Ekat. Il risultato è uno spazio alienante seppur naturalmente concreto (e disturbante) in cui perdersi e riperdersi più e più volte. Esperienza intensa “YasДyes”.

21° Best Album 2017: Slowdive – Slowdive

Un altro ritorno dopo più di due decadi. Una band che nonostante qualche video degli anni 90, l’essere stata tra i caposcuola del genere shoegaze (oggi un pò ovunque nell’alternative rock), essere stati benedetti all’epoca del secondo lavoro da sua maestà Brian Eno, non hanno mai avuto un grande successo di pubblico. A me invece sono sempre piaciuti moltissimo e dopo la reunion per un tour di qualche anno fa non vedevo l’ora di ascoltare qualcosa di nuovo da parte loro. “Slowdive” è un lavoro tanto debitore al “rumore bianco” di cui il gruppo è stato un anticipatore che alle movenze eteree di un certo “adult post rock”. I ritmi seppur delicati sono più sostenuti rispetto al passato mentre per le due voci, Neil e Rachel, il tempo sembra essersi fermato. Tra l’altro ho avuto ulteriore conferma dell’effettivo valore delle nuove canzoni sentendole insieme alle vecchie in uno dei live più belli a cui ho assistito quest’anno. Ben tornati.

20° Best Album 2017: Lea Porcelain – Hymns To The Night

Ecco una probabile (certa) pietra dello scandalo: i più attenti avranno notato l’assenza di due lavori applauditi nell’annata di area post punk/wave, ovvero gli Algiers e i Protomartyr (oltre l’intera scena hip hop, non certo per mancanza di valore ma per l’incapacità conclamata del sottoscritto a valutarla). E poi eccomi qui ad inserire il disco d’esordio di questi giovani ragazzi di Francoforte che proprio a quella scena si ispira ma che son ben lontani da celebrazioni di ogni sorta. Ecco si tratta di quei colpi di fulmine a cui è impossibile sottrarsi, quelle maree che ti fanno annegare in frequenze ultraterrene di synth e ti sospingono fuori dalle onde con la marzialità della batteria. L’atmosfera delle canzoni è di natura oppiacea, dove le chitarre più che irrigidirsi si insinuano religiosamente tra la voce inquieta e il basso sofferto. I Lea Porcelain non cercano la hit istantanea ma preferiscono invitarti a condividere con loro la malinconia del giorno. E inneggiare poi per sempre la notte.

19° Best Album 2017: Julien Baker – Turn Out The Lights

Andare in mille pezzi per ricomporsi intorno solo a quello che vale veramente. Non scoprendo solo il proprio cuore ma anche la carne, le viscere, il sangue, le orecchie e gli occhi per guardarsi e per guardare il mondo. Oltre il velo dell’apparenza e un passato di dolore e rifiuto. Non esiste un tempo corretto per scoprire e scoprirsi, per fare un primo passo e poi un altro ancora verso una immaginabile luce. Tra litanie, una conformità amorosa, l’auto analisi penosa e una vitalità immanente alla musica. Julien Baker, nonostante la giovane età, continua anche nel secondo album, con più grazia armonica e un po’ meno urgenza rabbiosa, a farci male per il nostro bene e a farci bene nonostante il nostro male (di vivere). Ci vuole solo la volontà di ascoltarla, in silenzio e senza aver fretta. Ad un certo punto sarà con e dentro voi. Magnificamente.

18° Best Album 2017: Sampha – Process

Sampha Sisay era atteso al varco da tutti. A parte i suoi due primissimi Ep, quello che ha fatto lievitare di molto le aspettative sono state le diverse collaborazioni con artisti di enorme visibilità come Kanye, Drake e soprattutto, per quanto mi riguarda, Solange e Jessie Ware. E per una volta possiamo veramente rallegrarci perché “Process” è una collezione di gemme una più abbagliante dell’altra. Il connubio tra l’innata inclinazione r’n’b dell’artista e una elettronica minimale risulta fondamentale per sublimare la raffinatezza dei brani in scaletta. La voce soul si insinua e si solleva tra le trame ben congegnate delle canzoni, imprimendo una massima connotazione intimistica ai testi, sia che si tratti di affrontare la morte della madre del cantante sia che si racconti della propria inadeguatezza rispetto agli altri. Poi nei casi in cui il pianoforte si prende la scena è superfluo pure commentare: bisogna solo chiudere gli occhi e aspettare che la musica finisca.

17° Best Album 2017: Paolo Benvegnù – H3+

Questo è uno di quei casi in cui non vorrei dover scrivere niente. Troppe parole per troppi anni, scritte e pronunciate, per sottolineare qualcosa per me così evidente senza che ci sia neanche lontanamente un risultato accettabile di consenso di pubblico per uno dei più grandi cantautori (anche se lui odia questa definizione) che questo paese abbia mai avuto (e per essere ancor più chiaro intendo proprio i De Gregori, i Battisti, i Dalla e chiunque abbiate in mente). Si dirà che i gusti sono gusti (vero), che il pubblico ha sempre ragione (falso) e che una ragione ci sarà (forse ma io brancolo nel buio) se Paolo Benvegnù è ancora un artista di nicchia dopo vent’anni di carriera. Ma io rimango del parere che se nella discografia nazionale del 2017 esce un album splendido (musicalmente e contenutisticamente) come “H3+” qualcosa non stia andando per il verso giusto. Poi mi ricordo che la particella elementare denominata proprio H3+ è conosciuta da pochissime persone eppure è alla base dell’universo intero. E d’incanto il verso giusto mi risulta del tutto irrilevante rispetto alla meraviglia per l’ennesima volta sperimentata grazie a Benvegnù.

16° Best Album 2017: San Fermin – Belong

“Belong conferma e getta nuovamente nella mischia una band che, non solo sta realizzando un percorso peculiare e avvincente, ma indica un approccio differente alla scena musicale (indipendente) americana, ricordandole con forza e soprattutto qualità che si può essere allo stesso tempo culturalmente alti senza perdere la valenza popular.” Anche in questo caso mi auto cito e riporto il giudizio finale che avevo espresso in sede di recensione sul terzo lavoro in studio della band. Questa brillante “orchestrina” che riesce a coniugare una libertà espressiva/strumentale inusuale a strutture squisitamente indie e cantabili. Un po’ freak e un po’ chic i San Fermin sono qui per restarci e incrementare ad ogni uscita un pubblico attento non tanto al trendy ma alla valenza reale della proposta sonora.

15° Best Album 2017: Nadia Reid – Preservation

“And when I get to heaven, will you take me as I am? For all along she really loved you, maybe made for you. I ain’t got you.” Con queste parole si chiude il secondo splendido album della giovane cantautrice neozelandese Nadia Reid, un brano in cui l’arpeggio di chitarra intimo si dissolve nel canto caldo e struggente dell’artista. “Preservation” non è una raccolta di canzoni da Spotify o ascolto distratto, serve fermarsi e misurarsi con ogni singolo episodio, sia quando irrompe una certa elettricità rock e sia quando il folk si fa umbratile e riservato. Lo (strepitoso) timbro della voce di Nadia Reid rende vivida qualsiasi emozione vissuta, avanza in modalità “slowcore” ma non rifugge sbandate leggermente più ritmiche. Troppi i riferimenti musicali del passato a cui appigliarsi ma non così molti quelli a memoria di tale intensità e nobiltà artistica. Un consiglio: dopo l’ascolto dell’album regalatevi anche le sue esibizioni dal vivo. Tutto risulterà ancora più chiaro.

14° Best Album 2017: Kelly Lee Owens – Kelly Lee Owens

Un’altra ragazza sotto i trent’anni per un’altra folgorazione targata 2017: Kelly Lee Owens, producer e vocalist londinese, ha esordito quest’anno con un self-titled album ricchissimo di mood e sound differenti ma personalissimi. Le atmosfere house si infrangono con le voci eteree, le tastiere “space” vengono spezzate dalle ritmiche dance, le minimali melodie d’archi si modificano in materia techno-club. Gli elementi presenti si “mixano” come in (dis)continuo dj-set ad alto tasso di coinvolgimento con strizzate d’occhio alla pop-dance anni 80 come alla bassa battuta trip-hop di bristoliana memoria. Kelly non si risparmia e a volte sembra tracimare per le troppe idee ma la classe cristallina e le scelte stilistiche (references) non scontate arginano qualsiasi difetto e lasciano solamente tutto il piacere per l’ascolto di quello che per il sottoscritto è il miglior album IDM dell’annata appena trascorsa.

13° Best Album 2017: Bobby Joe Long’s Friendship Party – Bundytismo, concetti e sostanze meanstream

Prima di iniziare un messaggio ai fedeli: contrariamente a quanto avevano annunciato l’Oscura Combo Romana sta realizzando un nuovo album. Quindi “Bundytismo…” non è l’ultima meraviglia della band synth-coatto-wave di Roma est che ascolteremo. Dopo aver tirato questo sospiro di sollievo non posso che ribadire la mia totale aderenza al culto musicale (ed estetico/formale) di questi misteriosi personaggi che, in solo due lavori discografici autoprodotti, hanno creato quanto di più “retrò vs. insania” sia mai esistito nel nostro paese fino ad oggi: spoken word in accento romano per liriche disincantate, social/territoriali, pseudo/letterarie ed evocative di un mondo “a parte” che assomiglia stranamente al nostro (o forse è il contrario). La parte musicale si districa tra wave d’annata, manie tunz tunz e chitarrine post-tutto. Questo secondo disco risulta un po’ meno claustrofobico e un po’ più confezionato ma non sposta di una virgola l’incredibile esperienza che i Bobby Joe Long’s Friendship Party stanno regalando (se volete potete anche pagarli però) a tutti. Attendiamo con trepidazione il terzo capitolo.

12° Best Album 2017: Charlotte Gainsbourg – Rest

Erano anni che Charlotte non si avvicinava più alla musica anche perché discretamente impegnata con il lavoro di attrice. Quel che conta però è che finalmente abbiamo avuto un suo nuovo album da ascoltare in questo fine 2017. La gestazione immaginiamo non sia stata delle più semplici considerato anche il suicidio della sorella Kate nel 2013 alla quale la Gainsbourg  ha voluto tributare una canzone proprio con il suo nome. Il disco è veramente grandioso, di molto superiore a quanto l’artista abbia mai realizzato prima e quello che fa ancora più impressione è che, nonostante i contributi di pesi massimi quali Paul McCartney, Guy-Manuel de Homem-Christo e Owen Pallett, la scrittura dei brani sia di sua mano. Difficile trovare un episodio migliore dell’altro: in apertura “Ring-A-Ring O’ Roses” direttamente da “Moon Safari”, a seguire la bellissima e irresistibile “Lying With You” tra barocchismo francese e ritornello killer, “Deadly Valentine” incursione nella disco-music più intelligente e la title track “Rest” immersa in un torpore armonioso e circolare. Gli atri brani comunque non sono da meno, compreso il regalo del baronetto più famoso al mondo, “Songbird In A Cage”, che sembra riecheggiare il Beck più giocoso di gioventù. Charlotte Gainsbourg ha inciso quel che ad oggi si può definire il suo capolavoro. Che dire se non che buon sangue non mente.

11° Best Album 2017: Ulver – The Assassination Of Julius Caesar

Gli Ulver sono uno dei casi più eclatanti nella storia della musica moderna dove risulta evidente che se esiste il talento la scelta di quale genere suonare è superflua. In ogni modo emergerà la capacità di fare propria e personale la forma scelta e incidere album di rara bellezza e importanza. Questa varietà artistica poi induce a delle conseguenze che, per il mio personale approccio all’arte, sono fondamentali: in ogni forma artistica è possibile riscontrare la meraviglia, basta solo avere la voglia di cercarla. Infatti ai live degli Ulver è possibile incontrare metallari, rocker d’annata, appassionati di classica o di ambient e, da quest’anno, sicuramente anche tutti i fan della “darkwave” elettronica se non addirittura gli orfani della “new-romantic”. A parte questa divagazione, “The Assassination Of Julius Caesar” è il solito viaggio (contenutistico/estetico) profondo e complesso della band norvegese che in un opera in cui si confondono reminiscenze storiche, comparazioni umanistiche, personalità iconografiche e pensieri ellittici riescono incredibilmente a proporre il loro sound più pop di sempre. L’album è un flusso di sintetizzatori scuri, inframezzati da chitarre riverberate e una sezione ritmica squadrata. Poi evidentemente c’è la voce di Kristoffer “Garm” Rygg che sembra essere stata creata per questo disco, come però, a ricordarci bene, ci è sempre sembrato anche per tutti gli altri.

10° Best Album 2017: Feist – Pleasure

Per quanto mi riguarda Leslie Feist è tra le più grandi artiste di tutti i tempi. “Let It Die”, il suo secondo lavoro in studio del 2004, è tra quegli album che più si avvicina al mio personale concetto di perfezione pop rock. E i dischi successivi, pur esibendo sempre qualcosa di assodato e qualcosa di nuovo, non si sono mai allontanati di molto da quella qualità eccelsa. Questo per capirci quale era il contesto su cui si appoggiava la mia attesa per questo “Pleasure”, arrivato a ben sei anni di lontananza dal precedente “Metals”. Come potete immaginare dalla posizione in classifica anche questa volta la mia canadese preferita non ha sbagliato il colpo e si è riproposta sulla scena mondiale con 11 canzoni in equilibrio tra una voluta “sporcizia” lo-fi nella produzione in contrapposizione ad una ricchezza testuale ed armonica nelle strutture. La voce di Leslie invece come sempre stupisce, rapisce e si adatta precisamente (e meravigliosamente) ad ogni incastro tra le note e la parola. “Pleasure” è un gesto quasi radicale, un’operazione tanto intima nell’espressività quanto fisica nel risultato, antica nella sua contemporaneità e futurista nella riscoperta delle radici. Preziosa ogni volta, Feist. Proprio come le (e i) più grandi.

9° Best Album 2017: Quicksand – Interiors

22 anni, questo il tempo passato dall’ultimo long playing di una delle più fondamentali band di sempre del movimento post hardcore, i Quicksand direttamente dalla Grande Mela degli anni 90. 22 anni e “Interiors” riprende il discorso esattamente dove l’avevano lasciato, aggiungendo solo quanto la loro evoluzione dell’epoca già faceva intravedere per il futuro. Bellissimo e densissimo “Interiors”, fughe elettriche devastanti in distese ritmiche ampie e in continuo movimento, la voce che cavalca vertigini emotive da brividi lungo la schiena  e un mood sensoriale generale che potrebbe ricordare gli immensi Tool degli ultimi album. Gli estremi si toccano e si confondono proprio dove la natura punk fa spazio alla sensibilità emo e la propensione metal si tramuta in nichilismo grunge. 12 brani in cui ognuno di noi potrà ritrovare frammenti della storia rock degli ultimi decenni (e quindi ragionevolmente anche di quelli antecedenti), una storia non tanto delle band più celebri ma di quelle che ci hanno effettivamente cambiato la vita per sempre. Per fare un esempio i Quicksand.

8° Best Album 2017: The xx – I See You

Quanto è bella la parabola di Romy, Oliver e Jamie, i The xx. Siamo, sia chiaro, ancora nella parte i cui i ragazzi stanno salendo sempre più verso l’olimpo della pop music mondiale ma di certo “I See You” quest’anno gli ha fornito uno slancio degno di nota. Assoluti alfieri del “minimal indie” di inizio secolo, i ragazzi nel 2017 hanno arricchito il loro tipico sound (che ha fatto scuola tra l’altro) con tutte le nuove sfumature di cui Jamie, il dj della band, è diventato ormai padrone e, con il suo progetto solista, uno dei maggiori divulgatori in tutti i club del pianeta: una dance figlia di sapori tenui, beat ricercati e movenze leggere. La hit “Hold On” è la perfetta sintesi di tutto ciò con i timbri vocali puliti e caldi di Romy e Oliver ad essere inseguiti sul ritornello dal sample di “I Can’t Go For That (No Can Do)” dei Hall & Oates, che ha conquistato fan anche tra chi, qualche attimo prima, non aveva la minima idea dell’esistenza della band britannica. Altri singoli di grande successo sono seguiti quali “I Dare You” e “Say Something Loving”, sempre in bilico tra le due anime, oltre ad un tour che è stato tra i più trionfali di questa annata. L’album racchiude ovviamente altre gemme e altri momenti che sarebbero da segnalare ma in questa sede non credo ci sia altro da aggiungere se non invitare ancora chi non l’abbia fatto a scoprire questo piccolo, ma notevolmente in crescita, fenomeno (decisamente meritevole) dei giorni nostri.

7° Best Album 2017: Colapesce – Infedele

Album italiano del 2017 per il sottoscritto. Ma cosa più importante, a mio avviso, è l’assoluta portata valoriale che questo disco rappresenta per la scena cantautorale italiana di questi anni, perennemente attaccata dai nostalgici, pseudo/critici e haters sul web. All’inno di come si stava meglio quando si stava peggio (ma eravamo tutti musicisti con i controfiocchi), probabilmente infastiditi dal ritorno di molti giovani italiani ai concerti (però non per i loro beniamini, quelli ancora in vita si intende) e sistematicamente contro tutto quello che non suona come loro vorrebbero (il rock era più rock, il blues era più blues e l’elettronica…no quella non è musica) ogni nuovo artista che approda sulla scena viene demolito (e intanto il Jova domina da decenni). Di Colapesce ho detto più volte e in più sedi che è il più bravo cantautore nazionale in circolazione. “Infedele” è un disco incredibile per quantità di idee, realizzazione e risultato ottenuto. Ogni canzone è uno scrigno in cui affondare le mani (e le orecchie, la testa, il cuore e tutto il resto) e rubare ogni parola, percezione e suggestione. Non c’è una canzone uguale all’altra ma sono tutte profondamente annodate al suo autore. Si potrebbero fare i soliti paragoni con il passato per aiutare a comprendere meglio l’eccezionalità dell’album, ma questa volta mi impongo di non farli. Perché oggi io sono solo grato di poter ascoltare un autore straordinario contemporaneo e mi piacerebbe solamente fosse così per tutti.

6° Best Album 2017: Kelela – Take Me Apart

Non è un segreto che fino a qualche anno fa non riuscissi ad ascoltare r’n’b; come del resto è palese da alcune recensioni recenti e le classifiche degli anni appena passati che ormai sia uno dei miei generi preferiti, soprattutto quello contaminato da una certa elettronica minimale a battuta rallentata. Kelela viene da molti paragonata a Fka Twigs per le indubbie similitudini stilistiche ed estetiche (entrambe artisticamente sommerse da loop digitali e decisamente bellissime), ma la giovane cantante di origine etiope con casa base a Los Angeles è riuscita fin dal suo primo mixtape “Cut 4 Me” e soprattutto con questo “Take Me Apart” a ritagliarsi un posto al sole nel mio cuore e, fatto ben più rilevante, nella discografia mondiale. Aiutata da alcuni tra i migliori produttori in circolazione e grazie ad una scrittura introspettiva, sensuale e teneramente sincera l’album srotola canzoni una più riuscita dell’altra, tra post-urban alla Janet Jackson e deep house da secret-club metropolitani senza ovviamente dimenticare reminiscenze soul sottotraccia e pop d’ispirazione 80’s. I dettagli sonori/ritmici si sprecano mentre Kelela volteggia alta con l’interpretazione avvolgendo gli ascoltatori in “altra” dimensione, la sua. Il sound si trasfigura nell’immagine virtuale e carnale della ragazza giocando con la nostra idea mainstream di diva e qualcosa che invece continua a sfuggirci (e affascinare). L’anno scorso spendevo elogi a scena aperta per il progetto music-mediale di Beyoncé, quest’anno Kelela è riuscita nella stessa impresa solo con le canzoni (e alcuni videoclip fantastici).

5° Best Album 2017: Broken Social Scene – Hug Of Thunder

Come accennato precedentemente quest’anno nella mia classifica di fine anno, tra i tanti ritorni, c’è ne uno molto particolare, quello del collettivo canadese capitanato da Kevin Drew e che include nelle sue file, oltre ad alcuni membri della band Metric, anche Amy Millan e Evan Cranley degli Stars (posizione 46°) e Feist (posizione 10°): i Broken Social Scene. Dopo 7 anni la band composita si è finalmente ritrovata per dare un seguito a quel “Forgiveness Rock Record” che, per quanto mi riguarda, fu veramente poco considerato all’epoca rispetto al valore effettivo. “Hug Of Thunder” si compone di 12 episodi e, pur rilevando il solito lato eclettico del gruppo a inglobare le correnti musicali più disperate per restituirle a nuova dimensione, questa volta assistiamo a meno scorribande sonore del solito e una linearità maggiore di intenti. Dopo “Sol Luna”, breve intro strumentale, “Halfway Home” ci ricorda subito quello che gli Arcade Fire non sono più in grado di fare, “Protest Song” è pura melanconia in stile Saint-Étienne più aggressivi e “Skyline” risulta fin troppo spudorata nel farci illudere che sia effettivamente così semplice comporre una pop song di matrice chitarristica di questa caratura. Circa a metà opera Feist regala la voce e il suo tocco magico alla subliminale “Hug Of Thunder” e all’articolata “Stay Happy, mentre in dirittura d’arrivo “Victim Lover” e “Please Take Me With You” si elevano improvvisamente in minuti di intensa dolcezza attraversati da segmenti di pura psichedelia. Il finale invece resta tutto nell’elettronica roboante di “Mouth Guards Of The Apocalypse”. Ci sarebbero anche altri pezzi pregiati da evidenziare, ma l’unica opinione che ci tengo a ribadire qui è che i Broken Social Scene, album dopo album, continuano ad essere una delle stelle più luminose dell’indie rock mondiale.

4° Best Album 2017: The National – Sleep Well Beast

Quando vedo le immagini di alcuni concerti a San Siro o in altri luoghi dove decine di migliaia di persone si accalcano gli uni sopra gli altri in contemplazione e accompagnano con il loro canto (e le loro movenze) l’artista o la band sul palco, ecco in quei momenti da anni penso ogni volta che se deve proprio esistere un gruppo di musicisti che si merita tutto ciò anche in Italia (nel resto del mondo le cose vanno già un po’ così) sono i The National. Matt e compagni sono da troppo tempo e con troppe canzoni quanto di meglio sia capitato al rock dall’inizio di questo nuovo secolo. Ogni album non è mai stato da meno che superlativo, ogni direzione intrapresa è stata valorizzata, ogni esibizione dal vivo è diventata rituale collettivo ed emozionale. Dall’energico ai sussurri, dal classic rock all’introspezione wave, dagli arpeggi di pianoforte e chitarra a screziature elettroniche: uno dei sound più riconoscibili del pianeta racchiude in se sfaccettature sempre diverse e splendidamente necessarie. La voce, la strumentazione, lo spleen, le storie e le immagini evocate, è veramente difficile trovare anche una sola cosa fuori luogo nell’arte della band di Cincinnati. “Sleep Well Beast” quindi scarnifica ancora di più il loro sound e gioca maggiormente con le tastiere e i suoni digitali ma fondamentalmente è solo l’ennesimo importante tassello che si aggiunge ad una storia unica della musica moderna. Quasi ogni brano ha la portata di un possibile classico ma voglio segnalarvi in particolar modo quella “Guilty Party” che, non solo è una delle canzoni più belle del 2017, ma è soprattutto una delle più intense e eccezionali scritta dai The National.

3° Best Album 2017: The Horrors – V

Partiamo dalla fine e cioè dall’ultimo brano in scaletta di “V”, il nuovo long playing dei The Horrors: “Something To Remember Me By” è una di quelle ipotetiche hit trasversali che solo per strani misteri della discografia moderna, degli addetti ai lavori, dei canali di comunicazione e di una parte della critica non è giunta alle orecchie di tutta la platea mondiale. Impossibile non lasciarsi trascinare dall’intreccio di batteria e basso, l’armonia ritmica della tastiera e la melodia semplice ma irresistibile della voce. Ma riavvolgiamo il nastro: “V” non solo conferma i The Horrors come i migliori eredi di quella new wave che non ha paura di flirtare con il garage, il pop lisergico, il synth-rock e anche alcune prossimità post, ma inoltre li innalza per l’ennesima volta tra i pochissimi di questi tempi a riuscire ad imporre con decisione un tipo di immaginario dark (pseudo futurista), grazie anche alla figura sfuggente ma carismatica del suo cantante. L’album sembra dividersi in due tra una prima parte più energica ma plumbea (“Hologram” e “Machine” ) e una seconda con aperture melodiche e maggiormente cantabili (“Weighed Down” e “It’s A Good Life”). Spartiacque è il piccolo capolavoro “Point Of No Reply” con un ritornello squisitamente “gothic” e un arrangiamento fatto di incastri in crescendo fino al punto di rottura (e il vuoto). Tutto nel disco scorre riflettendo l’incontro/scontro delle diverse anime del gruppo non perdendo mai però l’equilibrio necessario per essere apprezzato nella sua complessità e dinamicità. I The Horrors, per quanto mi riguarda, non hanno ancora sbagliato un LP e, grazie anche al live di qualche settimana fa, hanno più che meritato di essere sul podio della mia classifica di fine anno.

2° Best Album 2017: LCD Soundsystem – American Dream

Togliamoci il sassolino dalla scarpa immediatamente: non c’è “Kid A”, “Turn On the Bright Lights”, primo degli Strokes e dei The Libertines, qualsiasi lavoro degli Arcade Fire e/o Arctic Monkeys, che possano anche solo pensare di rivaleggiare con quello che James Murphy e i suoi LCD Soundsystem hanno rappresentato per la musica moderna di questo inizio secolo. Solo i Daft Punk, in qualche modo e per altri motivi, sono avvicinabili ma non paragonabili alla serie pazzesca e numerosa (praticamente tutti) di pezzi che incarnano perfettamente lo spirito dell’epoca (artistico, culturale e umano) che stiamo vivendo. Con tre album gli LCD Soundsystem  sono diventati il vero e proprio termine di paragone con cui confrontarsi per qualsiasi giovane musicista: non importa se rock, blues, hip hop, dance o vattelapesca, se vuoi capire il mondo attuale devi provare a guardarlo con gli occhi di James Murphy e cercare di raccontarlo (in “qualsiasi” forma musicale) come riesce a lui. Ovviamente come tutto quello che avete letto in codesta classifica questa rimane sola la mia umile opinione, anche se per una volta posso aggiungere che è un opinione condivisa da moltissime persone, alcune decisamente più affidabili e universalmente considerate di me. Dopo l’annuncio della fine della band 10 anni fa, Big James ci ha ripensato ed è riapparso, sembrerebbe anche dopo un ormai famigerato scambio di opinioni con David Bowie. E proprio a quest’ultimo si devono alcune inclinazioni di “American Dream” che, neanche a dirlo, è l’ennesimo nuovo e immenso album (io mi permetto di utilizzare il termine capolavoro solo dopo lo scorrere di un tempo congruo) della band. Una sorta di clima pessimista attraversa tutti i 10 brani e ognuno lotta per rubare la scena all’altro come il migliore di tutta la raccolta. Per l’analisi più approfondita dei singoli pezzi vi rimando alla mia recensione, mentre qui il sottoscritto coglie l’opportunità di ringraziare gli LCD Soundsystem per questi 12 anni in loro compagnia. Lunga vita al Re e alle sue opere.

1° Best Album 2017: Lorde – Melodrama

Il mio album dell’anno non è soltanto una scelta di cuore, un giudizio qualitativo e una preferenza ideale per la giovanissima cantautrice neozelandese: nel mio piccolo vuole essere anche un atto dovuto e dichiaratamente politico verso una situazione nazionale, sia del pubblico generalista che della critica più istituzionale/professionale (e non), che ormai sembrerebbe neanche accorgersi di essere impantanata nella propria supponenza radical chic, incapace di confrontarsi con una scena artistica moderna e pericolosamente indirizzata sulla via della sottocultura musicale tipica di popolazioni quasi analfabete sul tema. Lascio parlare i numeri: per NME e Consequence Of Sound “Melodrama è l’album dell’anno, per Rolling Stone e Pop Matters il secondo, per Pitchfork e NPR quinto, per quasi ogni rivista e blog specializzato del mondo occidentale (e non solo) è in top ten. Bowie la definì il futuro della popular music, Grohl ha dichiarato di essersi commosso come non mai suonando con lei “All Apologies”, Robyn e la reginetta Swift si sono sentite onorate di duettare con lei, i Disclosure le hanno cucito addosso la loro (seconda) hit più celebre. E invece nel nostro paese non solo non appare nelle classifiche di fine anno, ma a mala pena la recensiscono e, discutendo personalmente con alcuni giornalisti, l’ho vista catalogata da questi più o meno nella stessa categoria di Britney Spears. Del grande pubblico italiano inutile forse anche parlarne considerato che neppure un brano dell’album figura tra le 100 canzoni più vendute di quest’anno (e parliamo di cifre irrisorie). “Melodrama” è un lavoro sopraffino, elegantemente alt-pop, ricco di sfumature di electro-music e ritmiche hip hop, arrangiato con loop peculiari e fraseggi di synth brillanti, influenzato tanto da una black music mai invasiva che da una dance intelligente e molto suonata.  Oltre ad avere anche alcune ballate minimali da fuoriclasse. Poi c’è la voce: Lorde può cantare qualsiasi composizione (in realtà scrive quasi tutto da sola) e tramutarla in una sua canzone, dove per sua canzone si intende il ripetersi ogni volta di un incantesimo che ferma il tempo e ti lascia in balia di qualsiasi emozione evocata. Consiglio inoltre a tutti di guardarsi un suo live: personalmente in più di 35 anni di concerti (molti credetemi) poco volte ho assistito ad una performance così carismatica e trascinante. A questo punto non credo di avere niente da aggiungere: ringrazio tutti quelli che hanno voluto leggermi e il mio augurio non è tanto che condividiate le mie scelte ma che queste vi possano aiutare ad avere il desiderio di scoprire (o di continuare a scoprire) la meravigliosa e molteplice musica che “vive” intorno a noi in ogni attimo della nostra esistenza. Ah dimenticavo: grazie Principessa!