L I V E – R E P O R T
Articolo di Luca Franceschini (Day 2-3-4) e Giovanni Carfì (Day 1-5), immagini sonore di Alessandro Pedale
Woodoo Fest torna anche quest’anno con un programma ricco ed interessante, con gruppi che in questi ultimi anni, e in molti casi mesi, hanno detto la loro con uscite degne di nota, o performance coinvolgenti. Questa è la sesta edizione e la “festa nel bosco” si fa grande, ospitando street food, due palchi di cui uno coperto, e varie chicche tra cui una postazione games rubata da qualche sala giochi, che se non era fine anni ’80 eravamo da poco nei ’90; ma andiamo con ordine, perché il bosco è vivo, bisogna conoscerlo e saperlo vivere, conosciamo così gli abitanti del primo giorno…

C’è una premessa da fare, ovvero l’idea che ognuno di noi può avere di “bosco”, e questa mi sono reso conto dipendere molto dai luoghi in cui cresci. Per farla breve, il bosco per me è composto da alberi, sentieri più o meno percorribili e vegetazione ad altezza ginocchia, se invece arrivate da un’infanzia trascorsa ai giardinetti, probabilmente avrete un effetto simil “Foresta Nera”, ma anche questo differenzia le sensazioni di tutti gli avventurieri che arrivano al Woodooo rendendolo piacevole da esplorare.
Day 1
Si parte intorno alle 18.30 quando dal palco denominato “Wood Stage” si sente il piacevole timbro vocale di Lilo, una ragazza minuta ma con una voce ed una capacità melodico/corale molto piacevole. Per chi non la conoscesse, ha una formazione classica (pianoforte), dopo un’iniziale esperienza semiacustica con testi in inglese, con la quale ha suonato tra Italia e Francia durante gli anni di studio, rientra nel 2017 per portare avanti un suo progetto solista, con testi in italiano e una produzione più elettronica. Di tutto questo sono usciti dei singoli, ma nessun Ep ufficiale; alcuni brani sono interessanti, (Più Parole, Febbraio e Gospel 21), così come la sua passione per il gospel, omaggiata appunto con Gospel 21. Lilo è brava, ma se sei su un palco, se ci sono ancora degli strumenti che si possono suonare, stona vederla apportare delle note qua è la, degli accordi sparsi, o addirittura delle percussioni attraverso dei pad, su una base completa al 95%. Cerco di ricredermi nel momento in cui presenta il fonico, alias produttore dei brani, nonché batterista e che invita a suonare… la batteria pronta alle sue spalle? No, i pad. Il pubblico non vi presta attenzione e forse sono solo mie fisime, ma parlando con un frustrato venditore, mi dice: “sono laureato in lettere e ho studiato pianoforte, e ancor non ho sentito uno strumento suonare dal vivo, e io son qui a friggere patatine”. Purtroppo la mia impressione non è rimasta orfana, e probabilmente se avesse suonato non sarei incappato nelle patatine peggiori del bosco, ma si sa, bisogna stare attenti ai propri sentieri per non perdersi.
Si torna sotto il palco per un break culturale, di quelli che ti fanno sorridere piacevolmente, ma soprattutto in modo sincero e catturando l’attenzione dei presenti per quasi un’ora. Sapete cos’è un “Poetry Slam”? Non importa, sappiate che arriva da oltre Oceano, nasce dall’iniziativa di tale Marc Smith, un operaio che lavorava nei cantieri ma che nutriva uno spirito poetico. Come in tutte le storie ben riuscite serve un incontro, e questo arriva nel 1986, lui si chiama Dave Jemilo ed è il proprietario del Green Mill Cocktail; ogni settimana un appuntamento fisso, sul palco una sfida a suon di versi, dialettica, declamazioni, e poi, un po’ dopo… 2001 circa, arriva anche in Italia. Per chi non lo conoscesse o ne avesse timore, abbiate fiducia, al massimo verrete coinvolti come giurati nelle votazioni ai partecipanti, oltre a dover sorbire alcune battute al limite di freddure, ma siamo nella foresta e il clima è quello. Cinque partecipanti, doppia manche, votazioni, intrattenimento del presentatore, detto Emcee (Master of Cerimony), versi rapidi e intrecciati, quasi “rappati”, o rime e giochi di parole dove la metrica si incastra in modo chirurgico in un ingranaggio che fa riflettere, divertire e coinvolge. Ottima la partecipazione, i partecipanti e le performance, stra consigliato.

Ma la musica? Giusto, questo è quel che si chiedeva il venditore di patatine davanti a me, e presto viene accontentato. Sul palco torna Lilo, ma in borghese come Laura Pizzoli alle tastiere, alla batteria il suo produttore presentatosi prima ai pad, al basso un bassista di cui ignoro il nome per colpa delle patatine e alla voce Brenneke, ovvero Edoardo Fasso. Dopo una breve collaborazione con la band Il Fieno, decide di intraprendere un suo percorso solista da cui nascono due lavori, Vademecum Del Perfetto Me del 2016 e il nuovo Nessuno Lo Deve Sapere. Sarà merito del break culturale e sonoro che ha creato contrasto, o della sete di “suoni live”, ma l’impatto è notevole. Nonostante il preascolto di alcune sue cose non avesse incontrato particolarmente i miei gusti, mi fa cambiare idea e vedo che incontra i gusti delle tante persone che affollano lo spazio antistante il palco, tra alberi vestiti a festa, pallet/panchina, e luci suggestive che regalano al bosco una “mise” di tutto rispetto. La proposta è diretta e schietta, canzoni in italiano dal sapore pop rock, se volessimo etichettarle, e se non voleste farlo cercatelo, possibilmente dal vivo, per poter ascoltare Satelliti, Menta, Incendio, Nessuno Lo Deve Sapere e tante altre. Impatto più che discreto, bravo il batterista alla batteria oltre che ai pad, economico il bassista, funzionali le tastiere, energico nella voce e alla chitarra Brenneke.

Nel bosco, come già detto, ci si perde in fretta e per un pelo non mi ritrovo solo come un cervo. Si svuota il sottopalco e nel mio sostenere integerrimo un albero vestito a festa, non mi rendo conto che il vero palco è un altro: il “Big Foot Stage”, mai nome fu più adatto, un palco di quelli belli, importante, illuminato più che dignitosamente e furbamente coperto. Lo vedo da lontano e c’è movimento sia sopra, sia sotto il palco, sembra un’invasione pacifica di cavallette, non che siano mai state aggressive, ma di lì a poco il pubblico riempie tutto lo spazio disponibile sotto gli occhi stupiti dei veri co-protagonisti del primo giorno: gli Eugenio In Via Di Gioia.


Per quanto riguarda questi quattro ragazzi c’è poco da dire, sono bravi, coinvolgenti, giovani, hanno dei testi ironici e schietti e il pubblico recepisce il loro spirito istrionico e giocherellone. Sarà che la maggior parte dei presenti ha un’età media molto vicina alla loro, sarà perché i testi sono belli da ricordare e cantare insieme, ma la partecipazione del pubblico è davvero molto alta, e loro sono comunque molto bravi nel creare interazione e movimento con il pubblico. Arrivano da un passato da buskers, e hanno pubblicato da poco il loro terzo album Natura Viva, che trae ispirazione dalla vita notturna, dagli abitanti di quella fascia oraria nella quale le suggestioni sono più immediate. Hanno un approccio fin troppo genuino, in particolare modo Eugenio Casaro che con quell’aspetto da liceale strappa subito un sorriso; come quando dal pubblico scova i sosia perfetti della band, li fa salire sul palco e li coinvolge facendoli imitare tutte le loro mosse mentre suonano. Oppure quando scende in mezzo al pubblico dopo aver creato attorno a se uno spazio vuoto, per poi essere raggiunto e schiacciato in una baraonda finita in stage surfing, o quando risolve il cubo di Rubik cantando. Ma le canzoni, ma loro come musicisti? Semplici, testi piacevoli e ben scritti, da cantare insieme e coinvolgenti, e il pubblico reagisce benissimo, gli abitanti del bosco sembrano seguire un capo branco, si muovono, cantano e ballano su Camera Mia, Prima Di Tutto Ho Inventato Me Stesso, Giovani Illuminati, Obiezione, Lettera Al Prossimo, ed è una bella sensazione, se non doveste conoscerli, cercateli.




E arriviamo a fine serata con i Tre Allegri Ragazzi Morti di Davide Toffolo. Dopo un rapido cambio di palco, noto che in parallelo si ha un cambio pubblico quasi totale; certo le generazioni e le proposte musicali non sono le stesse, ma il cambio è stato molto netto. I TARM sono anche loro freschi di pubblicazione con Sindacato Dei Sogni, dopo il precedente datato 2016, e sono in gran forma e formazione, a cui si aggiungono seconda chitarra e tastiere. Ci sono gli “aficionados” con la classica maschera, vecchi e nuovi e un po’ di nostalgia, specie quando chiede chi li avesse visti nel ’94. In realtà è un preambolo per condividere un traguardo musicale importante, i loro 25 anni di attività, e per farlo a due terzi del concerto restano sul palco i tre quinti della formazione, Davide Toffolo, Enrico Molteni e Luca Masseroni. Così parte una sorta di revival con alcuni dei loro brani più cantati, almeno inerenti il periodo ’90. Scaletta varia, che abbraccia brani degli ultimi dischi, per poi come già detto riprendere le “loro” canzoni, i loro ricordi e quelli di chi c’era o chi non c’era, ma che comunque apprezzano e pogano. Già, il pogo, che come ricorda Davide, i varesotti avendo avuto negli anni ’90 i gruppi punk più fighi, sanno cosa voglia dire “pogare”, e via, tutti a cantare canzoni nuove e datate, sotto un’illuminazione bellissima che esalta tre grandi pannelli illustrati alle spalle della band, e che alle volte confluisce su un casco argenteo posato su una testata Marshall, regalando un effetto strobo/mistico alla serata. Bravi, le maschere non nascondono 25 anni di esperienza, la nostalgia e la simpatia, e anche quando Davide insiste nel riproporre lo sketch urlando: “Non è colpa mia se la vita fa schifo, ma il concerto è finito”, e “zac” con il pollice che taglia la gola; si accetta tutto, specie in un bosco.


Day 2-3-4
Il Woodoo Fest è ormai divenuto una garanzia nell’ambito delle manifestazioni estive del nostro paese. Nei suoi pochi anni di vita ha saputo consolidarsi in una posizione di tutto rispetto, arricchendo progressivamente la line up di nomi noti e proponendo un programma non densissimo per ogni giornata, ma sempre con grande attenzione alla qualità della proposta, anche tra gli artisti emergenti. È infatti questa una delle sedi privilegiate per testare quei nomi che in futuro potrebbero divenire dei punti di riferimento importanti. I Canova, tra gli headliner di questa edizione, hanno ricordato di avere suonato al Festival quando ancora il loro primo disco, quello che li ha lanciati, non era stato pubblicato. E solo lo scorso anno dal bosco sono passati nomi come Megha e Delmoro, che sono nel frattempo divenute realtà da tenere d’occhio. Per non parlare poi di gente come Gazzelle, Calcutta, Coma_Cose e M¥SS KETA, che proprio al Woodoo si è esibita agli inizi della propria notorietà.

Situato a pochi passi dall’area industriale di Cassano Magnago, nel centro di un’area fresca e boscosa, il Woodoo Fest si è ormai imposto come il più importante appuntamento concertistico del Nord Italia, almeno per quanto riguarda le proposte maggiormente legate al trend del momento, tra Rap, Trap, It Pop e affini; tanto da arrivare, almeno negli ultimi due anni, a rivaleggiare con il Mi Ami. Proprio questo è un punto che varrebbe la pena di approfondire. Se il festival legato a Rockit vanta una maggiore longevità, un marchio ormai consolidato ed una collocazione geografica più centrata sull’area milanese (che non è poco, in un paese dove la musica viene fruita soprattutto nelle sue due o tre città principali), bisogna anche dire che col tempo tante cose hanno iniziato a funzionare meno: a partire da un’utenza sempre meno interessata alla musica e sempre più ad un bieco presenzialismo da Social, ad una location che pare ormai divenuta insufficiente a gestire la sempre più grande affluenza (i concerti degli act principali sono ormai divenuti quasi invivibili), fino ad una resa sonora spesso al limite dell’imbarazzo. Dall’altra parte, a Cassano ci va meno gente (il sold out del venerdì di quest’anno è stata per ora una piacevole eccezione, legata soprattutto ad un vero e proprio fenomeno socio mediatico come Massimo Pericolo), i due palchi sono vivibilissimi, l’area ristoro molto più ricca del Magnolia e molto più fruibile e l’impianto è decisamente migliore, anche se quest’anno, ad onor del vero, non tutto ha funzionato benissimo. Particolare più importante: la line up è ormai praticamente la stessa. Quest’anno, almeno a considerare i nomi più importanti, c’era una coincidenza di almeno il 70%. Certo, il tutto è spalmato su cinque giorni invece che su tre, ma almeno non ci sono sovrapposizioni e si riesce a vedere tutto quanto in completa scioltezza (quest’anno il Mi Ami è stato disastroso in tal senso: ok volere replicare la formula dei Festival stranieri, che è perfetta, ma la time table è stata gestita in modo tale che c’era da mettersi le mani nei capelli). Tutto questo per dire che, se si avessero le disponibilità economiche per uno solo dei due, io ormai consiglierei di puntare tutto su quest’ultimo.

Difficile fare un bilancio articolato di tutto quello che ho visto nelle tre serate a cui ho partecipato: un po’ perché, quella che era personalmente più nelle mie corde l’ho dovuta perdere per sovrapposizioni insormontabili (va bene tutto ma Elena Tonra col suo progetto EX:RE non è un qualcosa che si può sfanculare in leggerezza, cercate di capirmi); un po’ perché di carne al fuoco ce n’è stata tanta e fare una sintesi non è mai stato il mio forte.

Indubbiamente la cosa che ha impressionato di più è stata la risposta a Massimo Pericolo. Il rapper di Varese opera da tempo nel sottobosco di questa scena ma l’esordio su disco e l’esplosione vera e propria sono avvenuti solo da pochi mesi. Al Mi Ami aveva fatto il suo debutto live ma gli avevo preferito i Sorrowland. A Cassano si esibisce il venerdì, appena prima di Franco 126 ma è subito chiaro che è lui il vero headliner. Già da inizio giornata è pieno di ragazzini accalcati sotto il palco principale, indifferenti a quello che sta accadendo sul “Wood Stage”. Immediatamente dopo il set di Dutch Nazari, poi, la zona si riempie all’inverosimile e i cori di incitamento sono continui, in un’atmosfera da attesa febbrile.
Vedere poi queste migliaia di ragazzi che urlano ogni singola parola di ogni canzone, anche di quelle più oscure, relative alla produzione pre Scialla Semper, è decisamente impressionante. Raramente ho visto una simile reazione, raramente ho visto un tale consenso per un artista al proprio esordio. È evidente che sta succedendo qualcosa, che potrebbe essere nata una voce suo malgrado generazionale, un qualcuno che, al di là del carattere spinto e scurrile dei propri testi (molto sopra la media rispetto a quanto gira in Italia in ambito Rap, ma forse per questo più interessante), riesce ad intercettare il disagio delle giovani generazioni, unitamente al loro desiderio di compimento, espresso attraverso un autodeterminismo senza dubbio riduttivo ma non per questo indegno di essere guardato.
Dura un’ora ed è molto vicino ad un rito collettivo, dove il problema non è certo andare ad ascoltare della musica (di live, a parte qualche parte vocale, non c’è assolutamente nulla) quanto incontrare il proprio beniamino, urlare a squarciagola con lui le parole dei testi, riconoscersi all’interno di una comunità, gridare il proprio bisogno di appartenenza, l’identità della propria esperienza con quella di altri coetanei.
Da questo punto di vista funziona. Ed è questo che oggi bisogna guardare, a mio parere, se davvero si vuole capire questo fenomeno al di là di tutte le prediche moralistiche dei vecchi tromboni fermi a Bob Dylan e Neil Young. Al di là di questo, il concerto, se proprio dobbiamo chiamarlo così, è una roba indecente e conferma quello che penso da anni: se sei uno spettatore esterno, estraneo all’esperienza dei testi, il Rap va ascoltato su disco. Tranne pochissime eccezioni (Salmo, Rancore, Willie Peyote), nessuno di questi artisti ha un vero interesse per l’esibizione dal vivo in senso tradizionale. Se sia poi un fattore che sulla lunga distanza potrà fare la differenza, non lo so. Al momento è evidente che per chi va a vedere certi artisti, la musica non costituisca una priorità. Rimane che Massimo Pericolo, nel suo campo, sia senza dubbio un talento vero.
Sempre dal punto di vista del Rap, il giorno dopo si è esibito Mecna, anche lui subito prima dell’headliner (in questo caso il collettivo Ivreatronic) e seppure con una formula più “pulita” ha più o meno presentato le medesime coordinate: il fido Lunar in consolle e poi lui da solo sul palco, tra abbondanti dosi di autotune e cori registrati. L’effetto è comunque più piacevole perché l’artista milanese ha sfumature molto più soffuse e malinconiche (i paragoni con Drake, negli anni, si sono sprecati), una vena più intima nel proprio songwriting che nulla concede alla caciara gratuita. Lui è bravo, a modo suo è un gran comunicatore e nel complesso si tratta di un buon concerto, anche se a fasi alterne: in certi momenti riesce ad emozionare e a coinvolgere, in altri è più noioso. Si sente la mancanza di una band che contribuisca a variare i colori ma evidentemente non è quello che lui vuole. Non è più il nome del momento (nonostante un contratto fresco con Universal) ma il suo pubblico, non numeroso come la sera prima ma di tutto rispetto, c’è e si fa sentire.
Bisogna spendere due parole anche per Franco 126, che si è esibito la sera prima. È ormai assodato che con Carl Brave non si sopportino più, le divergenze artistiche e soprattutto di prospettive economiche paiono troppo grandi per essere colmate ma forse proprio a seguito di questo, l’artista romano potrebbe trovare la sua autentica dimensione. Stanza singola è infatti un ottimo disco, ha recuperato in dosi massicce tutto quel cantautorato “popolare” di marca anni ’70-80, cosa che dal vivo è ancora più evidente. Band solida e competente, che dona un grande tiro alle canzoni e fa risaltare ancora di più che, al di tutte le etichette, solo di musica leggera si tratta, ed anche delle migliori (un brano come la toccante Ieri l’altro è indubbiamente di livello altissimo). Concerto godibilissimo, meglio anche di quello visto a maggio al Mi Ami e di gran lunga più convincente di quelli in compagnia di Carl Brave. Le recenti polemiche che hanno avvolto la 126 a seguito dei dubbi atteggiamenti di Pretty Solero, uno dei membri fondatori e dei recenti episodi di cronaca che lo hanno coinvolto, non hanno turbato lo spirito di uno show che è stato soprattutto all’insegna del divertimento. Franco si sta conquistando la propria maturità artistica, se facesse anche un salto dal punto di vista vocale sarebbe perfetto.


Stiamo parlando degli headliner, spendiamo due parole anche per i Canova, che personalmente non ho mai sopportato e che vedo per la prima volta dal vivo, più mio malgrado che altro. La verità, al di là di tutte le considerazioni personali, è che il gruppo di Legnano sul palco ci sa fare eccome. Nonostante l’ultimo Vivi per sempre non sia all’altezza del folgorante esordio Avete ragione tutti (lo ha confermato anche la reazione ai nuovi brani manifestata dal pubblico, decisamente più tiepida rispetto agli isterismi di quando partivano i pezzi storici), lo show che offrono è di prima qualità, il tiro non manca, suonano bene e si capisce che sul palco sono totalmente a loro agio. Quello che disturba, a parte le tastiere in base, decisamente fastidiose e oltretutto sparate a mille, spesso e volentieri a coprire il resto (non ha aiutato neppure una resa sonora piuttosto pasticciata) è l’atteggiamento un po’ troppo divistico da parte dei nostri (gli americani direbbero che hanno fatto un po’ troppo “show off”), all’insegna de “l’autoironia questa sconosciuta”. Non me ne vogliano, per carità, ma certe pose me le aspetto dai Bon Jovi periodo New Jersey, non certo da loro. Niente da dire, comunque, sono un’ottima band e se sapranno giocare bene le loro carte andranno avanti a lungo. Simpatico, ma piuttosto inutile nell’economia generale, il siparietto di Galeffi che esegue Occhiaie assieme a Matteo Mobrici.

Prima di loro, Fulminacci, fresco di Targa Tenco come miglior esordiente, ha confermato le sue grandi qualità con un’esibizione davvero bella, in bilico tra It Pop e cantautorato classico, con i soliti riferimenti a Dalla, De Gregori e Rino Gaetano. Al di là delle influenze riconoscibili però, questo ragazzo ha personalità da vendere e si muove decisamente su un altro livello rispetto a Gazzelle e Canova, suoi compagni di etichetta. Colpisce anche la rilettura Pop di Stavo pensando a te, classico di Fabri Fibra, ed i due pezzi inediti suonati da solo alla chitarra, che testimoniano un livello di ispirazione decisamente alto.


Mi è piaciuto anche Dutch Nazari, che ha aperto il programma del “Big Foot Stage” nella giornata di venerdì. La sua è una formula leggera ma piuttosto efficace e a questo giro, con una band vera e propria a supportarlo, il tutto è sembrato più convincente. Certo, vocalmente non ci siamo proprio e certi arrangiamenti sono risultati un po’ piatti ma nel complesso è un buon progetto, che riesce a dare un giudizio sui tempi che viviamo e sulla difficoltà di queste nuove generazioni, senza tuttavia rinunciare all’ironia e ad un’attitudine tutto sommato positiva.
Quello che mi ha veramente entusiasmato però è stato Clavdio: la nuova scoperta di Bomba Dischi l’avevo già vista due volte ma c’era sempre qualche aspetto che non mi aveva convinto del tutto. A questo giro ci siamo su tutta la linea: si esibisce su un palco dove c’è ancora poca gente e quella poca pare essere tutta lì per Mecna. Ciononostante, riesce a conquistare gran parte dei presenti, soprattutto con gli episodi più dinamici e movimentati del proprio repertorio (Suriname, Nacchere e Serpenti funzionano davvero bene, ottimi esempi di scrittura Pop). La band lo supporta bene e questa volta, a differenza delle altre due, la potenza e il tiro non mancano. Il songwriting eterogeneo aiuta la dinamicità del concerto, un brano inedito come Morto, veloce, quasi Punk e davvero bellissima ne conferma la bravura di songwriting ed una coinvolgente rilettura di Curruccucu fa muovere davvero tutti.
Manca ancora un po’ di convinzione nei brani acustici come Amazon, Le tue gambe o Ricordi, belle ma ancora troppo sottotono nell’esecuzione dal vivo. Detto questo, l’ex Il Rondine si prende la scena per quasi un’ora e colpisce con il suo atteggiamento umile e aperto, di uno che è davvero grato per quello che gli sta capitando.
Abbiamo parlato degli artisti principali ma anche sul “Woodoo Stage” si è vista bella roba. Peccato solo che sotto a questo palco, sede dei concerti della prima parte di ogni giornata, non ci fosse mai troppo gente. Colpa forse degli orari (si sa che in Italia prima di una certa non si presenta nessuno neanche per sbaglio) ma anche di una cronica mancanza di curiosità, per cui se chi sta suonando lo conosci già, bene altrimenti chiacchieri, ti bevi una birra o ti piazzi in transenna per l’headliner. È un dato di fatto: finché rimarremo così pigri e poco ricettivi alle novità, c’è poco da lamentarsi che molti artisti ci snobbano o che di festival di livello da noi non ce ne sono o quasi.

Detto questo, su questo palco secondario si sono visti davvero dei bei concerti: uno su tutti quello di Venerus, fuoriclasse vero, suono internazionale che guarda molto all’Rnb e al Neo Soul di gente come James Blake o Blood Orange. Voce pazzesca, pezzi meravigliosi, pur con una band ridotta, rispetto a quando lo abbiamo visto al Mi Ami e nonostante alcuni problemi di suono (leggi, bassi fin troppo saturi) ha offerto una prestazione maiuscola, una delle migliori di questi tre giorni. Forse l’unico che possa davvero competere con le cose migliori che succedono all’estero.
Sulla stessa linea, fuori posto ma allo stesso tempo perfettamente a loro agio, sono stati i Black Beat Movement, in giro da diversi anni e punta di diamante di un genere che da noi ancora fatica a trovare spazio. Funk, Soul, Rnb, Hip Pop, tutto miscelato insieme in uno show bellissimo e potente, dove il Groove l’ha fatta da padrone e dove i pochi presenti hanno comunque ballato dall’inizio alla fine. Band superlativa dal punto di vista tecnico, con la cantante Naima Faraò vera punta di eccellenza. Se non li conoscete recuperateli al volo.
Un po’ fuori contesto ma anche lui bravissimo è stato EDY, siciliano trapiantato a Roma, che ha esordito lo scorso anno con un disco, Variazioni, che mescolava cantautorato e Pop in maniera decisamente disinvolta ed interessante. Dal vivo tutto acquista più spessore ed un certo feeling rock che non disturba. Lui poi è bravo e molto comunicativo. Attendo di vederlo presto in uno show tutto suo, visto che ha promesso di tornare: a questo giro è stato bello ma troppo breve.
Mi sono piaciuti anche gli Handlogic, che hanno aperto il venerdì, con il loro Math Rock sofisticato e dinamico anche se forse, nonostante un bell’impatto ed una indubbia capacità tecnica, sono mancate un po’ le canzoni.
Tra le proposte più in linea con il trend del festival, grande successo ha riscosso DOLA, indubbiamente nuovo nome di punta di Undamento, come ha dimostrato la presenza tra il pubblico di Frah Quintale, Dutch Nazari e Ceri Wax, che gli ha anche prodotto un brano del suo esordio Mentalità. Un live interessante, con lui che si muove bene e tiene ottimamente il palco, unitamente ad una buona dose di tamarraggine nelle basi. Le canzoni le ha, l’attitudine è quella giusta per conquistare il pubblico che impazzisce per questo It Pop dalle sonorità Urban. Del resto la partecipazione dei presenti è stata tale da far ritenere che qualcosa stia già succedendo.
Dimeglio l’ho visto solo per una canzone e poco più ma la sua ricetta è un po’ troppo appiattita su quella di Calcutta, con in più un eccessivo autocompiacimento e non è mai riuscita a convincermi (l’avevo già visto in precedenza, in un paio di occasioni), nonostante qualche buona intuizione all’interno del suo repertorio indubbiamente ci sia.
Molto meglio il padovano Jesse the Faccio, simpatico cazzaro che propone un rock sgangherato, tra il garage, il punk e l’Indie chitarroso dei primi Duemila. Canzoni che non sono dei capolavori ma che si ascoltano con piacere e che nella dimensione live suonano addirittura più definite e a fuoco che su disco. Arriva anche la cover di Gennaio dei Diaframma, incisa recentemente come singolo. Non dei fenomeni ma perfetti a quest’ora della giornata.
Il mio Woodoo quest’anno si è chiuso con il dj set di Ivreatronic (Cosmo compreso) ma per certe cose sono ormai decisamente vecchio, oltre che i Dj Set duri e puri non mi hanno mai interessato. Rimango un po’, abbastanza per constatare volumi a livello spaventoso (era ora!) e gente nel complesso presa bene che ha fatto quello che andava fatto: ballare. Tutto bello ma tutto un po’ troppo noioso per me. Vado via contento, con la certezza che anche stavolta i ragazzi dell’organizzazione abbiano fatto uno splendido lavoro. Se si vuole sapere che cosa sta succedendo musicalmente in Italia ormai bisogna per forza passare da qui: questo, a mio parere, è il più grande segno della vittoria del Woodoo Fest.
Day 5
Ultimo giorno per un’edizione molto ricca, e in questa domenica abbiamo assistito ad una delle più belle esibizioni live, ma andiamo con ordine. Quando ancora le persone stanno facendo la coda per entrare, così come nei giorni prima, iniziano a suonare sul “Wood stage” ancor prima che ci sia qualcuno a poterli vedere; scelta opinabile, e il risultato è che almeno due brani vengono suonati con gli alberi come spettatori. Le canzoni perse erano di Mille Punti, ex membro dei Revo Fever (band scoperta e persa nel giro di poco tempo, con non poco dispiacere), a cui si aggiungono Riccardo Montanari (Belize) e Marco Manini (Les Enfants). Avrei potuto riconoscerli, ma i loro bellissimi vestiti non me lo hanno permesso; avete presente i video fintamente ispirati agli anni ’70, visti necessariamente attraverso un tubo catodico? Ecco, adesso girando la manopolona del volume, non capisco se essere divertito o se dover cambiar canale. In realtà la proposta è originale, ma credo serva più per omaggiare una passione per gli anni ’70, ma visti in modo distorto attraverso un gusto anni ’80. Numeri a parte, i brani sono dance/funk con testi in italiano, se cercaste notizie su di loro trovereste il solito copia incolla vergognoso usato come bio, e ripreso da chiunque ne voglia descrivere le sonorità; fate di meglio, cercate qualche loro video per avere un colpo d’occhio sonoro e capire di cosa sto parlando, e comprendere la particolarità del loro progetto.
Dopo i Mille Punti e i loro vestiti colorati, arrivano i Dellacasa Maldive, e anche loro non disdegnano colori e testi italiani. Amore Italiano è stato il loro debutto ufficiale, e si passa dalle visioni B-Movies anni ’70 dei Mille Punti ad una proposta più asciutta, con il solito amore elettronico per gli anni ’80, ma con un suo utilizzo molto personale. Un sound lineare, ondeggiante e scandito da giri di basso puliti, una batteria sindacale e un uso/abuso di “e” aperte, e allargate da un delay al limite della sopportazione, su un cantato italiano che non si scosta molto da altre proposte “it pop indie zone”. Il pubblico apprezza e si muove, ma dietro gli uomini della sicurezza, nel back stage, che è più “lato” che “back”, intravvedo i romani Mòn e so già cosa ci aspetta, e le previsioni non sono state tradite. Sarò di parte, sarà che ne ho recensito l’album Guadalupe, ma la loro proposta musicale arriva come pioggia fresca, e non sono il solo ad apprezzarne il refrigerio. Non voglio esagerare, ma un bel cambio di line-up sarebbe stato gradito, o quantomeno li avrei proposti sul “Big Foot stage”, tanto che sono stati i più applauditi del “Wood stage”, e i soli che arrivando al termine della loro esibizione, hanno suscitato qualche “bis” tra il pubblico. Hanno riproposto i brani dell’album, riempiendo il palco con la loro bravura, il suono etereo, quasi mistico, il fascino degli incastri sonori e vocali, e la percezione di ogni piccolo suono presente nell’album e riproposto sul palco. Molto personali nella proposta e nel modo di suonare, in particolare il chitarrista che si muove e suona divertito, e le “good vibration” che fanno ballare l’affascinante Carlotta, nel suo lungo vestito rosso. Onde sonore, suoni live e synth che restituiscono una performance veramente ottima; l’unica pecca forse è la poca interazione verbale con il pubblico, ma in realtà in alcuni casi è superflua, è stato come guardarli attraverso una bolla che pian piano si espandeva e coinvolgeva i presenti.



Poco dopo, si corre in direzione del “Big Foot stage”, verso la transenna per poter finalmente assistere al live de La Rappresentante Di Lista, che con il loro Go Go Diva hanno fatto un notevole passo avanti, portando l’asticella delle aspettative un bel po’ più in alto. Palco che si arricchisce di piccole barre verticali composte da multi-led, disposte secondo una ben precisa coreografia, e un piccolo amplificatore con scritto “Ti Amo”; ed ecco che arrivano sul palco e tornano i colori, le luci, la coesione e il coinvolgimento, ma soprattutto una delle performance migliori di tutta la serata. Veronica e i ragazzi hanno scelto un abbigliamento sobrio e discreto: giallo, arancione, calze a rete, rossetto, tutine anni ’80 ed energia mista ad emozione. Già, perché le capacità tecniche ed espressive non mancano a nessuno dei musicisti, che spesso si scambiano i ruoli e gli strumenti, ma l’energia che trasmettono è micidiale, così come le emozioni; sia attraverso i testi, sia attraverso una breve esortazione espressa da Veronica. L’amore espresso attraverso le canzoni e il sentire dei musicisti, viene riflesso e vissuto in prima persona, questo va oltre le prime file coinvolgendo ed emozionando, condividendo ogni parola e suono prodotto dai ragazzi e regalandoci una performance di primo ordine, confermandoli coma una delle più belle uscite/conferme dell’anno scorso.


Come dicevo prima per i Mòn e il loro posizionamento errato, ecco che arriva Giorgio Poi, a confermare uno strano ordine di scaletta. Classe ’86, cappellino, chitarra e tanta gavetta alle spalle, lo hanno riportato in Italia dopo aver girato in Europa e all’estero, trovando nella musica italiana, la sua “nicchia” sonora. La proposta è piacevole, lui è capace ed è accompagnato da un bassista salterino che gioca, ricamando e armonizzando intorno gli accordi suonati da Giorgio. Bella la scenografia, con delle animazioni diverse per ogni canzone accompagnando visivamente un concerto che scorre abbastanza bene, tra brani tratti da Smog e il precedente Fa niente, che tutti apprezzano e cantano all’unisono. Il pubblico mi stupisce, come lo aveva già fatto per altre esibizioni, e anche in questo caso ne intuisco la vicinanza generazionale. Suonare dopo l’esagitata Veronica de La Rappresentante Di Lista potrebbe essere un problema, ma lo è stato solo in parte proprio per la partecipazione del pubblico che le canta tutte.



Partecipe e numeroso, il pubblico freme per l’arrivo degli headliner della serata, i Fast Animals And Slow Kids. Il pubblico satura lo spazio antistante, le transenne iniziano a trattenere e a muoversi, e tantissimi sono davvero impazienti di assistere alla loro esibizione. Vero è che è stato l’ultimo gruppo, vero che puntano molto sulla voce, presenza, e i capelli del frontman Aimone Romizi, ma qualcosa non mi convince.


A partire dai suoni che vengono inutilmente alzati mandando in distorsione quasi tutto e rovinandone l’ascolto, ma tutti cantano e pogano su testi al limite del più discreto dei gruppi rock anni ’90, anche se senza distorsioni e con tanti cuoricini. Forse il vero gap generazionale è nato quando dal palco e dal pubblico si sono viste le mani giunte ad indicare “tanto cuore”, ma poco importa se i testi li vedi riflessi sulle labbra di quasi tutti, perché hanno voglia di cantare a squarciagola e di pogare senza saperlo fare. Aimone è bravo con il pubblico, sa tenere il palco, sa esagitare e far muovere, e se questo vi sta bene, siamo tutti contenti, ma è come fare il bikers con la vespa. Nonostante tutto, di palchi ne hanno macinati e l’esperienza è innegabile e se la risposta è quella avuta dal pubblico, è stato comunque un ottimo risultato.


Il bosco è strano, ognuno cerca e trova una propria radura sonora, e così il Woodoo Fest ci ha regalato un ventaglio di proposte che hanno accontentato, incuriosito o in alcuni casi semplicemente intrattenuto, ma che in ogni caso hanno avuto una partecipazione che mi ha sorpreso. Anche quest’anno ottimo il lavoro dell’organizzazione, ma soprattutto ottimo il pubblico, che ha ancora voglia di sudare e divertirsi, (cuoricini a parte) e senza il quale ogni sforzo e ogni proposta sarebbe inutile.
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