L E T T U R E


Recensione di Alessandro Tacconi

Prima vengono i tamburi sacri, poi i corpi, infine le voci che innalzano canti a 10, 100, 1000 divinità visibili da ogni parte del creato. I corpi iniziano a muoversi non a ritmo ma “nel ritmo” della pulsante esistenza del battito che ogni cosa permea e in cui ogni forma di vita esiste. La pulsazione segna l’inizio e la via, su questa s’inanella ogni ulteriore espressione musicale.
Sonnie Taylor, pianista originario dell’isola di Trinidad, nel 1978 tiene alcune conferenze nell’ambito dei Servizi Culturali Olivetti organizzati da Ludovico Zorzi. Il volume From slavery to jazz, pubblicato meritoriamente da Right Tempo, raccoglie i testi preparati dal nostro per raccontare la storia del popolo africano dalla deportazione alla creazione della musica jazz. Di particolare interesse i prodromi musicali che hanno prodotto la forma musicale del blues e da lì tutto quel che ne è seguito.

Sulle navi negriere i canti degli schiavi, oltre che dolente addio alla terra natìa, sono il movente per le rivolte il più delle volte sedate nel sangue. Gli africani sono gente “senza dio e senza anima”, come sostengono i predicatori cattolici, quindi poco importa che perdano la vita in questo o quel modo. Nelle parole delle loro canzoni appare ben presto una specie di patois della lingua del padrone, oltre ai versi in lingua africana, che restano oscuri ai bianchi e si fanno codice segreto. 

La mia rabbia, talvolta,
è talmente brutta, è come se stesse seduta
fuori dalla natura, chiamando anche me
fuori, in qualche freddo vento merdoso
dell’inferno dell’uomo di colore. Le morte preghiere
che mi inaridiscono.

(Amiri Baraka, La morte della ragione)

Sonnie Taylor scrive: “La schiavitù esisteva anche in Africa, in Europa e in Medio Oriente, ma un africano fatto schiavo da un africano o un bianco occidentale fatto schiavo da un altro bianco occidentale rimaneva pur sempre un essere umano. Pur essendo ridotto a semplice entità economica, magari sottoposto a crudeltà indicibili, quell’uomo continuava a essere un membro della comunità (…) Invece agli africani tanto sfortunati da trovarsi su una nave negriera non era nemmeno concesso di far parte della razza umana”.
Sradicati dalla terra natìa, vessati e brutalizzati dagli schiavisti, in contatto solo con sofferenza e rabbia, questo il destino di milioni di individui sfruttati nelle piantagioni di caffè, cotone, canna da zucchero…
Canti di lavoro, shouts e hollers raccontano fatti drammatici e dolorosi di una condizione pressoché immutabile. Il field holler, il grido di richiamo dei lavoratori dei campi, è composto da una struttura di domanda e risposta ereditata dai dialoghi sonori dell’Africa nera e ha una profonda ascendenza sul blues. Le voci hanno effetti di glissando e legato, tipici della musica afroamericana, e danno luogo alle blue notes.
Tipica derivazione dall’Africa occidentale è l’interpretazione dei canti di lavoro e del blues con la voce tesa e un po’ roca. Intonazione e accento variano e ampliano i significati di una parola e quindi di una frase che contiene un sottotesto che sfugge alla comprensione dei negrieri.
Un unico anelito si leva per trovare un po’ di conforto a un’esistenza che ha spezzato gambe, braccia, animo e volontà a tanti esseri umani di ogni età e sesso. E allora anche la religione, quella cattolica dell’uomo bianco, il demone bianco, va bene se aiuta a sperare in un futuro migliore, ma come può esserlo se i deportati sono di tribù differenti e le famiglie vengono smembrate fisicamente e geograficamente con la compravendita degli “articoli” più interessanti e promettenti da parte dei proprietari delle piantagioni.   

W’en Ah got up dis mohnin’ de blues wuz walkin’ ‘roun’ mah bed,
w’en Ah got up dis mohnin’ de blues wuz walkin’ ‘roun’ mah bed,
w’en Ah wen’ tuh eat mah breakfas’, yo’ kno’ de blues wuz all in mah bread
.

Stamattina quando mi sono alzato la tristezza passeggiava intorno al mio letto,
stamattina quando mi sono alzato la tristezza passeggiava intorno al mio letto,
quando mangiavo la colazione, pensate la tristezza era tutta nel mio pane.

(Huddie Ledbetter, Good Morning Blues)

Questo è l’humus da cui i suoni, i canti, le melodie prendono poco a poco forma e da cui si svilupperà per sentieri poco prima imprevedibili la musica jazz, il maggiore anelito alla libertà ed espressività individuale che il popolo afroamericano abbia prodotto nel XX secolo.
A Sonnie Taylor va il merito di aver saputo raccontare in breve la complessità di una storia sociale e musicale che si è prodotta nell’arco di diversi secoli, rendendola fruibile a un pubblico non per forza appassionato di blues o jazz ma senza dubbio curioso.

    



Questo straordinario album 🔽, ristampato in occasione dei trent’anni di attività di Right Tempo, è un omaggio al grande pianista trinidadiano Sonnie Taylor che, in queste registrazioni, accompagnato dalla cantante Shirley Bunnie Foy e dal percussionista Anthony Ange Franzino, esprime tutta la sua natura musicale, legata all’Africa e alle radici spirituali della musica jazz.