L I V E – R E P O R T


Articolo di Fabio Baietti immagini sonore di Antonio Spanò Greco

Dove eravamo rimasti”? Questo è il quesito che aleggia nella foltissima schiera di fans, appena i Cheap Wine prendono posto sul palco. L’acchito di Dance over troubles aiuta a dare un primo abbozzo di risposta, riportando immediatamente le lancette indietro ad anni di sudate t-shirt e di cori ad alto volume.

Il combo pesarese, tornato da poco alla composizione originale di quartetto, è ben consapevole che, in questa data, audience e luogo potrebbero segnare una svolta, in un periodo pieno di incertezze e dubbi. Soprattutto, segnato da sempre minori possibilità di proporre live la propria musica.

Questa sera faremo un viaggio insieme. Lasciatevi trasportare dalle canzoni…” Mai premessa fu così prodiga di buoni auspici!

La prima parte vede riletture ad alto tasso emozionale da Dreams (Full of glow e Naked) ed una prima messe di canzoni tratte dall’ultimo, incisivo, roccato Yell. Se Sun rays like magic e No longer slave scorrono fluide e potenti è Your fool’s gold a certificare che la capacità di scrittura di Marco Diamantini ha prodotto l’ennesima perla da aggiungere alla collana dei loro highpoints. Epica ballata rock dal crescendo mozzafiato, grazie alla bravura di un Michele Diamantini che, da 25 anni, continua a mietere unanimi, strameritati consensi di chitarrista dal talento infinito. Bravura che risplende nell’esecuzione del brano che trasforma un set già di spessore in qualcosa, soprattutto per i/le Wineheads di lungo corso, di assolutamente memorabile. “Intravedo volti conosciuti di persone che hanno fatto molti kilometri per essere qui stasera. Questa canzone non la suonavamo da anni, molti anni. La dedichiamo a chi è arrivato dalle Valli Lombarde, questa canzone è…”City lights“. I puntini di sospensione non sono un capriccio grammaticale di chi scrive bensì rappresentano il microscopico lasso di tempo in cui lo stesso ha sperato che, dall’urna dei ricordi più belli degli ultimi cinque lustri, uscissero proprio QUELLE due parole. Un’emozione più che palpabile, assolutamente VISIBILE nelle voci e nei volti di varesotti, comaschi, lecchesi, bresciani, altomilanesi. Rappresentanti delle centinaia di fans che, nelle tante trasferte dei Cheap Wine, riempivano le pagane chiese musicali di Cantù, Pavia e Legnano, ora sconsacrate dall’epidemia e dalla scia di incuria culturale che ha prodotto.

Memorabile potrebbe risultare eccessivo, come aggettivo, rispetto alla svolta presa ora dal set? La risposta è nella seconda parte della setlist. Innanzitutto, la grande sorpresa di ascoltare The fairy has your wings non più in chiusura, in pompose versioni di lungo minutaggio, ma in un’eccellente resa di suoni scarnificati, sottolineati da un uso ficcante dell’armonica. L’epica sonora muta in una ballata che, se possibile, esalta ancor di più il significato del brano e la memoria di chi è stato dedicato. Cambiamenti che Marco Diamantini spiega subito dopo, introducendo una pacata versione di Lay down. Il paragone dei diversi abiti sonori con cui rivestire una stessa canzone visti come dei flussi molto simili a quelli del mare.

Marco lascia spazio a brevi ricordi personali, tasselli di vita trasposti nei suoi testi. Così, la cupa, inquieta Muddy hopes paga tributo ad anni poco inclini alla positività, tradotti in un disco intriso di rabbia come Beggar town. Il concerto è definitivamente decollato. I primi ad accorgersene sono proprio i membri della band. Finalmente sorridenti, complici, il gusto della battuta “ad hoc”. Una “new side” dei Cheap Wine, plasticamente rappresentata dal “linguaggio del corpo” del loro frontman, nei concerti da me visti, a cavallo dell’era Covid, spesso appoggiato all’asta del microfono con uno sguardo inquietante, diretto verso un altrove da lui solo conosciuto. E ora, al contrario, immagine di ritrovata serenità, con un sorriso ben più che abbozzato mentre avanza verso il bordo del palco quasi ricercando il contatto fisico con i fan. Facendo loro arrivare, a mio parere, un doppio messaggio. Da una parte, mostrare visivamente una ritrovata voglia di suonare insieme, tradotta pure dall’apprezzato ritorno in scaletta di tre cover al fulmicotone (la pettyana Face in the crowd, una tesa Sweet Jane ed una clamorosa One more cup of coffee, tirata quasi allo sfinimento fisico di un mastodontico Alan Giannini ai tamburi e di un metronomo Andrea Giaro al basso). Dall’altro, ribadire con orgoglio la Storia della band, longeva, nonostante tutte le insidie e le difficoltà trovate sul cammino, e autrice di pezzi che, per molte persone, sono la traduzione in parole e note di importanti spezzoni delle loro vite.

Logica conseguenza è un finale affidato a due pezzi che, seppur tra loro musicalmente eterogenei, trovano, sulla base delle premesse illustrate, unitaria sintesi. Dapprima, Mary riporta l’udito a Ruby shade e la mente all’inizio del secolo (fa strano scriverlo ma è così). I concerti con pochi ma esaltati spettatori, il cerchio che si allarga, il passaparola, la gente fuori dai locali. Marco canta con voce sicura e Michele dipinge assoli, con quel l mix tra l’onirico ed il “carnale”, da sempre suo trademark.

Si chiude (forse…) con una detonante, poderosa Freak show, inno dei Cheap Wine più limitrofi al punk, alla cui resa perfetta manca solo l’impossibilità fisica di lanciare vie le sedie, unendo il pubblico ormai esaltato, in un panteistico tutt’uno con la band. Il Giardino è stato più volte definito, da Marco Diamantini, il “club dei miei sogni”. La notevole competenza alla consolle audio e al mixer luci ha spiegato assai bene una parte di questa sua affermazione. L’altra risiede nella passione con cui lo staff del locale cerca di avvicinarsi a quella del suo gestore. Quel Giamprimo Zorzan, assente in non desiderata contumacia per motivi personali, a cui è stato sicuramente dedicato il gran finale di Leave me a drain, trascinante nel suo incedere roccheggiante e con quel mantra da ripetere in coro. Perché, per molte anime in perenne travaglio, ancora non esiste un posto per nascondersi.

Due ore abbondanti di energia, passione, resilienza, condivisione e grande Musica. Ricordando che le band e gli artisti sul suolo italico che resistono, proponendo materiale originale, sono sempre di meno come i locali in cui possono suonare. Nell’entusiasmo finale, un improvvisato portavoce delle “valli lombarde” ringrazia sentitamente la band per la setlist “spezzacuori” mentre qualcuno, sotto una pioggia ormai notturna, sottile ed insistente, è sicuro di aver visto passare veloce un ragazzo con un maiale al guinzaglio…

Lunga vita ai Cheap Wine!