L I V E – R E P O R T


Articolo di Nicola Barin, immagini sonore © Gabriele Lugli

Il preludio della rassegna You must believe in Spring 2024 si è già messo in movimento, come sempre l’apprezzamento va al patron dell’associazione Mantovana 4′ 33”, Matteo Gabutti, che anche quest’anno è riuscito a realizzare un cartellone di indubbio interesse.
Nella regale Sala dei Cavalli di Palazzo Te a Mantova ci viene offerta la possibilità vera e propria di assistere a un “evento” che coinvolge parola e linguaggio, come ricorda il filosofo Giorgio Agamben: “…l’evento sia sempre anche evento di linguaggio e l’avventura indissociabile dalla parola che lo dice. L’essere che avviene qui e ora avviene a un ‘io’ […].

L’evento ha a che fare con il dicibile che, ricorda ancora Agamben: “non è qualcosa di soltanto linguistico né qualcosa di semplicemente fattuale: secondo una fonte antica esso è un medio tra il pensiero e la cosa, fra parola e mondo. Non la cosa separata dalla parola, ma la cosa in quanto detta e nominata; non la parola come segno autonomo, ma la parola nell’atto in cui nomina e manifesta la cosa. Ovvero, come si potrebbe anche dire, la cosa nella sua pura dicibilità, nel suo accadere nel linguaggio”. In questo senso la serata, almeno personalmente, ha avuto i caratteri dell’evento che, come ricorda il pensatore Gilles Deleuze: “l’evento non è quel che accade (l’accidente), è, in ciò che accade, il puro esprimibile che ci fa segno e ci aspetta”.

La performance della musicista americana, già membra dell’Association for the Advancement of Creative Musicians (AACM), si situa in questo contesto unendo recital, musica, happening. Il progetto Coin Coin Chapter Five: In the Garden, giunto al quinto capitolo, è il tentativo di uno sforzo immane di raccontare, e ancor di più di far emergere le tensioni, le storie, gli umori del popolo afro-americano. Uno sforzo gravoso che si avvale del corpo dell’artista, della voce, della fisicità. Il continuo vagare cercando i giusti riverberi, le timbriche più suggestive, gli armonici sprigionati dallo strumento che si scontra/confronta con gli affreschi della sala tentando quasi un dialogo immaginario.
Siamo nell’imbarazzo più totale nel descrivere una serata dalla mille sfaccettature che si offre variegata e densa di concetti: la Roberts non si affida alla memoria e al racconto lineare, studia nuovi approcci: è una storyteller sui generis. Nella seconda parte del concerto chiede al pubblico di mantenere una nota continua su cui si sprigiona la sua voce, un timbro antico che ci ricorda il gospel, un blues che ritorna, un ritornello che si inframmezza tra le persone, la sala, gli affreschi. Tutto risuona di nuovo. Finisce la performance e qualcosa è accaduto, qualcosa è emerso, si è manifestato, prima non era presente. Le persone si aggirano per le stanze affrescate con una nuova consapevolezza.

Una sensazione simile che si traduce nelle parole dello scrittore Raymond Carver dopo aver letto un racconto:”[…] magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del nostro corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, «creature di sangue caldo e nervi», come dice un personaggio di Čechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita.