R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Un amico jazzofilo mi ha confidato come alle volte, tra l’oceano delle varie proposte disponibili, egli avverta l’inderogabile bisogno di ascoltare del “jazz-jazz”. La ripetizione di questo sostantivo sottolinea un desiderio, poi non così raro, di tornare in certi momenti alle forme più conosciute e rassicuranti del così detto modern mainstream. Cioè una definizione che voglia alludere ad un jazz costruito sulle forme nobili e storiche della tradizione, certamente prevedibile in una certa qual misura ma caratterizzato da swinganti soluzioni ritmiche, immediatezza espressiva, buona tecnica e assimilabili costruzioni melodiche. Un ritorno, quindi, ad un’edenica condizione primigenia. L’equilibrio tra stimolazione fisica – quella certa sensazione di piacevole sollecitazione nervosa – ed eccitazione mentale, possiamo ritrovarlo in un album double face come questo A Sound in Common, titolo che specifica non solo il prodotto di un lavoro collettivo ma che funge anche da nome estemporaneo per un gruppo di quattro musicisti tutti italiani, escludendo l’ospite che presenteremo tra poco. Quattro giovani – tutti più o meno sulla trentina – alcuni dei quali residenti stabilmente a New York, ma già strumentisti d’esperienza che rispondono ai nomi di Francesco Patti e Giuseppe Cucchiara, entrambi siciliani, rispettivamente al sassofono tenore e al contrabbasso, insieme al lombardo Andrea Domenici al pianoforte e al marchigiano Andrea Niccolai alla batteria. A garantire un punteggio qualitativo ancora più alto appare come ospite in tre brani il cinquantasettenne Peter Bernstein alla chitarra, musicista statunitense dal curriculum stellare che è presente circa in una quarantina d’incisioni tra quelle in cui figura da titolare ed altre nelle quali s’affianca a colleghi del calibro di Jimmy Cobb, Eric Alexander, Lou Donadson, Larry Goldings, Lonnie Smith, Sonny Rollins ecc…

Una considerazione sul linguaggio utilizzato da questo gruppo ci indirizza verso l’età dei partecipanti, tutti più o meno trentenni e coetanei – tranne Bernstein – segno che i tradizionali moduli espressivi del ritmo in levare sono ancora appetibili per gran parte dei giovani jazzisti. Un post-bop che ci obbliga maggiormente a riflettere come tutto questo non avvenga alla periferia culturale del mondo ma proprio nel cuore di New York – l’album è stato registrato al Sear Sound di Manhattan – città che ha sempre rappresentato e non solo simbolicamente l’anima più vitale del jazz. Il fatto poi che molti jazzisti tra i più giovani si muovano dai paesi mediterranei – non solo l’Italia – per suonare in Olanda, in Inghilterra e negli Stati Uniti, non fa altro che rimarcare quello che già succede in altri campi della cultura e del sapere. Un numero crescente di validi e promettenti musicisti lascia il proprio paese d’origine non solo per avere più possibilità di lavoro ma anche per farsi compenetrare da quella giusta atmosfera collettiva che si respira più facilmente in altri territori storici che non in quelli nostrani. Comunque, la musica di questo album è avvolgente, calda, ben suonata e soprattutto divertente. Si tratta di brani tutti originali, quindi non ci sono cover e questo a testimonianza della voglia di fare e della lievitazione creativa di ciascun artista. Tenuti lontani i rischi di plastificazione, l’album si dimostra un corpus omogeneo, con una copertina che ricorda i disegni geometrici e razionalisti degli anni’60. Ci sono codici espressivo-sintattici che vengono correttamente rispettati – anche se un poco più di coraggio, magari, non avrebbe guastato – e un risultato d’insieme che va ben oltre la semplice accettabilità.

L’apertura dell’album è affidata a 2048, il primo brano della sequenza. Una decisa rullata di batteria è il giusto abbrivio per la comparsa del tema, un tracciato molto swingante segnato dal sax e dall’elegante accompagnamento del piano. Interviene un assolo di Bernstein alla chitarra elettrica che scorre liscio come l’olio e che precede quello di Patti al sax – un suono molto maturo e materico – e di Domenici al piano. Finale con la ripresa del tema che va quindi a chiudere. Con Daedalu’s Dream siamo già in clima ballad e forse la collocazione sequenziale di questo brano avrebbe potuto essere più posticipata in scaletta, per dare maggior ampio respiro ai pezzi che solitamente all’inizio di ogni album sono maggiormente movimentati. Il brano, composto dal contrabbassista Cucchiara, si muove felpato introdotto da una serie di accordi malinconici di pianoforte e con un tema condotto dal sax e che sembra raccontare le illusioni svanite del mitologico padre di Icaro, a cui si fa riferimento nel titolo. Il paesaggio sonoro diventa rarefatto e crea spazio per l’assolo avvolgente di Cucchiara, con una batteria che gli sussurra d’appresso. La partecipazione del piano si fa avanti con discrezione, Domenici è un musicista raffinato e lo si coglie dalla misurazione attenta delle sue note, quelle che servono al mood del brano e non una di più. Riprende il sax il tema principale con qualche minima variazione per accompagnare il tutto al finale. Anche Patti si dimostra attento e ponderato nei suoi interventi, ben compreso nel clima di equilibrato interplay tra le parti.

In pieno regime hard-bop ci si trova immersi subito dopo con Deck 5, composizione dello stesso sassofonista palermitano. Probabilmente uno dei brani migliori dell’album, sia come intensità che come livelli tecnici espressi. Il ritmo incalzante e l’escursione molto sicura di Patti si fa largo attraverso il concitato nodo ritmico di contrabbasso e batteria, mentre il piano piazza i suoi accordi spesso dissonanti cercando opportuni spazi tra i fraseggi del sax, in piena trance sonnyrollinsoniana. Quando anche Domenici e Niccolai partono con l’assolo, seppur in momenti diversi, si realizza in pieno il coefficiente di energia totale trasformata in lavoro musicale, direi quasi ad entropia zero. Un piccolo rallentamento strategico, ovviamente, solo verso le battute finali. My Mountains ritorna verso un down tempo in una composizione dal clima sereno firmata Domenici e dedicata alle montagne dell’Appennino. Qui è la chitarra di Bernstein che detta un andamento sobrio e pieno di calore affettivo, come solo può accadere nell’essenza di certi ricordi. Una chitarra dolce, che si diletta in questa descrizione di immagini rievocate, dà il cambio all’assolo sempre garbato di piano. Come contrappunto al tema principale sostenuto da Bernstein si fa vedere il sax, con grazia non invasiva. AstraZeneca è un’altra proposta di Domenici che retroattiva la memoria ai momenti pandemici e ai climi di tensione del periodo, con statistiche e fronti ideologici contrapposti. Quasi un blues dalle sfumature inquiete, con il sax che imposta un tema diligente fino ad esplodere in un’improvvisazione solida e materica ma sempre condotta senza estremizzazioni. Così pure il pianoforte, che mantiene un andamento ondeggiante di swing, con l’assolo forse un po’ scolastico, seguito da un dialogo tra contrabbasso e batteria che si rimbalzano le proprie iniziative soliste l’un l’altro. Interlude è un suono in solitudine del contrabbasso dal passo grave, risultato di una robusta cavata compositiva di Cucchiara, quasi una voce sciamanica che prelude, previa un’accelerazione ritmica, al seguito della creazione stessa, cioè The Jordan River. Tutti gli strumenti confluiscono qui in un fresco streaming che insieme al già citato Deck 5 si costituisce come uno tra gli episodi migliori dell’album, soprattutto per il convincente assolo di Patti dalle evidenti tracce coltraniane. Buono anche l’apporto solistico del pianoforte, prima che il tema venga ripreso per la conclusione del brano al rallenty. Ma ancora meglio ci racconta l’ultimo pezzo in scaletta, cioè Simple as That, proprio di Bernstein. Musica di gran classe, ottimamente strutturata che ci riporta allo splendore creativo di certo jazz anni’60. La chitarra dal suono che più classico non si può s’intercala in un dialogo spesso sovrapposto col sax molto morbido di Patti. Stacchi strategici, ritmica moto professionale e un bell’assolo finalmente più sciolto di Domenici. Si chiude, insomma, con un gran bel sentire a trecentosessanta gradi.

Il quartetto Patti, Domenici, Cucchiara & Niccolai costruisce un opera di buona dignità compositiva ed esecutiva. Mi verrebbe da dire che non manca certo il coraggio, a questa band, di essere normalmente jazz in un periodo dove capita di tutto, persino musicisti che suonino contemporaneamente in tonalità diverse per essere definiti d’avanguardia – si è sentito anche questoe per mascherare l’incombente mancanza di idee. La musica contenuta in A Sound in Common risveglia la nostra parte più assopita, quella legata al puro piacere di un ascolto che si misura – finalmente, verrebbe da aggiungere – attraverso la solida eredità culturale e identitaria dei musicisti che qui si sono proposti.

Tracklist:
01. 2048 (A. Niccolai/D. Germani) 04.33
02. Daedalus’s Dream (G. Cucchiara) 05.26
03. Deck 5 (F. Patti) 05.56
04. My Mountains (A. Domenici) 04.41
05. AstraZeneca (A. Domenici) 05.46
06. Interlude (G. Cucchiara) 01.39
07. The Jordan River (G. Cucchiara) 05.13
08. Simple As That (P. Berstein) 05.19