R E C E N S I O N E


Recensione di Monica Gullini

Non ci girerò intorno: Big Swimmer mi ha letteralmente ridotto il cuore in pezzi. Tutto avrei pensato meno che di imbattermi in un disco così bello, delicato e pieno di vita, nonostante la tristezza e la malinconia che affiorano in superficie. Perfetti sconosciuti per me i King Hannah prima di questo meraviglioso secondo capitolo uscito il 31 maggio per City Slang. Che fortuna, che gioia, che benedizione avere nell’universo Hannah Merrick e Craig Whittle.


L’album parte con la title track. Nessuna esitazione, il livello è alto, altissimo. C’è chi vi ha trovato i Velvet Underground, io ho avuto un tuffo al cuore, immediatamente. Sarà che ho sentito forte l’atmosfera di River di Joni Mitchell, sarà che in entrambi i pezzi è predominante l’elemento acquatico sebbene lo si sorvoli con stili diversi o vi si perda senza remore (c’è chi pattina su una superficie gelata o chi avanza a larghe bracciate), una cosa è certa: ovunque aleggia una nostalgia che conduce dritta dritta alle lacrime. In Big Swimmer la chitarra è la guida, il suo incedere folk amplifica il bivio che si pone innanzi all’interprete: quando non c’è più nulla da dire (meravigliosa la perifrasi «quando la bocca giunge alla fine»), scendi a nuoto immergendoti nella testa, arrivando alla radice del problema, o salti fuori dal fiume e prendi l’asciugamano? Hannah non ha dubbi: ha un discreto potenziale come nuotatrice e non intende abbandonare il campo. Il suo cantato malinconico a un certo punto si arresta, la sei corde smette di girare e il ritmo diventa elettrico e veloce, in linea con la risolutezza e l’energia di chi cerca a ogni costo di fare del suo meglio. D’altronde, se la sua voce e quella di Sharon Von Etten che la accompagna mi hanno ricordato subito chi poteva pattinare lungo un fiume, perché non dar loro fiducia? Slancio indie rock notevole in New York, Let’s do nothing, narrazione di una nottata trascorsa nella metropoli statunitense; il brano possiede tutte le influenze di Dry, ispirato album di Polly Jean Harvey e nello specifico ricalca molto l’atmosfera e i riff di chitarra di Sheela Na Gig (seppur meno rabbiosi), perfetto contraltare è la voce della Merrick, una carezza in un pugno. Gli arpeggi blues di The Mattress risuonano ricchi di distorsioni e si contorcono sempre più su sé stessi, in bilico se controllarsi o galleggiare come quel materasso sull’acqua, mentre il timbro dell’interprete, pregevole nei cambi di posizione, sembra sempre più simile a quello di Suzanne Vega sia nei sussurri che nelle note basse e calde. Al centro del post rock venato di slowcore di Milk Boy (I love you) c’è un uomo con degli strani baffi introdotto da pennate grunge che alzano la tensione, mentre Hannah, a metà tra il cantato e lo spoken word, descrive lucidamente la scena rimanendo fuori dall’inquadratura (il baffone con problemi di Aids è Matthew McConaughey in Dollar Buyers Club); la sei corde diviene delicata ed eterea, alla maniera di Neil Young, in Suddenly, your hand, traccia che elogia la dolcezza dell’amore nel quotidiano, candido come una poesia di Bill Callahan. Di nuovo post rock, questa volta con chiare venature slintiane, in Somewhere near El Paso, racconto picaresco che parte in un sussurro languido sorretto da arpeggi delicati, per poi esplodere in riff energici che incorniciano a perfezione l’avvicendarsi umano in un distributore perso in mezzo al nulla. A un certo punto la chitarra sembra arrestarsi su sé stessa e percorrere gli stessi accordi, sfuriare per poi emettere un ultimo vagito che chiude il brano. Lily Pad ricorda atmosfere radioheadiane e apre strizzando l’occhio a quei quattro che galleggiano sulla copertina dell’album degli Slint, Spiderland: di nuovo post rock obliquo e ancora una volta l’elemento acquatico sulla cui superficie troviamo un oggetto, in questo caso una ninfea. Poco prima era un materasso quello che fluttuava. Che cosa rimane della vita, perché è tutto così vacuo e labile, perché a un certo punto l’esistenza prende una piega inaspettata e si impazzisce come la sei corde che si distorce e piange nostalgia?

Di Davey says parla direttamente la band: «È un brano indie garage rock, un’ode agli anni Novanta. Volevamo fosse un momento rauco, sfocato e leggero del disco con la consapevolezza però che non si può fare tutto ciò che si vuole nella vita. Il verso iniziale “Incontrami prima della festa, non voglio andare solo” è il nostro omaggio all’immaginario degli anni Novanta, a quella nostalgia e a quelle notti d’estate in cui eravamo inconsapevoli del futuro». Scully è un breve interludio dalle venature psichedeliche, con Craig Whittle che si diverte a riarrangiare l’esperienza folk mutuata da Neil Young con intermezzi dissonanti. This wasn’t intentional, penultima traccia del disco, ai cori vede di nuovo la partecipazione di Sharon Van Etten: ricorda molto luci e ombre di Transformer e passeggiate sul lato selvaggio nei suoi assoli scarni e lineari, tendenti al fuzz e distorti come il miglior Thurston Moore. Sullo sfondo due ragazzi, lei si scusa di qualcosa che non ha fatto di proposito, mentre le voci svaniscono in un lamento vaporoso. Chiude l’album la splendida John Prine on the Radio, perfetta cornice country di un momento casalingo, melodrammatica quasi come Suddenly your hand, entrambe sospese nel tempo e nello spazio.

Bellissima seconda prova quella dei King Hannah che confezionano un lavoro contaminato da folk, country, influenze post rock e slowcore in grado di narrare gli spazi più frenetici d’America e quelli più desolati e selvaggi. Merrick e Whittle osservano la realtà e si lasciano guidare da vecchie e nuove fascinazioni musicali, da spoken words languidi e teatrali per narrare paesaggi shepardiani. È un’opera che snuda il fianco alle emozioni più vere e recondite: basta solo osservare la copertina, dove ritorna l’elemento acquatico, quel fluttuare in qualcosa di rassicurante come il liquido amniotico, e il gesto della Merrick di coprirsi il volto con le mani. È un’immagine emblematica perché lei sa che in quel momento non possiede alcuna difesa e si offre agli occhi del mondo con i sentimenti che le abitano dentro.

E così è Big Swimmer, un quadro che è un turbinio di esperienze, sensazioni, emozioni nascoste, paure e piccole cose di ogni giorno. Sentiamo questi due ragazzi di Liverpool così vicini perché descrivono l’amore e la nostalgia in maniera così vivida che sembra quasi di toccarli. Siamo all’interno della cornice, osserviamo ogni sfumatura ansiosi di sapere cosa succederà, cullati da melodie dolcissime e spiazzati da suoni distorti e voci a tratti malinconiche, a tratti languide e crudeli. Non so voi, ma Big Swimmer mi ha messo talmente a nudo da farmi sentire come quei quattro sulla copertina di Spiderland. E chissà, forse grazie ai King Hannah mi libererò del desiderio di pattinare e sfodererò la più ampia delle bracciate.

Tracklist:
01. Big Swimmer (05:22)
02. New York, Let’s Do Nothing (03:22)

03. The Mattress (04:45)
04. Milk Boy (I Love You) (03:53)
05. Suddenly, Your Hand (07:19)
06. Somewhere Near El Paso (08:21)
07. Lily Pad (03:33)
08. Davey Says (02:47)
09. Scully (01:35)
10. This Wasn’t Intentional (05:00)
11. John Prine On The Radio (03:47)