C I N E M A


Articolo di Barbara Guidotti

La mia prima Barbie è stata il modello Malibu, accessori minimali per un salto in spiaggia (californiana o non): costume, occhiali da sole e telo mare. In plastica rigida, capello lungo poco vaporoso di un biondo che nel tempo è virato sull’arancio, aveva immancabili occhi celesti, trucco e piedini predisposti per il tacco alto (in punta di piedi anche sulla sabbia???). 
Con gli anni l’ho vista cambiare: tante linee, modelli, accessori, mezzi di trasporto, abitazioni e professioni. Ha accusato il colpo della concorrenza, rimanendo per qualche periodo nell’ombra di rivali destinate a vita breve, ed è risorta grazie ad abili strategie di marketing che hanno saputo renderla al passo con i tempi, e forse anche qualcosa in più: hanno nobilitato la sua immagine di bionda svampita declinandola in versioni che rispecchiassero sia l’uscita da un certo cliché relativo all’immagine esteriore che lo sforzo quotidiano della popolazione femminile di emanciparsi e perseguire i propri obiettivi sociali e lavorativi. Con l’avvento di Barbie “You Can Be Anything”, Barbara Millicent Roberts ha elevato il suo status di bambola “fashionista” – dotata di un guardaroba per tutte le occasioni – a quello di alter ego per bambine che nei giochi di ruolo potessero proiettare su di lei i propri sogni e ambizioni, costruendo con la fantasia nuovi scenari.

A questo processo mancava solo un ultimo passaggio, che la rendesse contemporanea e credibile senza alcun dubbio: un innesto definitivo nel mondo reale.
Ed è questa operazione che il film Barbie di Greta Gerwig realizza.
Dimentichiamo i precedenti televisivi pensati per l’infanzia, generalmente film animati – agganciati a linee di merchandising – con messaggi edificanti, storie fiabesche a lieto fine, siparietti di “vita da Barbie” sullo stile di “Barbie Life in the Dream House” (nota serie del 2012). 
Barbie – il film – non è una rassicurante storia per bambine, ma un prodotto chiaramente pensato per la generazione delle ex ragazzine che giocavano con lei (e Ken) qualche decennio fa, e al limite l’hanno tramandata alle proprie figlie, che se ne sono presto dimenticate sotto l’onda delle distrazioni digitali.
Ma noi no, non l’abbiamo dimenticata. Abbiamo passato troppi giorni a vestirla, svestirla, pettinarla, farla andare in vacanza, inventandoci storie più o meno probabili per occupare il tempo e pensarci grandi in un futuro ancora ignoto.

Magari l’abbiamo riposta in qualche scatola, ma è ovvio che all’annuncio del film abbiamo provato qualcosa: curiosità, un po’ di trepidazione, il desiderio insinuante di vedere messo in scena il nostro immaginario infantile, il bisogno di salire sulla macchina del tempo e ritornare per un attimo ragazze. Leggendo i commenti, ci siamo convinte che valesse la pena mescolarci con il pubblico di altre generazioni e vedere cosa fosse successo alla nostra Barbie. Ci siamo telefonate, abbiamo scelto che tonalità di rosa indossare (non perché siamo sciocche, ma perché anche a noi piace divertirci e ironizzare, anche su noi stesse), e ci siamo sedute aspettando che sullo schermo uscisse il logo color fuxia.
E abbiamo capito subito che quel film era fatto per noi.


L’incipit si apre con una scena che cita esplicitamente “2001: Odissea nello spazio” di Kubrick, datato 1968 , in cui Barbie si presenta come iconico elemento di rottura rispetto alle bambole tradizionali, surrogato di neonati veri, accudite dalle bambine nella “messa in scena” di un futuro ruolo materno.

Questa è in realtà solo una delle tante citazioni disseminate nel corso del film da Greta Gerwig e Noah Baumbach: dal Mago di Oz a The Lego Movie, da The Truman Show a Toy Story 3, e ancora Rocky, Il Padrino, Grease, gli indizi per una caccia al tesoro per cinefili si trovano ovunque.
Barbieland poi è esattamente come l’avevamo sempre immaginata: un mondo ideale e colorato, ma anche inclusivo e multietnico, in cui Barbie di ogni tipo (compresi i modelli più impopolari o invisi alla cultura puritana ritirati in fretta dal mercato) vivono e governano libere e felici in compagnia di altrettanti Ken che svolgono un ruolo di contorno; l’elemento maschile – in modo volutamente provocatorio – è infatti così marginale da apparire un satellite di Barbie, orbitante intorno a lei senza uno scopo apparente: “I’m Just Ken”, canta nel proprio inno Ryan Gosling.


La Barbie protagonista (Margot Robbie) è il modello Stereotipo, impegnata nella sua Dream House a simulare tutte le azioni della vita vera, da quando si sveglia la mattina a quando va a dormire la sera, magari dopo aver partecipato a un party rigorosamente fra ragazze; e via così all’infinito, se non fosse che a un certo punto nella perfezione plastica di questo universo si forma una crepa, qualcosa si incrina, e si manifestano le avvisaglie di qualcosa di inquietante: “avete mai pensato di morire?” (si) chiede Barbie nel bel mezzo di un ballo scatenato, in un turbinio di glitter e paillettes.
Questa domanda è una sorta di innesco per una serie di cambiamenti che sconvolgono la sua vita di bambola, e dal momento che la fonte dei suoi problemi si trova nel mondo reale (nella persona di Gloria, interpretata da America Ferrera) a Barbie non resta che mettersi in viaggio a bordo della propria auto rosa alla volta di “Humanland”, insieme a Ken che si è nascosto per accompagnarla.
Al suo arrivo la attende una doccia fredda: lo scontro con una realtà pensata al maschile che la mortifica e la fa sentire per la prima volta oggetto. Derisa, insultata e ripetutamente arrestata deve persino difendersi dal tentativo dei dirigenti della Mattel (il Ceo è Will Ferrell) di re-inscatolarla (letteralmente) per farla rientrare nei ranghi.
Questo atto di ribellione è il sintomo di un cambiamento profondo che sta maturando nell’animo della non-più-bambola: tristezza, depressione, senso di impotenza e inadeguatezza hanno ormai inesorabilmente messo radice dentro di lei.
Se infatti matriarcato e patriarcato, come forme di archè (comando, nell’etimo greco) si strutturano entrambi su asimmetrie, non è un caso che la solidarietà e il governo femminili siano nel film localizzati in un universo fittizio, laddove la realtà vede la donna soccombere: “Tutti odiano le donne. Gli uomini odiano le donne e le donne odiano le donne. È una cosa sulla quale siamo d’accordo”. Ecco allora che il monologo amaro e liberatorio di Gloria sulla difficoltà di essere donna non solo è uno strumento per esprimere la propria insoddisfazione esistenziale ma fa anche da detonatore all’interno di una storia solo apparentemente “rosa”, che porta alla luce tutte le innumerevoli aspettative e contraddizioni che gravano sulla femminilità.

Mentre Barbie è impegnata a trovare se stessa, Ken prova per la prima volta prova l’ebbrezza di vedere riscattata la propria inutilità nell’assumersi la missione di sovvertire l’equilibrio dei poteri a Barbieland attraverso un possibile golpe (esilarante la rassegna dei miti che governano l’immaginario del maschio americano, tra cui spiccano il cavallo, simbolo del mito western della frontiera, e la forza maschia incarnata da Sly/Rocky). Sfrattata Barbie dalla sua Dream House, Ken la riconverte in “tana per maschi”, ma la sua vertigine di potere ha vita brevissima: facilmente manipolabili, inclini al narcisismo e all’incapacità di fare squadra, i Ken fanno svanire il miraggio di una supremazia perdendosi in sterili e grottesche competizioni.
Alla fine, l’ultimo compito di Ken nella storia dovrebbe essere quello di trovare la propria identità indipendentemente da Barbie: quel processo che, au contraire, è stata la sfida da affrontare per l’universo femminile; ma, a differenza di Barbie, si intuisce che lui da quel mondo non intende uscire.
Quando l’ordine a Barbieland è ripristinato, qualcosa di irreversibile è comunque accaduto alla nostra protagonista: nella sua mente ha visto la possibilità di un futuro sottratto al loop di un universo artificiale, sul viso ha sentito scorrere le lacrime: troppo forte è il richiamo del mondo reale, troppo impellente il desiderio di essere fino in fondo umana e “sentire”. Con la battuta finale, con cui rivendica la propria femminilità, Barbie definisce la sua nuova identità di donna.
È in questo messaggio conclusivo, nella sottrazione ad un modello asessuato e nell’inedita assunzione di responsabilità nei confronti di se stessa, attraverso la percezione e l’appropriazione del proprio corpo, che viene suggellato in modo lapidario il senso di tutto il film.

Un film che mette in luce la difficoltà non solo di stabilire una comunicazione fra mondo maschile e femminile, ma anche – da parte delle donne – di vivere se stesse in modo autonomo rispetto al meccanismo di controllo sociale sul loro corpo su cui da sempre si struttura il sistema patriarcale; e così l’obiettivo finale di Barbie di acquisire la libertà di agire e di pensare, di pensarSi come essere umano autodeterminato, trovando finalmente una risposta alla domanda “What Was I Made for?” (che è anche il titolo del brano di Billie Eilish, che rappresenta il main theme della colonna sonora) rispecchia la conquista alla quale noi tutte aspiriamo da sempre, la summa di tutte le sfide che nel corso dell’esistenza dobbiamo superare per poter esprimere la nostra identità.
È
quasi paradossale che con un film su Barbie riemerga la parola “femminismo”, coniata nel passato in un momento storico in cui sembrava eccezionale il riconoscimento di diritti che oggi dovrebbero essere assunti come inalienabili e strutturali all’appartenenza allo stesso genere umano, eppure la storia e la cronaca dicono che il passato sta tornando, che l’uguaglianza tra i generi (TUTTI i generi) è tutt’altro che un assunto, che l’urgenza di ripensare i modelli educativi non è più eludibile.
In tutto questo, tuttavia, qualcosa conforta: certo non sarà un film a dire l’ultima parola sulla questione, ma in quegli squarci che si aprono nel mondo di plastica, in quelle scene di vita vera che scorrono nella mente di Barbie, si intravede non solo la difficoltà, ma anche quella bellezza di essere donna che a lei dà il coraggio di diventare umana, e a noi quello di restarlo.

“I don’t know how to feel
but I wanna try”