L I V E – R E P O R T


Articolo di Fabio Baietti e immagini sonore di Andrea Furlan

Può una t-shirt essere, contemporaneamente, capo di abbigliamento e riassunto di una vita? Lucinda Williams conferma in pieno l’azzardato paragone. Con il motto “File Under Rock” bene in evidenza, indossa una maglietta, ma pure la sua musica, la sua intera, travagliata esistenza. Un concerto dalle premesse limitrofe alla preoccupazione, per il recente precedente sul suolo italico e perché quella di Chiari rappresenta l”ultima tappa di un tour europeo estenuante. Tutte “menate” spazzate via dal primo colpo secco di rullante, dalla prima strofa cantata con voce sicura. Un linguaggio del corpo che “fotografa” resilienza, ricordo e devozione; tre elementi essenziali della rocker della Louisiana. Il suo aggrapparsi con le mani all’asta del microfono è un chiaro segnale di forza, di dignità, di rispetto per il pubblico e per la sua musica. In nessun istante lo si è scambiato per un campanello di allarme per il suo stato fisico. 

Vederla cantare ad occhi chiusi, in alcuni passaggi di canzoni dal pathos quasi fisico (Dust e una sontuosa versione di Ghost Of Highway 20), ha suscitato la mia curiosità. Quella, ovviamente impossibile da soddisfare, di carpire quali immagini, quali visi, quali momenti della sua vita potessero passare nella sua mente in quegli istanti. Perché ricordare è, spesso, esercizio di profonda sofferenza, condivisa con le anime dei fans, tramite i testi delle sue canzoni (Drunken Angel, con Gram e Townes a farle ideale compagnia, e Stolen Moments). La tensione emotiva presto muta in entusiasmo palpabile, il foltissimo pubblico intuisce subito la serata perfetta. Cosi, la seconda parte del concerto è di epico crescendo. Merito di una band composta da musicisti sopraffini, una sorta di “all stars” del genere di cui Lucinda è la più venerata delle sacerdotesse. 

Vederla spostarsi faticosamente di lato per omaggiare con lo sguardo e piccoli gesti delle mani la base ritmica, posta nelle solide mani di Butch Norton ai tamburi e David Sutton al basso pulsante. Soprattutto, quasi venerare ogni assolo di un ascetico, mastodontico Marc Ford e del ficcante chitarrismo di Doug Pettibone, maestro di riffs senza tregua. Una sequenza di canzoni di elettrico virtuosismo da lasciare senza fiato. Chi ha avuto la fortuna di ascoltare le versioni di Protection, Honey Bee e Out Of Touch penso possa condividere questo mio pensiero.

In alcune presentazioni, Lucinda ha seminato spunti per una malinconia sottile (il ricordo del padre poeta che la portava ad ascoltare qualche bluesman che suonava in centro città,  prima di cantare una scarnificata versione acustica di Blind Pearly Brown) se non, addirittura, per una risata («ogni volta che introduco una canzone che narra del Sud, finisco per parlare di cucina!»  e poi attacca una Lake Charles da brividi).

Il cuore rocchenroll della band batte che è un piacere, le distanze tra palco e platea si azzerano per i tre bis mentre Ford e Pettibone gigioneggiano tra scambi di assoli e di sorrisi compiaciuti. Il viso di Lucinda Williams si illumina, il tour finisce con un trionfo. «È bello avere amici cosi», sentenzia con un filo di voce mentre abbraccia idealmente i suoi musicisti. Le tenebre sono lontane mentre le ruote delle auto continuano a solcare la strada fatta di ghiaia…

What a night in Chiari!!!