R E C E N S I O N E


Recensione di Fabio Baietti

«C’è un’aria minacciosa per la via, bisogna pur partire, rinascere o morire» Era il 1997, le Alterazioni pulsavano nelle vene e nelle ugole dei già tanti estimatori degli Estra.

Quel plumbeo presagio, uscito dalla ruvida penna di Giulio Casale, trova oggi la sua ideale chiusura del cerchio con Gli Anni Venti.

Non un nostalgico ritorno sulle scene per non essere dimenticati, bensì un necessario, monolitico disco che parla (anche) di nostalgia. Non certo prodotta da travagli interiori, bensì correlata ad un periodo storico che troppi pericolosi residui ha lasciato tra gli strati sociali di un Paese con scars(issim)a memoria; quello in cui riappare quotidianamente «il solito orizzonte di nessun giorno».

Un disco sicuramente “politico” nella sua interezza, una fotografia impietosa di tempi in cui «il nero avvolge tutto». È la title track ad essere la prima faccia della medaglia: su di un pregevole tappeto rock, il testo è un bigino di Storia italiana (e non solo), tra capipopolo, Dio, Patria e ritornelli di regime. Si gira lato della moneta e Lascio Roma ci catapulta in un presente che troppe, nefaste eredità ha nel suo seno. Tra fasci, corporazioni, albe dorate e, soprattutto, «quei sobborghi squadristi e minchioni». Un inno profumato di livore e punk, pronto a detonare in concerti al calor bianco.

Ci sono canzoni che, unite dal loro intrinseco filo logico, potrebbero essere benissimo la base di una pièce teatrale, di un monologo di un sempre più poliedrico Giulio Casale. Penso, soprattutto, a Il Peggiore, viaggio introspettivo negli abissi umani, tra (semi)citazioni di strummeriana memoria e un passaggio che miete parecchie vittime, in una società anestetizzata e dis-umanizzata («il dolore peggiore è non sentire dolore»).

Poi, però, rivedo Estremo che si contorce sul palco e con lui Abe (Salvadori), Eddy (Bassan) ed Accio (Ghedin) a creare QUEL tappeto sonoro che ha segnato quasi trent’anni di devozione, lunghissime pause incluse.

La rockeggiante Nel 2026 crea trilogia storica, perché il futuro prossimo trae linfa dal fosco presente. Vissuto senza progetti e fatto di singoli istanti, quello in cui «la cultura regressiva stira e ammira il vuoto che c’è qua». Una frase che è già anatema, geniale, citazione “caroselliana” compresa…

Arrivando ad una canzone che si iscrive sin d’ora di diritto tra le perle musicali del combo trevigiano. Quella Monumenti immaginari costruita su tre parole chiave (Ingenuità, Fragilità e Libertà) che risuonano come un mantra nel mio animo obliquo. Un pezzo che ti passa da dentro e non esce più, cercando di respirare il «tempo santo dell’Ingenuità». La Bellezza per parole e suoni. Definitiva.

La telefonata della fantomatica “Signora Jones” (vi ricorda qualcosa?) apre il disco; la ritroveremo (no spoiler) tra gli ultimi solchi di Notte poi, una sorta di film di guerra attualizzato e apocalittico, tra condanne a morte, giustizia negata, una «patria (che) ha un chiodo in gola» e i partigiani senza connessione. Tutti in fila nella notte nera, meta incerta, r-esistenza in bilico. E quella bambina che si avvicina al muro con un martello; magari l’Uomo coi tagli fa da sentinella al filo spinato, dall’altra parte, con il cielo rosso sangue.

Una copertina che, a mio parere, è la dodicesima canzone dell’album. D’altro canto, si sa, «le grandi immagini parlano sempre». Un ritorno anelato, un disco prezioso. Grazie Estra!

Tracklist:

01 [La signora Jones] feat. Marco Paolini
02 Fluida Lol
03 Gli anni venti
04 Che n’è degli umani?
05 Nessuno come noi
06 Ti ascolto
07 Lascio Roma
08 Nel 2026
09 Il peggiore
10 Monumenti immaginari
11 Notte poi feat. Pierpaolo Capovilla