R E C E N S I O N E


Recensione di Monica Gullini e Andrea Notarangelo

Per chi come noi è nato negli anni Ottanta, Beth Gibbons e la sua voce magnetica hanno caratterizzato buona parte del decennio a seguire. Dopo più di vent’anni di silenzio da Out Of Season con Rusty Man (nome dietro al quale si nascondeva Paul Webb, bassista degli indimenticabili Talk Talk) e una collaborazione con la Polish National Radio Symphony Orchestra nell’interpretazione della terza sinfonia di Górecky (qui l’articolo), la musicista britannica torna sulle scene con un lavoro solista, Lives Outgrown, sfoggiando una maturità artistica e vocale senza pari. È strano parlare di questa uscita come di un debutto per la caratura dell’artista e per la sua storia professionale, eppure è proprio così. L’album, infatti, risulta essere il primo vero e proprio disco di Beth, la quale propone una raccolta di dieci canzoni interamente scritte da lei col piccolo aiuto di Lee Harris, batterista dei già citati e seminali Talk Talk.


A un primo ascolto alcune tracce scarne lascerebbero pensare a una genesi lunga una notte come Pink Moon, il capolavoro e canto del cigno del compianto Nick Drake, e in effetti l’andamento notturno e l’incedere di Tell Me Who You Are Today sembrano portare in questa direzione. Sono però gli archi a sostegno della timida chitarra che ci convincono a non dar una lettura troppo affrettata di questo nuovo mondo sonoro della Gibbons. Siamo chiari fin da subito, qui non ci sono i Portishead (il meraviglioso giocattolo sonoro anni ‘90 che la cantante ha condiviso con Geoff Barrow e Adrian Utley), non c’è un senso di disperazione vero e proprio tracciato tra i graffi di vinili e i solchi di un’elettronica accennata. Gli archi infatti riportano di nuovo a Nick Drake, ma nella versione del suo debutto Five Leaves Left, nella quale la cura del dettaglio e la pulizia del suono erano ben evidenti. L’atmosfera raccolta e la voce evocano quei cinque fogli di Rizla rimasti sotto lo sguardo protettivo di una luna che con le sue rosee dita accarezza gli anni che passano e quelle vite cresciute al di là dello spazio e del tempo, in completa solitudine e nel raccoglimento più religioso. Le percussioni scandiscono a perfezione una stagione ormai andata e la consapevolezza di una maturità acquisita al costo di sofferenze e paure, seminale e necessaria alla stesura di un lavoro profondo, feroce e delicato in egual misura.
Gli anni trascorsi continuano a mordere la carne in quello che è stato il primo singolo estratto, Floating on a Moment, introdotto da una sei corde che gioca con le note emesse da Beth, passeggero di un viaggio ordinario che osserva e rimpiange ciò che ha lasciato indietro. Gli errori commessi sono ormai acqua passata, i luoghi che non ha visitato e visto simboleggiano un enorme rimpianto: la traccia si sviluppa come un raffinato madrigale e sfuma verso la metà in un momento corale da cui emerge la paura di affrontare l’esistenza. “Non voglio fare ritorno”, sussurra lei mentre le voci si elevano al cielo insieme alla sua in un meraviglioso istante di commozione che ammalia e trafigge. A seguire qualche delicato rintocco ci conduce a luci soffuse attraverso Burden Of Life. Il “peso della vita” del titolo si percepisce dal misto di malinconia e perdizione che proviene dalla voce della Gibbons, smarrita in una melodia vagamente arabeggiante che scompare nel ritornello e che diviene più cupa e profonda, in linea con gli archi del prosieguo, pronti a fermare e cristallizzare quel fardello esistenziale poggiato su spalle sempre più stanche. Chiudendo gli occhi ci si sente trasportati nel 1994, per la precisione tra le nebbie di Wandering Star, uno dei pezzi più iconici e amati della parca discografia dei Portishead. La similitudine si ferma qui, al cantato di una musa perso nella notte che ci trascina ai cancelli dell’alba in un seducente lamento solo all’apparenza mono tono.

Lost Changes è un cambio repentino di ritmo. Gli archi volano assieme ai sussurri dell’artista britannica, che qui ci culla e ci conduce in un paesaggio armonico caldo e tranquillo. Rewind a seguire spariglia le carte. Dopo la quiete del brano precedente giunge ora un ritmo tribale e atmosfere orientali che a un tratto si disperdono grazie all’intervento inaspettato di un basso fretless suonato alla maniera del compianto Mick Karn (l’Universo benedica i Japan nei secoli dei secoli) e di una chitarra a tratti dissonante. I bambini in sottofondo ci fanno tornare indietro nel tempo, ad assolate giornate al parco sotto l’attento controllo dei genitori. E allora riavvolgiamo il nastro, come ci suggerisce il titolo e godiamoci questa nuova primavera musicale, complice il pezzo seguente, Reaching Out, meraviglioso valzer infestato dai fantasmi nelle sonorità, nel ritmo frenetico e nei vocalizzi che si moltiplicano e si diradano pian piano. La solennità degli archi si sposa alla perfezione col cantato dell’ex frontwoman dei Portishead, ora sussurrato, ora rabbioso e impalpabile sul finale. “Dov’è l’amore, dov’è la fede nelle parole che respiriamo, perché ti allontani da me“, ripete ossessivamente, in quell’estasi amorosa che la solitudine accentua e rende più cupa della notte che allunga le ombre. Ma l’alba è ancora lontana e ce ne accorgiamo dall’abbraccio freddo di Oceans che con la sua nenia ci porta a un culmine emozionale e forse al vero core dell’intero album. Ascoltiamo e percepiamo le potenzialità illimitate. L’incedere ad esempio non può che far pensare a quale pregevole duetto ne sarebbe scaturito se a questo piccolo tesoro nascosto avesse prestato la voce Eddie Vedder. È solo una sensazione ma tanto basta a recuperare un po’ di calore e farsi strada tra le braci ancora accese nella successiva For Sale. Tornano le atmosfere orientali e come in una Samarcanda crocevia di popoli e tradizioni ci perdiamo tra tamburi, scampanellii, odori e profumi solo immaginati. Una disperata Gibbons pone una domanda essenziale: “Chiediti semplicemente come vorresti che fosse la vita. Chiediti solo: sceglieresti l’amore come faccio io?“. Qui si potrebbe riallacciare un parallelismo con Glory Box dei Portishead, dove la stessa cantava e implorava una ragione per amare il suo compagno e per essere una donna: la giovane Beth e i suoi ingenui tormenti del cuore si infrangono di fronte a una consapevolezza acquisita con dolore e fatica, accentuata dagli archi che in sottofondo conducono la scelta di abbracciare in pieno l’amore verso quelle sonorità orientali che ricordano, per certi versi, le atmosfere del mentore di Jeff Buckley, Nusrah Fateh Ali Khan.

Qualcuno ha suggerito di ascoltare Lives Outgrown in giornate di pioggia e durante le ore scure. Lo slancio che l’artista britannica infonde nelle liriche, nei curatissimi arrangiamenti e nella composizione dei brani, orientati verso il folk e nostalgici di terre lontane e mai visitate, trasporta invece l’ascoltatore in una giornata assolata, trafitta dai lunghi raggi che si allungano, quasi a strappare quella solitudine e quel senso di inadeguatezza che lo scorrere degli anni portano con sé.
È come se l’ex frontwoman dei Portishead abbia composto i suoi Canti dell’esperienza rincorrendo quella maturità guadagnata col sudore della fronte, crescendo troppo in fretta e osservando i segni delle stagioni scorrerle sul viso e nelle pieghe dell’esistenza. La musicista britannica descrive la ferocia degli anni che passano con una delicatezza innata, perdendosi in mille rarefazioni senza abbandonare quella strada maestra che la porta a confezionare un lavoro intimo e onirico. Il disco però è reale, tangibile e intriso nella stessa misura di lacrime e ricordi rabbiosi nei quali annegare dolcemente. È il momento di asciugarsi le lacrime e abbandonarsi alle onde del mare che tutto lenisce e disperde. “Non è amore se non si ama bene, e questo è vero dopo perpetua sconfitta“, diceva un grandissimo poeta del secolo scorso. E lui, di sfidare il tempo, caldo gentiluomo che dimena la barba al vento egiziano, se ne intendeva al punto tale da divenire immortale.
Chissà se a questo lavoro non toccherà la medesima sorte.
Di certo, la sua bellezza è rara come una luna rosa che si innalza nel cielo al di sopra di un settimo albero, sospinta da una voce profonda nei suoi mutamenti, ma affascinante nelle sue cicatrici.
Lode a Beth Gibbons dunque e al suo meraviglioso ritorno.
Che possa riverberarsi qui, oggi, e in tutte le vite e le stagioni a seguire.

Tracklist:
01. Tell Me Who You Are Today (03:55)

02. Floating On A Moment (05:26)
03. Burden Of Life (03:35)
04. Lost Changes (05:41)
05. Rewind (04:47)
06. Reaching Out (04:15)
07. Oceans (03:43)
08. For Sale (04:25)
09. Beyond The Sun (03:54)
10. Whispering Love (06:10)

Photo © Eva Vermandel (1), Netti Habel (2)