R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Bisognerebbe valutare attentamente i musicisti che troviamo in questa formazione euro-africana dal chilometrico nome di Karl-Martin Almqvist Ababhemu Quartet, perché la presenza del pianista Nduduzo Makhathini – leggi qui – e quello del batterista Ayanda Sikade – vedi qui – evocano giustamente due album suggestivi come In the Spirit of Ntu (2022) e Umakhulu (2021). Questi lavori di fatto dimostravano che il jazz poteva modificarsi se attratto fortemente dal campo gravitazionale della tradizione magico-rituale africana. La memoria di queste due pubblicazioni rischia però ora di oscurare parzialmente la consapevolezza che in questa circostanza ci si trovi di fronte ad una prova un po’ diversa come The Travellers, accreditata a Karl-Martin Almqvist – sassofonista svedese molto considerato in patria ma poco conosciuto da noi – e al suo quartetto Ababhemu. Il gruppo così composto registra la presenza, oltre alla coppia degli artisti sud-africani sopra citati e in aggiunta al leader Almqvist, di un altro musicista europeo, il norvegese Magne Thormodsaeter al contrabbasso. Si è venuta cosi a ri-creare – e tra poco vedremo il perché – questa formazione mista maggiormente orientata ad un jazz d’impronta più classica, rispetto a quanto Makhathini e Sikade ci avevano segnalato con i loro due lavori succitati.

Almqvist è un sassofonista cinquantaseienne di Karlstad, città a sud della Svezia, con una lunga gavetta newyorkese alle spalle – e si sente tutta (n.d.r) – che passa tranquillamente dal sax tenore al soprano mantenendo comunque un suono sempre estremamente pulito, affrontando sia ballate che generi più convulsi. I suoi fraseggi sono ben leggibili, le note tratteggiate con chiarezza, potrei dire che il nitore dei suoni mi richiama il paragone con quello che è stato in effetti un suo insegnante negli USA, e cioè George Garzone, con il quale Almqvist condivide la qualità della voce strumentale, duttile e fluidamente luminosa. Ma in che modo è avvenuto il contatto tra il sassofonista svedese e i due musicisti sudafricani? La storia, come raccontano le note stampa allegate alla presentazione dell’album, inizia nel 2014 con un messaggio di Makhathini, allora completamente sconosciuto ad Almqvist, che lo invitava in quel di Johannesburg per compartecipare all’incisione di un disco e organizzare qualche tour di concerti live. La registrazione a cui si alludeva era quella del doppio Listening to the Ground (2015), circostanza in cui si sono ritrovati, già allora, sia il batterista Sikade che il contrabbassista Thormodsaeter, tra gli altri musicisti reclutati per la registrazione. Quell’album, probabilmente molto significativo per la musica sudafricana, era comunque altra cosa rispetto al seguente e più radicale In the Spirit… ma fu ugualmente importante, come dichiarazione di completa maturazione e relativa indipendenza rispetto al jazz occidentale. Inoltre era soddisfacente poter avallare che una parte d’Europa unita ad una vasta regione africana sostenesse più o meno palesemente l’intento di creare un linguaggio comune, includente anziché segregante e consacrato all’idea di un fraterno cosmopolitismo culturale. Oggi, quasi dieci anni dopo, arriva questo nuovo album con la  presenza di quattro dei musicisti del 2015 – Almqvist, Makhathini, Sikade e Thormodsaeter – ma che esce con un diverso accredito, riferito appunto a Karl-Martin Almqvist Ababhemu Quartet. La maggior parte dei brani è stata composta dall’Autore svedese ma non mancano anche altri che riconoscono la firma di Makhathini e di Thormodsaeter. Registrato in Svezia, all’estremo sud della penisola scandinava, The Travellers riserva qualche sorpresa, per me ingenuamente inaspettata. Ad esempio, la maestria tecnica di Makhathini al piano che nella recensione di In the Spirit of Ntu avevo forse non pienamente valutato nella sua interezza, affascinato com’ero dall’atmosfera sciamanica di quell’album. Qui invece c’è la possibilità addirittura di ascoltarlo in uno splendido gospel-blues di sua composizione, suonato in solitaria nella traccia numero cinque, Ukubuysiana. Il clima che si respira nei brani è in prevalenza legato ad un aspetto metonimico diffuso, per cui sonorità occidentalizzate ed altre più legate ai modi sudafricani tendono ad alludere quasi ad una simbolica patria comune, una zona geograficamente franca dove quello che conta è la Musica e non il pregiudizio delle divisioni etniche.

In apertura dell’album troviamo Eva Johanna, classico brano di modern jazz, dove Almqvist è quasi mattatore assoluto, sia per aver composto il pezzo, sia per averlo praticamente percorso in lungo e in largo con il suo sax in grande evidenza. Si nota da subito il notevole affiatamento del quartetto, l’elegante quanto esuberante batteria di Sikade in simbiosi col contrabbasso ed il piano scintillante di Makhathini, impegnato in un lungo assolo dalla metà brano in poi. In quest’ottica siamo completamente coinvolti in un retroterra molto occidentalizzato e francamente in questo primo assaggio il percorso del gruppo pare indistinguibile dalle decine di tratti analoghi provenienti dall’America o dall’Europa. Almqvist suona come un Phil Woods meno spigoloso, Makhathini si localizza dalle parti di McCoy Tyner dimostrando, laddove ce ne fosse bisogno, una gran padronanza dei codici hard-bebop. Insomma, un buon brano senza caratteri particolarmente originali. Ma con il pezzo seguente, la nostalgica Smangaliso, alla cui creazione contribuiscono sia Almqvist che Makhathini, cambia tutto. Il titolo, in lingua Zulu, può significare qualcosa che sta tra il concetto di sorprendente e quello di miracoloso. Il sax comincia in modo appena soffiato, il fruscio acqueo dei piatti della batteria e le sparute note melodiche del piano richiamano immagini di paesaggi ventosi, sul quale si sviluppa il racconto anti-epico recitato dalla voce accorata di Nduduzo. Solo verso il finale Almqvist alza – ma sempre in modo flemmatico – la voce del suo strumento. C’è qualcosa di familiare in questo ambito, una sorta di momentaneo ritorno a casa, dalla lontana Svezia alle sponde sudafricane nell’unico viaggio istantaneo spazio-temporale possibile, cioè per mezzo della suggestione musicale. Blauzac è una cittadina francese che si trova in Occitania. Su una trama ritmica moderata, vagamente latineggiante e appoggiandosi alle onde sonore del piano, Almqvist imbastisce un suono caldo ed equilibrato, senza brusche angolature ma con una linea melodica ben scandita nel suo chiaro tratteggio. La temperatura si alza di un grado con l’assolo di Makhathini, giocato molto su passaggi ad accordi pieni e che tende a trascinare con sé l’assetto ritmico, soprattutto la batteria del suo conterraneo Sikade. E in effetti, quando il piano finisce la sua corsa, l’accompagnamento ritmico si contrae e le dinamiche tendono a riassorbirsi sulle ultime note di sax.

Reconcillation è opera del contrabbassista Thormodsaeter e si presenta sotto forma di una blues-ballad dall’eleganza delabrè e dall’andamento dinoccolato, avvolta dalle tenebrose note basse del suo autore. Il brano si sostiene con una bella melodia da parte del sax soprano, romanticamente solare, mentre il pianoforte cristallino sottolinea con la sua luccicanza armonica i fraseggi di Almqvist e la loro contenuta esuberanza. Ukubuysiana, come già accennato in precedenza, è un momento rilassato di pianoforte proposto da Makhathini che ne è anche l’autore. Non molto lontano dall’esprit africano del conterraneo Abdullah Ibrahim – non sarebbe così facile superare un test di riconoscimento a cieco – il brano risuona della stessa religiosità gospel velata di malinconia e tinte crepuscolari. Nordic Light riporta l’anima in Svezia con un attacco classico su cui il tenore di Almqvist sembra smentire il senso contenuto nel titolo del brano, talmente suona carico di calore e di riflessi urbani. In effetti, almeno in questo album, non v’è traccia di quello che chiamiamo jazz nordico, pare proprio di essere su un altro pianeta. Anche i due musicisti sudafricani sembrano completamente risucchiati dal sound statunitense, quasi fusion, che si respira in questo down-tempo. Forse la prova migliore del sassofonista, qui tra Michael Brecker ed Eric Andersen, mentre tira le note del suo strumento senza peraltro forzarle eccessivamente. Sembra un po’ impacciato, stranamente, Makhathini quando si tratta di lanciare l’assolo ma i suoi passaggi in progressione di accordi pieni sono sempre gradevoli da ascoltare. Finale cadenzato, con tanta batteria al seguito. Ubizo, in lingua Zulu, significa grosso modo richiamo degli antenati. Stranamente questa composizione appartiene ad Almqvist mentre piuttosto ci saremmo aspettati, dato l’argomento esposto nel titolo stesso e i numerosi riferimenti culturali precedentemente esposti da Makhathini e sodali, una paternità attribuibile alla componente africana del quartetto. Tuttavia, la sonorità un poco tenebrosa della melodia cantabile proposta dal sax, funge da invito psicologico per piano e batteria che entrano lentamente in sintonia con questa sollecitazione. Mentre il batterista allarga l’eterogeneità delle percussioni, aiutato dal contrabbasso molto discreto ma sempre presente di Thormodsaeter, Nduduzo si propone all’inizio timidamente con sparute note disseminate a manciate per poi condensarle in una forma melodica con qualche inserto di scala be-bop. Dilaga in seguito il sax con un assolo di note lunghe dalle trasparenze molto nostalgiche e si conclude il tutto tra un piano in dissolvenza e le percussioni a scalare. Chiude Ababhemu, in pieno clima modern jazz. Il sax dell’Autore si concede inizialmente qualche temperata tentazione free – più nell’intenzione che altro – osando qualche nota al limite dell’impianto tonale. A proseguire, gli accordi atmosferici di Makhathini nel suo migliore assolo in questo album. Quando tocca ad Almqvist l’onere solistico, il sassofonista non si fa certo da parte, sfoderando tutta la sua verve ed evidenziando una potente capacità tecnica, oltre che espressiva. La ritmica è straordinaria, soprattutto nella coloritura intensa operata da Sikade. In conclusione non poteva mancare una breve esortazione parlata di Makhathini, naturalmente in Zulu, e quindi per i più di significato oscuro.

Dal punto di vista razionale ci piacerebbe veder risolta la fondamentale dicotomia presente in questo album. Da un lato la primordiale seduzione della musica sudafricana e dall’altro un jazz urbano e moderno allineato con le principali tendenze occidentali contemporanee. Ma emotivamente e in maniera istintiva può andar bene anche questa mistione collagistica, ovvero una sequenza di lampi esotici frammista ad immagini urbane, al netto di qualsiasi tendenza romantico-naturalista. Vale comunque il sogno di solidarietà e condivisione che, almeno a livello artistico, Ababhemu Quartet sembra proporre con semplicità e magistero esecutivo.


Tracklist:
01. Eva Johanna (5:52)

02. Smangaliso (4:25)
03. Blauzac (6:35)
04. Reconcilliation (4:38)
05. Ukubuyisana (2:14)
06. Nordic Light (5:53)
07. Ubizo (6:25)
08. Ababhemu (8:11)

Photo © Mikael Björk