L I V E – R E P O R T


Articolo di Olivia Gazzarrini, immagini sonore © Raffaele Galli

Il Mixité festival in collaborazione con il Festival du Desert e Toscana Produzione Musica continua a portare nello spazio del Parc di Firenze artisti eccellenti ed originali e di appartenenza a culture affascinanti, ancora cariche di mistero perché ben lontane dal nostro mondo occidentale. Il 2 Giugno si sono esibiti gli Etran de l’Aïr, band fondata nel 1995 da Aghaly Migi ad Agadez, loro città natale e famosa in quanto capitale del desert blues tuareg, la quale è situata ai piedi del massiccio montuoso dell’Aïr a Nord del Niger. Di tradizione familiare è Aghaly ad insegnare ai suoi fratelli come maneggiare le chitarre, la cui versione elettrica sarà acquisita dalla band ben più tardi quando le tecnologie arriveranno a sostituire chitarre acustiche e calabash, una percussione diffusa in Africa occidentale e ricavata da una zucca. La stessa terra e cultura tuareg del Sahel ha dato vita anche al più conosciuto collega Bombino, accomunato dalla stessa autentica forza umana ed artistica corale e fraterna.

Con grande attenzione al patrimonio tradizionale, il desert blues di Agadez ha proprio la caratteristica di essere una musica rituale che viene suonata in occasione soprattutto di matrimoni e che fa parte della quotidianità di tutti i giorni, perché la musica a loro detta “fa sentire più vicini, sognare e crea coesione sociale”. Ed è in fondo questo sentimento che ha aleggiato nello spazio intimo e da camera del Parc. Appena entrata in una sala gremita, noto l’assenza di sedie e questo è già uno statement dei sahariani, che connota la loro filosofia di fruizione del suono, ovvero in libertà, vicini per ricevere le vibrazioni altrui e a contatto con la terra. Un attacco euforico e dal tiro immediato di evocazione surf rock o rock blues, gli Etran, composti da due chitarre elettriche, un basso elettrico, rigorosamente Fender, e batteria, infiammano i corpi, entro i tempi di un brano, a muoversi posseduti dal ritmo incalzante e circolare, scandito impeccabilmente per tutta la serata dal batterista. I loro occhi neri sono la bussola delle loro emozioni e stati d’animo che scrutano il progressivo ed esaltante crescendo dell’euforia del pubblico: rimanere fermi è pressoché impossibile. Li guarderò per tutto il concerto a momenti profondi, seri, malinconici e poi improvvisamente accesi di gioia, travolti dall’amore della sala in trance e in grado anch’essi di attraversare come il suono i corpi, in un elegante contrasto con i loro abiti e turbanti bianchi ricamati ad arte.

La condizione intima e ravvicinata di solito predilige esibizioni acustiche e generi diversi, ma da questa stranezza formale ne scaturisce uno scambio dall’equilibrio perfetto. I suoni e le voci si moltiplicano individualmente su più piani in un raggio centrifugo per poi sovrapporsi rimanendo in una multidimensionalità sonica che crea un’orbita armonica coerente e policroma; i suoni diventano richiami tribali e rituali dell’elevazione alla gioia, della liberazione del corpo, che intanto accelera il suo moto febbrile sul ritmo oramai quasi ritmicamente ska. Un blues accelerato ed immediato in cui siamo divenuti un tutt’uno con loro e con la loro musica, dell’entrare in connessione con ciò che ti circonda e dell’essere presente nell’attimo e calato in quello che sta accadendo: un atto mistico, di sacralità, di riconnessione estasiante ed espiatoria. Un antidoto ai tempi presenti e all’alienazione umana è l’abilità di questi uomini e fratelli del deserto di riportare il suono all’essenziale e al ritmo del battito primordiale con cui ci inducono a risuonare e che oggi sono venuti umilmente fin dalle pendici dell’Aïr ad insegnarci a ritornare ad essere vivi.

Immagini sonore © Raffaele Galli