R E C E N S I O N E


Recensione di Arianna Mancini

Vi faccio una domanda, siate sinceri però: «Quante volte avete comprato un album a scatola chiusa per la copertina, per il titolo o per entrambi senza conoscere il gruppo? Quante altre volte invece siete passati oltre per lo stesso motivo?». Non è una legge universale, ma talvolta questi due elementi possono essere dei catalizzatori d’attenzione per fare eccellenti scoperte. Premesso ciò, vi devo confessare che se avessi letto il titolo di questo album: I’m totally fine with it 👍 don’t give a fuck anymore 👍 (titolo comprensivo dei simboli pittografici, ovviamente) senza sapere di chi fosse, avrei sicuramente alzato il sopracciglio con un vezzo di scanzonata ironia e sarei passata oltre. Invece, colpo di scena, leggo Arab Strap e tutto cambia: il titolo da demenziale diventa quasi curioso. Mea culpa. (Pure questi sono pregiudizi da combattere).  

Si è concluso da pochi mesi il tour per celebrare il venticinquesimo anniversario di Philophobia (1998) e il duo scozzese torna con un nuovo album, il secondo dopo As Days Get Dark (recensito qui insieme ad una brevissima storia della band) acclamato disco che segnò la reunion del 2021. I’m totally fine with it 👍 don’t give a fuck anymore 👍, uscito lo scorso 10 maggio per Rock Action, è stato interamente composto, scritto e suonato da Malcolm Middleton e Aidan Moffat, sotto l’occhio vigile e la produzione del fidato Paul Savage, ormai collaboratore di lunga data. Le musiche del polistrumentista Middleton insieme ai testi di Moffat (che con la sua voce baritonale alterna cantato, spoken e recitato) evocano un senso di familiarità, per chi già conosce il duo scozzese. Familiarità che non è mero ripetersi, è un nuovo capitolo di vita. Le atmosfere sonore si fanno ora più corpose, rumorose, elettroniche, un impeto di rivoluzione rispetto ai loro trascorsi.  

È un album sociale, profondamente umano. Moffat e Middleton sono dotati di un’ampia tavolozza di colori con cui raccontare, attraverso parole e suoni, l’essere umano ed il mondo che lo circonda. Moffat, dalla torre dei suoi soventi eremitaggi, con il suo spiccato spirito d’osservazione si fa occhio ed animo attento nel raccontare gli scorci di vita, di mondo e le incrinature dell’animo. Come un acuto equilibrista volteggia in maniera lucida nella prosa del quotidiano senza perdersi in lirismi preconfezionati, colpendo il centro come un ineluttabile dardo. Un album composto da dodici brani, un insieme di canzoni che non offre risposte, ma osserva condizioni e comportamenti. Un concept album il cui fulcro è la comunicazione ed il comportamento umano nell’era digitale. La stessa concettualità si riflette anche nell’artwork e nel titolo. La copertina dell’album raffigura il dipinto Falling Star di Witold Pruszkowski che viene posto in secondo piano come se fosse lo screensaver di uno smartphone, in cui sopra appare la bolla di una chat, con tanto di immagine profilo, orario d’invio e che ha come messaggio il titolo dell’album: I’m totally fine with it 👍 don’t give a fuck anymore 👍. Titolo ispirato dal messaggio ricevuto da Aidan e Malcolm dal batterista che li accompagna nei loro spettacoli dal vivo.

Le canzoni dell’album portano alla luce argomenti di urgente attualità: il paradosso della mancanza di connessione umana in un mondo troppo connesso alla rete, l’ovvia dipendenza dai social e ciò che ne deriva: aggressività, odio, solitudine. Ci parla di anime dimenticate, di assenze. Il tutto tramite testi corposi, incisivi, diretti e ampi, come se fossero dominati da una sorta di “racconto-fobia”. Lo stato d’animo oscilla in maniera schietta fra rabbia, ironia, sarcasmo, senza tralasciare tocchi di empatia e di amore mancato. Quell’amore che a sprazzi è pietas velata, per questa umanità in “decomposizione”.

I due brani di apertura (Allatonceness e Bliss) fungono un po’ da manifesto sonoro, indicano la nuova rotta musicale intrapresa dalla band. La cupezza ipnotica, tratto distintivo sempre presente, si apre a spazi più rumorosi, caustici, rocciosi. Allatonceness sembra costruita in una zona di confine fra noise-metal e distorsioni, Bliss è dominata da una fluidità dance, elettronica e percussiva. In Allatonceness il monologo di Moffat, attraverso il ritmo pesante della batteria e lo sporco riff di chitarra, ci introduce nel mondo virtuale. “All-at-onceness” – “tutto in una volta” -. Il concetto di frenetica simultaneità del mondo moderno, della rete, in cui tutto sembra accadere nello stesso momento e in cui si perdono i confini fra realtà e finzione, ed in questa simultaneità l’essere umano viene intrappolato nella rete da ciò che è fittizio. Bliss è una falsa beatitudine dalle sfumature macabre, dipinta su trame di drum machine dai ritmi incalzanti, linee di basso corpose, gelide incursioni tecno. Narra gli orrori dell’odio online e di come le donne siano spesso terrorizzate dal peggior tipo di codardi. 

Ci lasciamo alle spalle i sentimenti di odio per entrare in Sociometer Blues, una lucida e drammatica odissea di dipendenza da social network, narrata attraverso un “blues elettronico” che si articola in un flusso di coscienza fra spoken e cantato. Le liriche vengono risucchiate nel riff di batteria iniziale a cui si uniscono la chitarra, le parti elettroniche, la tastiera. Il ritmo è fluido e scorre frenetico con incedere minaccioso. Eccola: la lucida e terrificante morsa assassina della dipendenza, del voler smettere, della sindrome da FOMO (fear of missing out), del timore dell’essere tagliati fuori, citata nel testo. «When will I be cured of this fucking crippling FOMO?» (Quando guarirò da questa fottuta paralizzante paura dell’esser tagliato fuori?).

Fra le fobie si apre poi uno spazio di malinconica nostalgia per il tempo che fu, e Hide Your Fires ci porta proprio lì, in quel passato che non tornerà più. Quei giorni in cui il fuoco della passione incendiava la vita, il trascorso illuminato da quelle stelle che non verranno più “toccate”, di vestiti ormai donati agli enti di carità ed indossati da qualcun altro che li userà per fare una foto da pubblicare in rete. Un racconto che prende vita attraversando diverse fasi d’intensità sonora in cui dominano le melodie create dal synth, dalla chitarra e da una drum machine che si fa sempre più corposa.  

Summer Season è un altro flusso di coscienza in bilico fra rimpianto, soddisfatta solitudine e desiderio di essere “riconosciuto”, di essere presente nei messaggi letti, nelle mail ricevute. La “Stagione Estiva” scorre e prende vita in un tappeto elettronico popolato da tastiere, riff di chitarra, tocchi di pianoforte, arrangiamenti d’archi. In chiusura, appare il messaggio vocale di una segreteria telefonica (con la voce di Moffat), in cui probabilmente non verrà lasciato alcun messaggio.

Molehills con il suo abbraccio avvolgente, acustico e oscuro, ci conduce poi in un percorso sonoro che si arricchisce di spessore sintetico, batteria elettronica intrisa di eco, persistenza di rumori di sottofondo mandati in loop. Le talpe, ennesima metafora delle svariate trappole della rete, delle sue dinamiche tossiche, dei falsi amici. A metà brano ed in chiusura, una voce femminile, con una dizione da documentario avverte: «Attenti alla modesta talpa / con le sue grandi, amichevoli mani vivaci / la sua pelliccia nera, fatta per essere accarezzata / e piccoli occhi gentili. / Nasconde la violenza nel suo sorriso / e veleno nel suo bacio. […] La talpa comune vive in un sistema di tunnel / che si estende costantemente. / All’interno di queste tane oscure caccia/ usando il suo morso tossico per paralizzare la sua preda / affinché il suo pasto possa essere conservato vivo / e mangiato più tardi». Triste epilogo delle fragili prede della rete, brano agghiacciante, ipnotico, ed evocativo. Uno dei miei loop preferiti.

La luna, spesso citata nei testi di Moffat, ha qui un titolo tutto per sé: Strawberry Moon, una Luna di Fragola. Guardate il video diretto da David Arthur, vi strapperà sicuramente un sorriso. Nel brano il ritmo sale e raggiunge una leggera consistenza frenetica e dance fino ad inglobare svariate stratificazioni di strumenti e melodie: linee di basso si alternano con beat electro, tastiere, chitarre nel sottofondo, guizzi afrobeat, voce principale, cori, pianoforte. Che tocco eclettico, il polistrumentista Malcom!

Non poteva mancare un altro angolo di cupezza eterea, e You’re Not There ci apre proprio questa porta. Fedele alla tematica dell’album, il video mostra in progressione tutto il testo del brano, che appare, frase dopo frase, dentro a bolle di chat, come se fosse il testo di una lunga comunicazione inviata invano ad un interlocutore che non c’è, o che non vuol rispondere. Il synth domina la scena e pulsa in ogni direzione, il tappeto electro ed il cupo pattern della batteria non aprono spiragli di speranza. La seguente Haven’t You Heard è un’altra deriva in toni alt-pop che propone la tragedia di chi, più giovane o fragile, viene esposto alla spersonalizzazione e al bullismo in rete.

Piccolo spazio cantautorale, Safe & Well ci accoglie nelle sue note calde in stile folk. Una ballata acustica intervallata da tiepidi arrangiamenti d’archi. Il canto di Moffat è armonioso, confortante, senza spigolature nel veicolare una straziante realtà, quella di una donna sola, morta durante la pandemia e ritrovata solo dopo molto tempo. Un terrificante esempio, tratto da una storia vera, di fittizia iper-connessione sociale fra esseri umani isolati e soli. La penultima canzone dell’album, Dreg Queen, è una parentesi ipnotica che ti inchioda nel suo ritmo e nei suoi loop. Racconta un’escursione notturna, alcolica, accompagnata dalla lucida consapevolezza che non c’è via d’uscita.

L’ultimo brano è Turn Off The Light, impeccabile metafora come titolo di chiusura e che sintetizza in maniera inequivocabile l’oscuro commiato da questo mondo, gremito di anime da salvare, anime in cerca di luce: «Per favore, vieni e mostrami le risposte / ti prego, vieni e dai un senso a tutto questo. / Ti prego, vieni, perché la verità non è qui fuori. / Ti prego, vieni, perché non posso sopportare di sentirmi così piccolo». Il brano sorge tenue fino a crescere in intensità e corposità, Middleton sa come costruire un vortice di suoni in grado di personificare l’amarezza, quel sentimento struggente evocato dalle parole di Moffat.

Il rituale è sempre lo stesso: mente aperta, regalarsi del tempo per ascoltare e comprendere ogni singolo battito creativo che pulsa in questo disco. È uno dei tanti capitoli di una band che ha saputo conservare la sua inconfondibile identità sonora guardando al futuro. Non è da tutti sparire, ritornare riuscendo a sorprendere i propri ascoltatori e conquistare nuovi seguaci. In questa fase avranno pure preso una direzione più dance, ma … sono ancora meravigliosamente e fottutamente ipnotici, perdonatemi il francesismo. I’m totally fine with it 👍 don’t give a fuck anymore 👍.  

Tracklist:
01. Allatonceness (4:28)
02. Bliss (3:52)
03. Sociometer Blues (3:43)
04. Hide Your Fires (3:07)
05. Summer Season (4:25)
06. Molehills (4:11)
07. Strawberry Moon (3:42)
08. You’re not There (3:00)
09. Haven’t You Heard (3:11)
10. Safe & Well (4:34)
11. Dreg Queen (3:40)
12. Turn off The Light (4:20)

photo credit: Marilena Vlachopoulou