R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Ben Sidran è un artista dall’animo disinvolto, un ottantenne di Chicago che non cerca di accodarsi troppo alle mode restando sempre fedele a sé stesso. Dopo suoi esordi con Steve Miller – parliamo di sessant’anni fa – Sidran ha inseguito il suo amore per il jazz sofisticato, leggermente swingante e insensibile ai mutamenti contemporanei. Mescolando i cluster degli accordi pianistici con le partiture a forma chiusa della musica pop, declinando i suoi
verbi irregolari con un pizzico di ironico distacco, l’Autore è arrivato oggi alla realizzazione del suo ultimo e trentacinquesimo – circa – album, Rainmaker. A dire il vero, la mia frequentazione musicale con Sidran si era fermata al 2009 al sorprendente e coraggioso Dylan Different, per cui l’occasione di accostarmi ancora al suo stile spigliato è per me come ritrovare un vecchio amico. Ma trascureremmo una parte importante della personalità di Sidran se omettessimo di ricordare la sua attività come saggista – avendo pubblicato nell’83 Black Talk, un trattato sociologico sulla musica nera statunitense – e il suo impegno come speaker radiofonico di musica jazz in cui intervistava famosi musicisti per la NPR, una rete no-profit di un migliaio di emittenti sparse in tutti gli Stati Uniti. Inoltre è stato un richiesto sideman per molti artisti importanti ed ha avuto una certa fama anche come produttore. Insomma, un uomo per tutte le stagioni, definito dal Chicago Sun Times, con un entusiasmo forse eccessivo, “…un uomo rinascimentale gettato alla deriva nel mondo moderno”.

Rainmaker nasce a Parigi, durante una reunion tra vecchi amici con l’intento di celebrare l’ottantesimo compleanno dell’artista. Per la sua realizzazione, l’Autore stesso ha convocato tredici musicisti – compreso il figlio Leo – polistrumentista e in questo caso anche produttore – che citeremo man mano verranno analizzati i singoli brani. Numerosi sono i riscontri che possiamo trovare nella musica di questo album e tra gli altri emergono i nomi di Mose Allison e per riflesso quello di Van Morrison e di Donald Fagen. Soprattutto, nel caso di quest’ultimo, mi paiono piuttosto evidenti numerosi punti in comune tra Rainmaker e il famoso The Nightfly dell’82, sia per quel che riguarda gli arrangiamenti ricercati che per l’impeccabile equilibrio dei suoni, frutto di una produzione, ora come allora, molto accurata. Sidran è anche in grado di rappare con deliziosa nonchalance inserendo sillabe cadenzate tra le battute musicali, mantenendosi comunque lontano da rischiosi scimmiottamenti di un’arte da strada classicamente black. La musica che ascoltiamo in quest’album è agilmente leggera, nel senso più nobile del termine, una serie di pop song a presa rapida, infarcite di delicatezze jazzy che mantengono una loro naturale signorilità, alcune soffuse di blues, altre che si sviluppano fluide in strutture a mid-tempo con le loro possibili ipotesi danzanti.

Si attacca con Someday Baby, una sorta di swing-blues dalla struttura forse didascalica ma ben segnata da quella sequenza di note basse del piano, suonato proprio da Sidran, in una successione di note essenziali che sono un sublimato di Nina Simone e Mose Allison in formato confidenziale. Il suo classico assolo con la mano destra, esempio di sintesi di piano blues, è preceduto dal sax di Rick Margitza, caldo e coinvolgente, che spunta tra gli accordi metronomici e ficcanti della chitarra di Leo Sidran. Coretto in stile jumpin’ jive come ciliegina finale, insomma ogni cosa al suo posto. Panda è un simpatico blues reso ancor più piacevole dal groove aggraziato e irridente di una verniciatura rock’n’roll appena accennata, nella quale Andy Narrell alla tin-drum e il bretone Olivier Ker Ourio all’armonica cromatica s’alternano con peritosa accortezza in bellissime ciarle e svagatezze improvvisate. Humanity è una sorta di reggae con la voce filtrata di Sidran, a tratti sovrapposta dalla traduzione in francese di Rodolphe Burger che si occupa anche di un suggestivo assolo di chitarra. “Qual è il prezzo della nostra vanità?”, si chiede l’Autore, dichiarando che “…abbiamo perduto la nostra strada”. Potrebbe essere un accorato appello a ritrovare il senno dell’Umanità, se non fosse che Sidran riesce a enumerare motivi di biasimo presentandoli con una forma tanto laconica da rendere leggero anche un bel carico di senso come il testo di questa canzone. Rainmaker, dal tratto così allisoniano che più non si potrebbe, è un fantastico blues realizzato con una compostezza non scolastica, naturale e senza sbavature, tanto da evidenziare la classe dell’Autore senza mezzi termini. Prodotto e curato con grande raffinatezza, si avvale dei ventosi interventi d’organo del figlio Leo e dall’ottima chitarra blues ben scandita di Romain Roussoulière. Da non sottovalutare l’asciutta essenzialità dell’assolo di piano, eseguito secondo il classico criterio di “non una nota in più del necessario”. Brano che entra nella mia personale playlist con tutti gli onori del caso. Are We There Yet è una ballata notturna dal sapore urbano, caratterizzata dalla splendida armonica di Ker Ourio e con il commento vocale di Rodolphe Burger. L’approccio raffinato da parte di un piano e di un contrabbasso – quello di Billy Peterson, che ricordiamo per le sue compartecipazioni al dylaniano Blood on the Tracks e alle collaborazioni con Leo Kottke – si muove nell’ambito di una sintetica quasi spettrale rigorosità.

Sosi B è un brano solo suonato e composto originariamente da Mose Allison. Trattato con l’usuale eleganza, riproposto in una forma ibrida tra il blues e il funky, vede l’ospitata del sassofonista John Ellis – vecchia conoscenza di Sidran con cui collaborò nella realizzazione di Don’t Cry for no Hipster (2012) e Picture Him Happy (2017) – e del trombettista Michael Leonhart, newyorkese dall’importante pedigree artistico e che fu anche co-produttore del quarto lavoro da solista di Donald Fagen, Sunken Condos (2012). Victime de la Mode è un vero e proprio rap che lavora prevalentemente su un paio di accordi, con un ritornello reso appunto a la mode dalla cinguettante voce di Camille Marotte. Times Gettin’ Tougher Than Tough è un r&b di Jimmy Whiterspoon, di cui Sidran offre una versione molto addolcita e donaldfageniana ma se voleste ascoltarne una decisamente più jazz potreste indirizzarvi ad un disco live del 1960, At the Renaissance, dove Whiterspoon si esibisce con Gerry Mulligan e Ben Webster. In questa nuova veste contenuta in Rainmaker c’è da rimarcare l’assolo di chitarra di Roussoulière su modello B.B King. Sempre di Mose Allison è la seguente Ever Since the World Ended, uscita con l’omonimo LP Blue Note del 1987. Mi spiace doverlo dire ma il brano originale, sublime nell’edizione della Nota Blu, è qualitativamente irraggiungibile, nonostante la cura devota e la ricerca della semplicità inseguita da Sidran. Sweet riconduce il gusto dell’album agli alti livelli che gli competono con questo brano, solo suonato, benedetto dal tenorsax di Rick Margitza, a viaggiare attraverso un amabile swing in mid-tempo, tra le spazzole di Leo Sidran e il civettuolo piano del padre. Conclude il discorso So Long con la presenza di Mike Mainieri – indovina un po’ – al vibrafono, insolitamente costretto in un angolo dalla divisione stereofonica quando avrebbe meritato più visibilità sonora. L’unico errore in fase di produzione, peraltro in un album perfetto sotto tutti i punti di vista.

Chissà perché lavori di questo tipo vengono frequentemente collocati in una categoria meno titolata dagli amanti del jazz. Forse per via della loro levità, per non possedere lo stigma dell’avanguardia ed essere troppo bianchi in clima di blues? Sidran è un giovane ottantenne che non ha perso nemmeno un grammo della propria vitalità, mostrando solo e inevitabilmente qualche limitazione nell’uso della voce, peraltro ben utilizzata senza mai strafare. L’album non è solo piacevole – termine che sa di dolcetto della nonna – ma è un variopinto, sapido, collagistico mosaico di suoni e di originali combinazioni timbriche. E poi una delle peculiarità di Sindran è quella di aver presente il senso del limite e di mantenersi entro il suo già ampio cerchio di possibilità. Del resto, essendo un uomo rinascimentale, così come è stato definito, avrà tenuto a mente le parole di uno tra i più grandi e antichi ispiratori del Rinascimento: “ Chi non teme il proprio limite, tema gli Dei!”

Come anticipato, ecco ora l’elenco di tutti i musicisti coinvolti.
Olivier Ker-Ourio armonica cromatica
Billy Peterson e Max Darmon, basso
Mike Mainieri, vibrafono
Rick Margitza e John Ellis, sax
Michael Leonhart, tromba
Andy Narell, tin drums
Denis Benarrosh, percussioni
Romain Roussoulière e Rodolphe Burger, chitarra elettrica
Leo Sidran, batteria, organo, chitarra, voce
Camille Marotte, voce

Tracklist:
01. Someday Baby (3:48)

02. Panda (4:44)
03. Humanity (3:55)
04. Rainmaker (5:09)
05. Are We There Yet (4:26)
06. Sosi B (3:58)
07. Victime de la mode (3:07)
08. Times Gettin’ Tougher Than Tough (3:17)
09. Ever Since the World Ended (4:07)
10. Sweet (3:28)
11. So Long (2:52)