R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Un album pieno d’amore, questo gioiello della cantante pakistana – nata però in Arabia Saudita – Arooj Aftab. Sembra raccontare un eros mancato, di quelli che non riescono ad accendersi nemmeno dopo lunghi e insistenti sguardi. E nonostante la Aftab celebri la Notte con tutta la sua valenza poetica come cosmica mediatrice d’incontri, nel suo canto profondamente riflessivo e languido si avverte come una costante sensazione di distacco, di un vuoto che possa riempirsi solo di attese. Ma del resto non è questo il pegno di tutti i poeti? Non è forse questa mancanza, la principale sorgente delle elegie più profonde? Night Reignquinta uscita discografica dopo il fortunato e pluripremiato Vulture Prince e il precedente album in trio Love in Exile per questa cantante asiatica residente da quasi vent’anni a New York – trabocca di sentimenti amorosi, abbarbicato com’è al canto vellutato della stessa autrice e ad una serie di risoluzioni musicali di notevole, lirica raffinatezza. C’è molto silenzio tra le frasi strumentali, un silenzio che paradossalmente è il rumore di fondo di questo album. C’è inoltre un palese senso di misteriosa attesa che si diffonde con levità tra le melodie sfuggenti dalla cadenza fortemente orientale. Ma non si tratta di musica propriamente etnica, per la verità. Sono visibili molte influenze occidentali, accenti provenienti dalla contemporaneità, dal jazz e non solo, compare perfino in modo occasionale un autotune stratificato sulla voce a farsi strada tra strumenti acustici ed elettronici con elegante nonchalance.

Quello che però bisogna assolutamente rilevare, senza inutili panegirici, è la pura, fragrante e ipnotica bellezza che sembra provenire da un piano astrale, da una dimensione Altra vibrante e nascosta dal velo apparente del Reale. In quale maniera la tradizione pakistana si fa sentire all’interno della musica della Aftlab? Innanzitutto attraverso i testi minimalisti – di cui parleremo nell’analisi dei singoli brani – due dei quali attribuibili ad una poetessa del ‘700, Mah Laga Bai Chanda, la prima donna a pubblicare versi lirici in urdu, la lingua ufficiale del Pakistan. Alla stesura del testo del primo brano partecipa anche la scrittrice ed attrice pakistana Yasra Rizvi. Ma poi c’è un riferimento testuale attribuito a Jalal al-Din Rumi, grande teologo, mistico e poeta persiano sunnita vissuto nel XIII° secolo. Inoltre la Aftab si ispira, nei suoi propri testi, alla tradizione poetica del Ghazal tipica del mondo arabo, caratterizzata da componimenti brevi e monorimici. Invece i riferimenti più prettamente musicali sono da riferirsi al Qawwali, stile che racchiude melodie sacre di stampo sufi, di cui il portavoce più importante fu Nusrat Fateh Ali Khan, piuttosto conosciuto in occidente anche per via del wajad, lo stato di unione estatica con l’Uno raggiunto durante le sue performance musicali e danzanti. Tradizioni secolari, quindi, che si mescolano con elementi contemporanei in un’insolita prospettiva transculturale. L’apporto percussivo è molto ricco, fantasioso, spesso apparentemente fuori contesto come accade, ad esempio, per la rielaborazione di Autumn Leaves. Ma le tessiture delle chitarre, del piano, dell’arpa e persino dei synth si adattano al supporto ritmico conferendo allo sviluppo dei brani una frequente dimensione onirica. In tutto questo la Aftab si muove con disinvolta grazia in equilibrio sulle punte senza alcun autocompiacimento ma con la convinzione interiore di realizzare una musica radicale, bellissima e senza lacerazioni timbriche. Le composizioni dell’album possiedono un carattere aereo, vaporoso, un anemos che si addensa e si dissolve continuamente come un ectoplasma medianico. La voce, il canto così melodico e suadente, si manifesta attraverso una varietà di colori che vanno dai toni scuri della solitudine a quelli più brillanti della tensione erotica a dimostrazione dell’ambivalenza storica della cultura poetica islamica, tesa tra l’elegia del vino di Abu Nuwas e l’intransigenza della politica teocratica. La notte, così celebrata dall’Autrice, è infatti non solo Whiskey e sensualità, come raccontato in un brano dell’album, ma anche transizioni insonni, imprecise focalizzazioni, progetti chimerici che svaniscono all’alba in una stanza d’albergo. Del resto è la stessa Aftab che riflette sulla notte newyorkese “…dove nessuno dorme e tutti vivono uno sull’altro…” come riporta Kat Lister in un’intervista per The Quietus del 25/05/24. Il lungo organico strumentale di Night Reign, oltre alla voce e agli occasionali interventi al synth della Aftab, comprende Jamey Haddad e Keita Ogawa alle percussioni, Gyan Riley – figlio del più noto compositore Terry – e Kaki King alle chitarre, Petros Klampanis, Linda May Han Oh – vedi qui – e Shahzad Ismaily rispettivamente al contrabbasso e al basso elettrico, Maeve Gilchrist all’arpa, Nadje Noordhuis al flicorno, James Francies al piano Rhodes, Vijay Iyer al pianoforte – vedi qui e qui Joel Ross al vibrafono – vedi qui e qui –  Moor Mother alle voci e al parlato, Huda Asfour all’oud, Darian Donovan Thomas al violino, Cautious Clay al flauto, Heather Ewer alla tuba e un piccolo cameo di Elvis Costello al piano.

All’apertura della sequenza dei brani appare subito Aey Nehin, su testo della già citata Rizvi che racconta di un’attesa prolungata, forse destinata a non esaurirsi in un incontro. Si fa notare l’intreccio dei cordofoni, le due chitarre con l’arpa, l’evidente utilizzo dei microtoni nel canto rigorosamente in forma modale com’è nella tradizione medio-orientale. La voce carezzevole di Aftab mi ricorda, in certe sfumature più morbide, la caligine nebbiosa di Elina Duni mentre sullo sfondo lampeggiano le percussioni variopinte di Haddad.

Segue Na Gul, sul testo della poetessa Bai Chanda, una canzone d’amore dove la brillantezza della rugiada mattutina è paragonata allo sguardo dell’amante. Atmosfera molto romantica, il pianoforte introduce poche note rarefatte sulle quali la voce estatica dell’Autrice si mantiene indefinita, appoggiandosi all’intreccio tra lo stesso pianoforte e gli interventi d’arpa e di flicorno. Poi l’incredibile Autumn Leaves (1945), uno tra gli standard più saccheggiati della storia del jazz. Una versione audace come questa non l’avevo mai sentita. Il brano viene, diciamo così, desacralizzato nella sua parte armonica, pur conservando l’iconica melodia. Poliglottismo percussivo più il poderoso contrabbasso della Oh e qualche passaggio di Rhodes in assolo fanno il resto. Su tutto la voce mai così profonda e limpida della Aftab. Bolo Na (= dimmi!) esprime l’incertezza di conoscere l’effettiva validità di un amore. Il basso elettrico di Ismaily e le percussioni quasi in formato ballad sostengono il lamento sospiroso del canto, mentre l’apodittico e vigoroso parlato di Moor Mother sembra non ammettere repliche di sorta. Sullo sfondo si avverte il vibrafono di Ross che sottolinea con le sue note lunari il tema del dubbio. Saaqui è un altro testo di Bai Chanda, dove il desiderio di una fioritura dell’anima si metaforizza con il bisogno di soddisfare la sete di bellezza. Sicuramente tra i brani migliori dell’album, con il piano di Iyer che non soffre il clima modale di questa musica, anzi ne valuta con pochi accordi e arpeggi sapienti il suo portarsi in crepuscolare tristezza, accompagnando l’emozionante canto della Aftab. Struggimento d’animo, paesaggio sonoro che pare dilatarsi all’infinito, tra sperimentazioni giocosamente infantili e quiete linee geometriche. Un piccolo capolavoro, insomma. Last Night Reprise è la riproposizione di un brano comparso in Vulture Prince, reso quasi come un blues modale sottraendolo al beat della versione precedente. Il contrabbasso segna il perimetro dentro il quale il cantato espugna il proprio spazio, circondato da un florilegio d’improvvisazioni condotte fondamentalmente dall’arpa e dall’ottimo flauto di Cautious Clay. Poco influente la partecipazione di Costello. Il testo è tratto da una poesia di Rumi in cui l’astro selenico viene paragonato alla bellezza dell’amata(o). Reat Ki Rani è un altro di quei brani, come il precedente Saaqui, da portarsi nella famosa isola deserta. Ritrae la Regina della Notte (Silenicereus Grandiflorus), cioè quel fiore notturno che si apre e profuma dopo il tramonto. Così come un incontro notturno che cattura l’attenzione ma da cui non nasce occasione, nonostante la sua stordente presenza. La voce stupenda della Aftab viene resa quasi più liquida dall’autotune, innescando un gioco di visioni immaginarie e pensieri divaganti. Whiskey si discosta piuttosto dal tenore complessivo dell’album. Sembra una ballata urbana con quel talking che la porta dalle parti di Suzanne Vega o addirittura in direzione Joni Mitchell, in cui persiste la pervicace mitologia, comunque gradevole, dell’abbandonarsi alla seduzione indotta dall’alcool. Molto eros dolce-amaro, accompagnamento fantastico sulle ali di una malinconia sentimentale che si muove tra tenerezza e un vago sapore nostalgico. Chiude l’album la splendida Zameen, composta da Begum Akhtar che fu una cantante indiana e attrice, chiamata la Regina del Ghazal. Bella come una preghiera, la canzone si allunga in un’ellisse melodica con questi versi, tra gli altri: “ Niente si ottiene senza desiderio, da nessuna parte. Ma se il desiderio è pieno di passione, uno può raggiungere il Mondo e Dio”.

L’estate, almeno qui al Nord da dove sto scrivendo, si fa particolarmente attendere. C’è tempo per restare ancora immersi in questo clima variabile, trasportati da correnti di piogge tumultuose alternate a improvvisi squarci tra le nuvole. Emerge a tratti un sole antico e appare una musica come questa, con note che sondano i nostri spazi interiori, laddove tutto sembra dolce e triste, erotico e fallibile. Credo che Night Reign sia tra gli album più belli usciti finora in questa prima metà dell’anno e che sarebbe un peccato, davvero, non accorgersene.

Tracklist:
01. Aey Nehin (5:46)

02. Na Gul (5:30)
03. Autumn Leaves (4:47)
04. Bolo Na (6:15)
05. Saaqi (6:47)
06. Last Night Reprise (5:08)
07. Raat Ki Rani (5:13)
08. Whiskey (5:07)
09. Zameen (4:17)

Photo © Kate Sterlin