R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Lucciola, fiammifero, lampadario, scintillio, aurora, splendore, fuoco. Mettendo in fila questi termini che hanno a che fare, chi più chi meno, coi titoli di A Queens’ Firefly, l’ultimo album di Erik Friedlander, ci accorgiamo che il comune denominatore di tutte queste voci è la luce. Confortati, oltre che dalla copertina del disco che ricorda alcune suggestioni shakespeariane e anche dal racconto specifico che ne fa lo stesso Friedlander, ci rendiamo conto come una storia personale che ha la “luce” come protagonista, in questo caso un ricordo sentimentale, possa innescare la giusta ispirazione d’una creazione musicale come questa. La visione sempre magica del volo delle lucciole nel quartiere newyorkese del Queen, innesca un intreccio di emozioni che collegano le memorie del violoncellista Friedlander ad una citazione di Virginia Woolf sul senso dell’esistenza che non è mai, secondo la scrittrice, una rivelazione potentemente drammatica. Il sacro Graal della comprensione della vita è invece un intreccio di intuizioni, di piccoli miracoli spesso inaspettati, frammenti emotivi e subitanee illuminazioni come luci di fiammelle che s’accendono all’improvviso nel buio. Per arrivare a trasformare queste impressioni in linguaggio musicale, Friedlander si serve di alcuni illustri colleghi che contribuiscono alla struttura di A Queens’ Firefly come il pianista Uri Caine, forse il più conosciuto al grande pubblico, il batterista Ches Smith e il contrabbassista Mark Helias. E naturalmente il leader di questa formazione, nota come The Throw, è appunto Erik Friedlander. Quest’ultimo ha pubblicato oltre una ventina di dischi a suo nome ed è intervenuto in almeno cinquanta o più collaborazioni, tra cui ricordiamo il lungo “tête-à-tête” con John Zorn, oltre alle partecipazioni con Laurie Anderson, Nels Cline, Dave Douglas, Benny Golson, Wadada Leo Smith ed altri ancora. La caratura di “The Throw” è tale da indurci a pensare che i brani proposti in questo album siano tutt’altro che veloci schizzi impressionisti. Si avverte la complessità della scrittura e dell’esecuzione, talora poco trasparente, che spazia da assetti melodici ben decifrabili a strutture instabili e stratificate da ascoltare con attenzione per non smarrire il filo della composizione. Se da un lato si avverte quindi una straordinaria sintonia tra i membri della band, dall’altro si coglie una sotterranea tensione che aborrisce la banalità e le soluzioni semplicistiche. Una musica che sa osare senza esporsi troppo, disegnata con competenza tecnica distendendosi tra momenti di dolcezza e riflessione intellettuale, evitando romantiche crepuscolarità, come forse copertina e presentazione dell’album potrebbero indurre a credere.

Il primo brano è quello omonimo del titolo del disco, cioè A queens’ Firefly, ed è una ballata leggiadra, forse il pezzo più dolce dell’intero lavoro. Un valzer innescato dall’impostazione melodica del violoncello a precedere la comparsa di Helias che tiene banco col contrabbasso con un bell’assolo ricco di caldi colori. Persino il piano di Caine si lancia libero ed armonico, lasciandosi dondolare dal tempo di trequarti su cui è impostato il brano. Verso le battute finali violoncello e piano s’intrecciano, a volte all’unisono, chiudendo in un leggero sfumato. In Match Strikes pare di avvertire – attraverso le note acute della tastiera, gli stacchi di batteria e i glissati del violoncello – alcuni fiammiferi che s’accendano nell’oscurità come improvvisi lampi di consapevolezza. Una musica nervosa, con un’atmosfera molto diversa dalla traccia precedente. Il cambiamento lo si avverte non solo nel groove ricco di frammentazioni ritmiche ma anche e soprattutto nel piano che cerca qualche dissonanza in più, sia con l’accompagnamento della mano sinistra sia con la ricerca insistita della destra. Le frasi musicali si organizzano e si sfilacciano in un continuo divenire, obbligando l’ascoltatore ad un’attenzione tutt’altro che fluttuante. Chandelier è un brano piuttosto veloce, costruito con una serie d’incollaggi e sovrapposizioni che ricordano il pezzo precedente, pur senza le interruzioni ritmiche di Match Strikes. Parte il violoncello con un ficcante fraseggio dai toni un po’ claustrofobici che però si apre dopo il primo minuto in un parziale rasserenamento. Aumentano gli intervalli tra le note selezionate da Friedlander mentre Caine dimostra tutto il suo eclettismo mutando ancora – o quasi – l’intenzione dell’assolo, piazzando qualche dissonanza inaspettata ed esplorando la parte più acuta della tastiera. Un assolo di batteria con qualche appunto di contrabbasso precede la ripresa del tema iniziale prima di chiudere. Glimmer, nell’iniziale e glaciale solitudine del violoncello, ricorda qualche influenza più nordica ma poi tutto cambia quando s’innesca il tema portante, molto bello e toccante senza essere svenevole. C’è un interessante incrocio tra il contrabbasso e il pianoforte, quest’ultimo brillantissimo sia come timbrica che come inventiva. L’assolo di Friedlander mi colpisce leggermente meno, anche per qualche incertezza nell’intonazione. Convincente il contrabbasso, come al solito in questo album, bello pieno e carnoso.

Little Daily Miracles inizia in sordina, quasi a mezza voce. Una melodia svagatamente orientale ammantata di un languore un po’ pigro, ricco di colore. È sempre il violoncello il protagonista, quello che lavora molto d’improvvisazione, oltre ad avere la maggior responsabilità per la costruzione dell’area tematica. Poi arriva Caine e bisogna dire che difficilmente si ascolta il pianista in chiave così tranquilla e naturale come nel contesto di questo album. Bel brano, significativo come il primo A queens’ firefly, addirittura più intrigante, con una velatura di sospeso mistero. Aurora è un pezzo che appare più complicato per la partenza in improvvisazione totalmente libera. Proseguendo l’ascolto, nonostante la ritmica sostenuta, la sensazione è quella di un eccessivo montaggio delle parti, con una costruzione più farraginosa rispetto alle altre. A simple radiance recupera, con il tema presentato dal violoncello e suonato nella parte più alta del manico, l’impronta melodica che caratterizza ampia parte dell’album. Il pizzicato di Friedlander si aggiunge all’archetto, fornendo una sonorità ulteriore nel complesso di quelle già conosciute. Bello l’assolo, più “classico”, se vogliamo, di Caine. Anche il contrabbasso si concede un canonico momento di presenza prima della ripresa del tema finale, ribadito proprio in chiusura dal ritorno del pizzicato del violoncello. The Fire in You, ultimo brano in sequenza, mi ha rimandato alla musica della Mahavishnu Orchestra per i suoi tempi serrati e per le caratteristiche strumentali del violoncello, analoghe in un certo qual modo, alla chitarra di Mc Laughlin. Un tuffo vitale ed energetico nel rock-jazz, chiaroscurato di fusion. Il brano appare segmentato e leggermente disomogeneo ma è l’unico accenno di retroguardia di questo lavoro che interpretiamo quasi come un omaggio, non si sa fino a che punto consapevole, ai tardi anni ’70. Addirittura qualche elemento del tema mi ha ricordato i Goblin di Profondo Rosso…
Non so se giunti al termine di questo viaggio musicale sia servito conoscerne la ragione profonda, cioè la ricerca di un senso esistenziale così come aveva suggerito la Woolf, a piccoli passi e fugaci illuminazioni. Di certo non sfugge l’organizzazione delle parti di questo quartetto in cui il leader ha il ruolo centrale ma gli altri musicisti, pur rispettando le gerarchie del caso, non si pongono certo in disparte. A queen’s Firefly non è una favola, anche se le motivazioni alla base avrebbero potuto far immaginare diversamente. È invece un lavoro ben organizzato e altrettanto ben suonato, anche se a volte si ha l’impressione, strada facendo, di qualche momento d’ombra ad oscurarne la luce.
Tracklist:
01. A Queens’ Firefly
02. Match Strikes
03. Chandelier
04. Glimmer
05. Little Daily Miracles
06. Aurora
07. A Simple Radiance
08. The Fire in You
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