R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Non penso che il titolo dell’ultimo album del pianista israeliano Avishai Darash, Between Hope and Despair, possieda in sé qualche valenza manichea. Piuttosto credo sia da mettere in relazione, almeno per ciò che racconta lo stesso Autore, con la bollente situazione politica presente in buona parte del mondo. Presumibilmente l’idea di un lavoro come questo – e giocoforza la sua organizzazione e preparazione – sarà germogliata forse prima del conflitto attualmente in atto a Gaza ma visto come vanno le cose questo disco cade oggi in modo decisamente opportuno nella confusione di senso che abita soprattutto il medio-oriente. Darash – che da quattordici anni vive ad Amsterdam – dimostra come non esista un angolo cieco nel suo progetto musicale e che quindi la propria arte non stia volgendo lo sguardo di lato, mantenendosi invece consapevole dei funerei avvenimenti che agitano il suo/nostro mondo. Ovviamente Darash, non essendo un politico, ragiona col suo pianoforte e si esprime simbolicamente attraverso la musica, qui proposta in quartetto. Siamo un po’ lontani dal clima curioso e nostalgicamente moresco del suo precedente lavoro Andalusian Love Song (2022) – vedi qui la recensione e le fondamentali note biografiche – anche se una coda di quella suggestione la si può ascoltare ancora oggi in alcune tracce di questo Between… Insieme all’Autore suonano il russo-ispanico Antonio Moreno Glazkov alla tromba, il cubano Ivan Ruitz Machado al basso elettrico e l’iraniano Shayan Fathi alla batteria.

Il pianismo di Darash si mostra con gesti estetici rilassati e accattivanti, melodismi pacati ma non esageratamente insistiti e frequenti impegni nella dimensione dell’arpeggio che aiuta a conferire ai brani una limpida e liquida corrente sonora. Anche la tromba di Glazkov si muove tra fraseggi misurati, spesso sciolti in momenti cantabili non privi di accenni malinconici. Complessivamente però, il clima dell’album è percorso da una sottile inquietudine, per lo più stemperata – ma non cancellata, come vedremo nell’analisi dei singoli brani – dall’indugiare frequente tra due tonalità di base che agiscono da polarità opposte ma unite, come in una continua altalena, nel fluire dello sviluppo musicale. La forma complessiva è tranquillamente accessibile, piuttosto melodica, senza frizioni tra i vari passaggi armonici. Più che un lavoro di riconciliazione, come ho letto da qualche parte, ho avuto la sensazione di una fotografia serena, non priva di speranza, ma tutto sommato realistica della situazione attuale, senza atteggiamenti vittimari o per contro revanscisti. Probabilmente, come spiega lo stesso Autore in un articolo firmato da Thierry De Clemensat di Paris-Move, “…l’obiettivo è entrare in risonanza con un mondo desideroso di conforto”. E questa affermazione toglie ogni dubbio sulle motivazioni profonde che hanno spinto Darash & C. a muoversi in questo campo, lavorando non solo su un’ottima performance musicale ma sui due concetti indicati nel titolo dell’album, la speranza, appunto, e il vuoto che lascia la sua assenza.

Il primo brano che ascoltiamo è la title-track, Between Hope and Despair. Dopo un ondeggiamento iniziale su due accordi di piano punteggiati dalla batteria, si giunge ad un cambio di tonalità, con la tastiera che si scioglie nell’arpeggio e la tromba impegnata a disegnare il tema. Seguono altri mutamenti di tono, la ritmica che schiuma tempi luminosi fino ad arrivare ad una fontana sognante di note arpeggiate dal piano di Darash, mentre accordi e interventi di tromba si succedono a intervalli di seconda. Poi una variazione di battito da parte di Fathi segna un mutamento quasi meteorologico, con la comparsa di un improvviso sentire gioioso che però, lentamente, torna a scivolare verso il dualismo iniziale. Si entra nell’orizzonte degli eventi di Supernova con un’introduzione di batteria e un raddoppio di suono da parte della tromba, questa volta sordinata. Proprio Glazkov conduce il gioco proponendo e riproponendo il tema – che a dir la verità ricorda un poco You Only Live Twice di John Barry – fino ad un assolo suonato senza harmon ma con qualche momento di sovra-incisione. Anche in questo caso notiamo l’oscillazione armonica, spesso ripetuta, su una coppia di accordi che in qualche modo torna a rappresentare la polarità dei sentimenti che caratterizza l’intero album. Don’t Think, Dance si discosta parzialmente dal contesto abituale dell’album presentandosi con un’introduzione quasi sbarazzina in un bell’incrocio tra il ritmo serrato della batteria e del basso elettrico e gli accordi saltellanti del pianoforte. Si procede poi con un atteggiamento più melodico guidato dall’esposizione del tema rimarcato dalla tromba, restando comunque in un territorio tra il funky e la fusion, con un bel duetto ritmico tra Machado e Fathi. L’assolo di tromba si sviluppa senza particolari convulsioni ma riesce comunque a trasmettere un’idea d’ottimismo.

The Seventh presenta una struttura circolare con un tema frizzante, introdotto da una serie di trilli pianistici che evoca istantanee legate alla tradizione medio-orientale. Mentre la tromba ripete la sua parte, piano e ritmica riempiono gli spazi di pura materia sonora, almeno fino a quando Glazkov si trova tra le mani l’assolo più free di tutto l’album e la batteria di Fathi lo sostiene con continue frammentazioni ritmiche. Si finisce con la ripresa della tematica iniziale, questa volta arrangiata dalla sovrapposizione di piano e tromba. Bastrika, per quanto ne so, è un termine che indica un particolare tipo di respirazione addominale utilizzata nelle tecniche dello Yoga, indicata per eliminare l’accumulo di tossine. Probabilmente da consigliare ai responsabili delle mattanze in atto nei territori palestinesi. Il brano, musicalmente parlando, lavora come spesso evidenziato, altalenandosi tra coppie di accordi, quasi a suggerire il pendolarismo dei sentimenti che continuamente intercorrono segnando l’impronta di senso di questo album. Non privo di una certa inquietudine, anche se mascherata da un substrato ritmico tutt’altro che languoroso, il pezzo lascia trasparire ogni tanto qualche momento di pianoforte che sembra rasserenare lo spirito. Ma l’incrocio tra la tromba e lo strumento di Darash, anche se in superficie allude a qualche eco legata alla tradizione, è una cartina tornasole del clima un po’ ansiogeno che si respira in questo brano. Echo Chamber lo leggo come uno dei momenti migliori dell’album. L’inizio è affidato all’eterno movimento di va e vieni tra una coppia di accordi ma col piano che imposta un delicato assolo in cui regna l’arpeggio, tra i sussulti del basso elettrico e l’elegante ritmo della batteria. La tromba imposta il tema che talora viene replicato insieme al piano, lasciando però a quest’ultimo la continuità dell’accompagnamento e ad ogni modo costruendo insieme a Darash la coda del brano stesso. L’eco suggerito nel titolo si avverte tra le righe come una reminiscenza di qualche melodia affiorante dalla tradizione. The Old Days, invece di dondolarsi sugli accordi, si distende su una serie di scale segnate dal piano e controbilanciate dalla sonorità picchiettante e metallica della batteria. Entra con discrezione la tromba tra fughe di note romantiche dello stesso pianoforte, cercando uno spazio in assolo sopra Darash che riprende a dialogare con le sue liquide scale. Con The Sage appare il Rhodes e con questo strumento una certa aria malinconica s’impossessa della musica. La ritmica si stabilizza in un tempo ben scandito mentre la tromba tende a sfocare il suo soffio in un tema un po’ mesto ma essenziale, senza lasciarsi andare ad alcun autocompiacimento. Darash sembra restare volutamente in secondo piano a sostenere Glazkov con il suo tranquillo e pulito assolo. Midnight Express è il brano che più risente dell’impronta musicale tradizionale e lo si comprende da subito con l’introduzione ad opera del piano e le disparità ritmiche messe in azione dalla batteria. Il tema medio-orientaleggiante viene ripreso poi anche dalla tromba mentre al di sotto il pianista arpeggia ondulante, almeno fino a quando decide di partire per la tangente con un assolo da hard-bopper, forse l’unico frangente di tal fatta individuabile nell’album. Sul finale non si può non annotare la frastagliata dissezione ritmica operata da Fathi.

Di sicuro Between…si presenta come un lavoro idealmente più complesso che non il già citato album precedente, anche se formalmente resta comunque un’opera sufficientemente abbordabile, magari non subito e non al primo ascolto. La costante ombreggiatura ritmica di Machado e Fathi, l’estro pianistico di Darash e la tromba vellutata ed attenta a rimanere tra le righe di Glazkov, testimoniano un gruppo di florida invenzione nonché ideologicamente coerente. Questo anche se Darash, dopo tutto, resterà poco più che un’indefinibile voce-contro nella nebbia dei conflitti che inquinano il pianeta.

Tracklist:
01. Between Hope and Despair
02. Supernova
03. Don’t Think, Dance
04. The Seventh
05. Bastrika
06. Echo Chamber
07. The Old Days
08. The Sage

09. Midnight Express