Intervista di Luca Franceschini

Nell’era dell’apparenza e dell’immagine che vince sulla sostanza, abbiamo bisogno di figure con un’idea chiara di che cosa significhi fare musica, per se stessi e per altri. Che si rendano conto che produrre arte ha a che fare con la verità di sé, che il successo commerciale non è scontato e, se arriva, è solo una conseguenza del fatto che si è sempre lavorato per quella verità. Andrea Gargioni (in arte Andre Blanco, monicker che ha scelto di utilizzare per la sua carriera solista) ha un curriculum lungo e impegnativo ma è troppo umile per sbandierarlo in giro.

Ha cercato la sua strada con tenacia, fregandosene delle ricompense e cercando solo la soddisfazione, la pienezza, quella vera. Dopo aver lavorato a lungo per altri, ha deciso di tornare a farci ascoltare qualcosa di suo. Ha radunato un gruppo di amici e lo ha messo al lavoro su una manciata di pezzi, dopodiché è volato a Los Angeles per lavorare con Aaron Sterling, il batterista (tra gli altri) di quel John Mayer che negli anni è stato molto più che una fonte di ispirazione.
“Queen of Colors”, uscito da qualche settimana, ha avuto una gestazione travagliata, a tratti eccessivamente, vista l’apparente semplicità di cui si ammanta. Eppure ne è valsa la pena: è un disco intimo, sussurrato, che svela l’anima di un musicista che è innanzitutto grato di poter fare questo mestiere. Lo abbiamo incontrato a Milano, nel suo studio personale e ci siamo fatti raccontare meglio tutta questa storia.

Cominciamo dall’inizio: quando hai capito che avresti voluto fare il musicista?
Ho iniziato otto anni fa. Mi ero iscritto alla facoltà di lingue ma avevo capito abbastanza presto che quello non lo volevo fare. In seguito ho conosciuto Franco Mussida, che insegna al CPM e sono andato da lui a fare un corso di composizione e arrangiamento. Durante quel periodo ho avuto delle conferme che quello che scrivevo aveva del potenziale, che poi era quello che mi interessava capire. Terminato il corso, ho aperto un piccolo studio a casa mia e ho iniziato a produrre, a scrivere canzoni per un po’ di gente. Nel frattempo ho iniziato anche con un piccolo giro di Booking e parallelamente portavo avanti la mia attività di musicista e autore, componevo e suonavo dal vivo.
Tutto questo fino a quando sono stato chiamato a fare un tour organizzato dalla
Universal, dove avrebbero preso parte alcuni dei più importanti artisti d’Italia. Mi sono portato dietro le mie canzoni e le ho fatte sentire a quelli che erano lì. Tornato a casa, hanno incominciato a chiamarmi. Uno dei primi è stato Fedez. Abbiamo iniziato a lavorare insieme, incidendo alcune cose, nel frattempo avevo aperto uno studio in Moscova e sono stato lì un anno e mezzo. Tramite Fedez ho poi conosciuto i Two Fingerz e mi sono spostato da loro in studio. Anche qui sono stato un anno e mezzo, con Roofio abbiamo lavorato a diverse cose con J Ax, Fedez, Dargen D’Amico e nel frattempo suonavo coi Two Fingerz dal vivo. L’ho fatto per due anni ed è stata una bella esperienza, sopratutto ho imparato tanto da Roofio che per me è stato ed è un maestro.

Che tipo di lavoro svolgevi esattamente per loro?
Quello per cui mi ero distinto è che io non volevo fare la produzione elettronica dei pezzi, come facevano tutti. Io volevo suonare, quello che volevo fare era inserire elementi che fossero suonati, in tutte le basi che facevo. Da tempo notavo che, forse perché chitarrista, mi veniva più facile fare le colonne sonore, piuttosto che delle semplici basi sui pezzi degli altri. Nell’Hip Pop quello che tu fai è più o meno quello perché il rapper alla fine segue la musica che fai tu, si lascia ispirare da quella.

E così arriviamo al presente, giusto?
Esattamente. Ho aperto questo studio sui Navigli col mio socio Jamie Robert Othieno, che nel frattempo stava avendo molto successo come come regista: aveva fatto i primi video di Ghali e di Sferaebbasta, che poi come sappiamo sono esplosi per cui adesso è uno dei registi più richiesti in giro.

Quindi di cosa ti occupi oggi?
Il mio lavoro è essenzialmente quello del produttore, autore ed arrangiatore. Lavoro per artisti Hip Pop ma poi spazio in tutti i generi: è stata una scelta mia, non ho voluto specializzarmi troppo, mi piace prendere tanti spunti e inserirli nelle cose che faccio di mio.

So che avevi inciso a tuo nome “Need”, un ep che conteneva alcune tue canzoni. Dove si colloca questo lavoro, nella storia che mi hai raccontato?
Nel 2013. Ero ancora nello studio in Moscova e ho conosciuto Max Forleo, che è poi diventato uno dei mei mentori. Il mio problema principale è sempre stato l’aver bisogno di una guida, che non è una cosa facile da trovare in questo ambiente. Io ho sempre avuto bisogno di imparare perché se rimani autoreferenziale non vai da nessuna parte. Essendo però un ambiente dove ognuno pretende di avere chissà quali segreti da coprire, nessuno ti insegna nulla. La prima persona che mi ha davvero dato fiducia è stata Giacomo Frigerio, fondatore di un’agenzia di comunicazione in Brianza, la Blossom, con cui ho iniziato a collaborare scrivendo jingle per pubblicità ma sopratutto ho imparato da lui un metodo di lavoro. Solo dico sempre, io ho imparato a far musica da un grafico! Gli devo davvero molto umanamente e lavorativamente. È un mostro nel suo lavoro ed è stato la mia prima vera guida. Poi ho trovato Max, che era uno che lavorava già ad alti livelli. Lui, senza conoscermi, mi ha aiutato tantissimo, portandomi anche in giro ad aprire i suoi concerti. È stato lui a spronarmi a fare anche cose mie: mi diceva che non andava bene che lavorassi per gli altri ma per me non facessi nulla. Così ho inciso “Need”, un ep di cinque pezzi; è andato bene, per quello che era. C’era stata anche una bella collaborazione con Kee Marcello, chitarrista degli Europe, avevo fatto un po’ di date però la cosa è un po’ morta lì perché io lavoravo da produttore e non avevo più tutto questo tempo…

Poi c’è stato un altro incontro per te importantissimo…
E’ successo giusto nel periodo del disco. Max, che lavorava anche nel Booking, un giorno mi chiama e mi chiede se posso andare a Bologna a prendere un suo artista, perché lui era impegnato. Non mi dice chi sia ma io vado lo stesso, anche perché lui ormai era come un fratello per me. Arrivo a Bologna e mi trovo lì Richie Kotzen! Che io, essendo un grande fan dei Mr. Big e dei Poison, conoscevo perfettamente! Così lo prendo su e lo porto a Milano. Era in giro col suo tour acustico ed è finita che l’ho accompagnato anche in altre due date, facendogli un po’ da tour manager. Durante gli spostamenti in macchina gli ho fatto sentire il mio disco. Gli è piaciuto e mi ha chiesto di aprigli una data in Austria. È stata un’esperienza bellissima: la gente era lì ad ascoltare la musica e pensa che ci sono alcuni che non hanno ascoltato lui suonare per stare fuori con me a parlare del mio disco!
Tutto questo per dirti che a me interessava avere un minimo di tornaconto che quello che scrivevo avesse un valore anche per gli altri, non solo per me.
La cosa comunque è morta lì però con Richie è nata un’amicizia: ogni volta che veniva in Italia a suonare mi chiamava, mi invitava a sentirlo, mi dava i biglietti… una persona di un’umiltà incredibile, nonostante sia l’artista enorme che è. Addirittura, settimana scorsa sono stato a Los Angeles per il suo compleanno, pensa te!

Da “Need” al disco nuovo sono passati diversi anni: deduco che il tuo lavoro di produttore ti abbia assorbito nuovamente…
Esatto. Avevo lasciato cadere il tutto però gli altri me lo continuavano a dire: “Falla, un po’ di roba tua, non continuare a scrivere solo per gli altri!”. E così ho deciso che, a tempo perso, senza scadenze ed obiettivi, mi sarei messo a scrivere canzoni. A febbraio 2017 mi hanno mandato il contatto di Aaron Sterling, il batterista di John Mayer e di un sacco di altri artisti. Io gli ho scritto ma senza aspettarmi nulla di particolare. Invece dopo mezz’ora mi risponde e mi chiede di mandargli i pezzi. Io lo faccio, gli piacciono e decide che ci avrebbe suonato sopra! Mi dice di venire nel suo studio a Los Angeles a luglio: era febbraio per cui di tempo ne avevo. Ho lavorato parecchio, ho scritto tante cose però a due settimane dalla partenza ho realizzato che quello che avevo scritto non mi piaceva più! Avevo lavorato pensando di dover andare da lui quindi mi ero fatto eccessivamente condizionare, avevo fatto delle cose troppo simili a quelle che lui faceva di solito, ero stato poco spontaneo.

Quindi?
Ho sentito Kotzen, che è uno che se ti deve dire una cosa te la dice senza problemi. Parlando con lui, ho deciso di rifare tutto da capo, a due settimane dalla partenza! Mi sono messo lì con Jacopo Grazioli, il mio collaboratore, che è un musicista e un cantante con un talento fuori dal comune e nel giro di due settimane abbiamo riscritto tutto! Tra l’altro in quel periodo a Milano c’era stata un’alluvione, casa mia si era allagata tutta tranne lo studio. Per cui per due settimane abbiamo dormito per terra e lavorato ininterrottamente giorno e notte: ci sono anche le foto che documentano questa cosa (ride NDA)! 

Si tratta di un disco “leggero”, per certi versi, ma anche piuttosto malinconico; è innegabile che ci sia del tormento, del dolore, in questi brani…
La cosa strana della mia scrittura è che io se sono felice faccio fatica a scrivere mentre invece il dolore mi dà una lucidità incredibile. Quando sto male, quindi, al posto di cercare di stare bene, come farebbe una persona sana di mente, io cerco di rigirare il coltello nella piaga, di andare a fondo di questo dolore, in modo tale da poterci scrivere qualcosa di buono! Probabilmente quando stai male hai più domande, quindi questo aiuta. Quelle due settimane sono state un periodo particolarmente buio della mia vita per cui è probabile che la naturalezza con cui sono uscite potesse dipendere da quello. Anche i testi sono coerenti: sono sette pezzi e rispecchiano esattamente sette momenti di un rapporto con l’altra persona.

E il titolo “Queen of Colors” da dove viene fuori?
Esce da questa mia particolarità per cui i momenti con le altre persone, io li associo sempre a dei colori. Sentendo le canzoni, mi rendevo conto che sono per me sette colori diversi, non parlano solo dei rapporti ma sono proprio dei colori che io mi vedo davanti. Così una sera mi è venuta questa idea e ho deciso che il disco si sarebbe chiamato “Queen of Colors”. Ho scritto questo disco raccontando di una ragazza che non esisteva. In particolare questo pezzo, che è anche il pezzo più felice dei sette, quando l’ho riletto mi sono accorto che non mi era esattamente chiaro di che cosa parlasse, non mi tornava però aveva senso, era un’esperienza che mi corrispondeva. Solo più tardi sono riuscito ad associarlo ad un’esperienza reale, questa è un po’ la magia dello scrivere musica: a volte ti anticipa quel che vivrai!

Anche il video nasce da questo?
Sì, in realtà ne abbiamo fatti due, il secondo uscirà a breve. L’idea in effetti è stata quella di usare sempre la stessa ragazza e si collega a quello che ti ho appena raccontato.

Torniamo a Los Angeles, quindi…
Parto con i pezzi, piuttosto spaventato perché avevo paura che non gli piacessero. Arrivo in studio da Aaron, pensando che ci avremmo messo tre-quattro giorni e invece in quattro ore aveva finito!

Stai scherzando?
Ti giuro! Fai conto che sono arrivato alle 11, alle 13 abbiamo fatto pausa pranzo, poi abbiamo lavorato per un’altra ora… tre ore e mezza, più o meno! Tra l’altro, l’impressione che ho avuto è che lui il disco non l’avesse nemmeno ascoltato! Cioè, l’ha ascoltato la prima volta e poi ci ha suonato sopra. E quello che senti su disco è la prima take, è sempre la prima take, non c’è altro! Ha sentito la mia pre produzione, ci ha suonato sopra e in tre ore ha fatto tutto! Non sapevo cosa pensare, non ero proprio abituato a veder lavorare un mostro del genere… Poi è stato anche gentilissimo, mi ha detto: “Torna domani, riascoltiamo tutto con calma…” ma io volevo dirgli: “Cosa torno a fare?” (Risate NDA)

Ma quindi poi la produzione l’hai fatta tu, Aaron ha solo suonato…
Sì, certo! Una volta tornato in Italia, ho rifatto tutto tenendo buone le sue batterie. Tra l’altro il mio più grande problema, essendo io come produttore una testa dura, è che non tollero che mi si tocchino le produzioni. La mia più grande paura quindi era di trovarmi lì con lui e di dovergli dire che le cose che aveva fatto non mi piacevano. Per fortuna non è andata così!
E per rispondere alla prima parte della tua domanda: scrivere è un’attività imprescindibile, puoi tenere per anni le pagine in un cassetto, puoi fare un lavoro del tutto diverso, può mutare il linguaggio a seguito delle innovazioni tecnologiche ma è una necessità che nasce con l’uomo, ci sarà sempre. È per questo che credo che la scrittura interessi ancora oggi. Non so se ci sia o meno una crisi editoriale ma è evidente che la gente continua a scrivere, poco ma sicuro!

E cosa hai fatto, in tutti quei giorni che ti avanzavano?
Sono andato al Village e ho inciso dei pezzi in acustico da aggiungere dopo. Alla fine non li abbiamo messi ma è stata comunque una bella esperienza. Ho incontrato Nile Rodgers e Snoop Dog, entrambi molto tranquilli e umili, abbiamo chiacchierato piacevolmente. È un ambiente bellissimo, molto creativo. Nel frattempo mi aveva raggiunto Jamie, che ha fatto un po’ di riprese Back Stage del lavoro in studio, qualche shooting per il video clip, i trailer.

Una volta tornato a Milano, hai quindi inciso tutto…
Ci ho lavorato per tutta l’estate e poi ancora, fino a novembre. Ci hanno suonato sopra Ermanno Fabbri, Francesco Ravasio, due miei amici, musicisti bravissimi, che hanno creduto molto nel progetto e che sono stati importanti a livello di confronto e come sostegno, nei momenti più difficili. Poi due ragazze, Marina Ungarelli e Laura Santambrogio, che hanno fatto i cori…

E ci sono dei fiati, anche…
Sì, Dario Paini, che ho conosciuto anni fa, anche lui con un bellissimo curriculum. Io avrei voluto utilizzarlo su tutti i pezzi ma alla fine, ascoltando il disco insieme, ha deciso di fare due interventi e devo dire che valgono come se avesse suonato su tutti!

A sentire il lavoro finito, così semplice e lineare in apparenza, non verrebbe proprio da immaginarsi tutte queste difficoltà…
Il problema principale è stato il missaggio. Mi serviva qualcuno che capisse quello che volevo fare e sapevo che non sarebbe stato facile. Il disco ruota tutto attorno alle batterie, che hanno un suono da paura e io stesso, quando ho inciso le altre parti, ho dovuto tenere conto di questo. Con Ermanno e Francesco lo abbiamo suonato tutto da capo, proprio per non snaturare quelle batterie!  Ci voleva dunque qualcuno che non le toccasse, che mantenesse questa loro impronta particolare. Ho cercato per due mesi ma non ho trovato nessuno che fosse adatto. Tu pensa che un brano mi è tornato indietro che sembravano i Nickelback (Ride NDA)! Ti giuro che ero arrivato ad un punto tale che non volevo più fare uscire nulla! Mi ero detto: “Basta, lo tengo per me e fine della storia!”.

E poi?
Ho parlato con Alex Uhlmann, il cantante dei Planet Funk. Siamo molto amici e aveva seguito tutto il processo di lavorazione del disco. E lui, incredibilmente, mi ha detto: “Guarda, c’è questa persona, Cristian Milani, che abita davanti a casa tua…”. Vedi, quella finestra lì di fronte, l’ultimo piano (me la Indica NDA)… Mi ha detto che è uno molto bravo, che ha lavorato con loro, con Ermal Meta, con Carmen Consoli… quando mi ha fatto questi nomi ho intuito che potesse essere la persona giusta perché sono artisti che non c’entrano nulla l’uno con l’altro. Comunque ormai ero disperato, tanto valeva provare, no? Così lo chiamo, viene in studio, sente il disco e mi dice: “È ovvio che non hai ancora trovato nessuno che ti abbia fatto il lavoro: qui se tocchi le batterie cade tutto, le batterie non vanno missate!”. Finalmente qualcuno che ha capito al volo (ride NDA)!

Quindi alla fine hai lavorato con lui?
Certo, credo che il 50% del disco come lo senti ora, sia merito suo! È un genio ma ha anche una passione incredibile! Alla fine ero arrivato io a non poterne più ma lui andava avanti! Ha fatto anche qualche piccolo ritocco nella struttura di un paio di pezzi che ha dato loro proprio tutta un’altra intenzione. Le classiche mosse per cui o lo mandi affanculo o gli dici: “Sei un genio!” (Ride NDA) Ad un certo punto, non dico che non mi interessasse più quello che avevo scritto ma ero ossessionato dai suoni: quello che volevo dire, lo volevo dire con certi suoni e sono contento alla fine di esserci riuscito!

E ora, che succederà?
Il disco uscirà a giugno. Poi il video di “I’ll Let You Down” e partiremo per qualche data di promozione, tra cui due aperture in occasione di due date del tour mondiale di Kotzen!

Con chi uscirai?
L’editore è Red Music, con Giuliano Saglia siamo amici e di lui mi fido ciecamente. A livello di etichetta vedremo. Ti dirò che lavorando con altri, non ho tutto questo tempo di seguire il processo di pubblicazione. In più, per me l’importante è stato farlo, il disco. È stata una cosa bellissima lavorarci, per i rapporti che si sono creati, per l’esperienza che è stata. Non ho tutte queste aspettative a livello di vendite… voglio vedere naturalmente che corso avrà, voglio vedere un riscontro reale…

So che sei molto legato a John Mayer, un’influenza che si sente molto ascoltando questi brani
La cosa che ho capito è che fare musica in modo sincero è davvero una forma di amicizia nei confronti della gente. E uno come John Mayer mi ha letteralmente salvato la vita. Ci sono stati dei momenti in cui ha cantato talmente bene quello che provavo, che l’ho sentito davvero più amico dei miei amici! Io sapevo che lui raccontava certe cose di sé, dopo averle vissute. Sapevo che anche lui era stato male come me ma ci era uscito. Quindi sapevo che avrei potuto farcela anch’io. Era come parlare con un amico, per me. Anzi, ti dirò che forse la mossa stessa per fare il disco, la decisone definitiva, mi è venuta proprio da lui: la notte che è uscito il suo disco, ero appena tornato da una serata col cast di “Tiro Libero”, un film di cui avevo scritto la colonna sonora. Mi metto a letto con le cuffie e parte questo pezzo che si chiama “In The Blood”. Un brano semplicissimo, un giro di Sol, ma probabilmente uno dei più belli che lui abbia mai scritto. Appena l’ho sentito, proprio la prima volta, sono scoppiato a piangere! Ma proprio disperato, eh! Perché lui ha questa cosa qui, di saper raccontare esattamente quello che io sto vivendo nella mia vita. È l’unico che è in grado di fare questo. Per cui io, quando lo sento, davvero sento uno che parla di me. Lo stesso sarà per questo disco: sono stato sincero, nel farlo, ho messo dentro tutto me stesso. Non mi interessa avere migliaia di visualizzazioni su YouTube, voglio solo che ci sia gente che lo possa apprezzare veramente, non importa quanti sono.

Si sente che è un disco molto sincero. Ma quanto in realtà è stato difficile, trovare lo stile che volevi, il codice più adatto per comunicare?
La scrittura mi è venuta molto spontanea. Però è anche vero che sui miei pezzi ci lavoro in continuazione, non sono mai soddisfatto. Addirittura, qualche giorno prima di trovarmi con Cristian per missare, ho preso l’ultimo brano e ho cambiato completamente la linea vocale, riscrivendo daccapo il testo!

Come mai?
Mi ero reso conto che non diceva davvero quello che volevo dire. Parlava di una cosa che era successa ma non la raccontava nel modo esatto in cui era successa. E quindi, se l’avessi cantata così, mi sarebbe sembrato di barare e mi sarei anche stancato presto di suonarla dal vivo. Tu la gente non la puoi fregare: se canti una cosa e non ci credi, se ne accorgono anche gli altri! Sai, quando canto un pezzo come “I’llLet You Down”, io piango ancora adesso! Perché è il momento più tragico di un rapporto, quando capisci che, qualunque cosa tu faccia, l’altro ti deluderà comunque. Questa è una cosa vera, una cosa che sento e quindi riaccade in continuazione quando la canto.

Tu sei principalmente un chitarrista però hai anche sempre cantato i tuoi pezzi. Che rapporto hai con la tua voce?
In realtà su questo disco non volevo cantare io. Jacopo è molto più bravo di me e avrei davvero voluto che lo facesse lui. Abbiamo fatto un po’ di prove ed effettivamente, dal punto di vista tecnico, il risultato era nettamente migliore. Però, e se ne è reso conto anche lui, non era credibile. Sono pezzi semplici, dal punto di vista vocale, ma non è quello: è che è roba talmente personale che cantata da un altro, per quanto bravissimo, non avrebbe avuto nessun senso. Per cui, piaccia o no, ho deciso di farlo io…

In effetti è vero. È un lavoro molto personale. Si ha proprio l’impressione che l’autore ti voglia comunicare direttamente in prima persona la propria esperienza. È un disco colloquiale, quasi. È un disco semplice, da un certo punto di vista, ma non è facile entrarci, direi.
Sono d’accordo e sono contento che tu abbia avuto questa impressione. Ti dirò che molte volte, quando scrivo, dico delle cose e solo in un secondo momento penso a quello che ho detto. A volte nasce subito un testo, altre volte invece c’è bisogno di tempo, di anni, in certi casi. “London Farewell”, ad esempio, si basa su un’idea, che Londra renda più difficile gli addii. Era una situazione che avevo davvero vissuto, un’immagine che per me era vera, perché Londra la trovo una città triste e quindi rende ancora più triste il doversi separare. Quando è nata la canzone, mi è tornato fuori quel verso e ho capito che era il momento giusto per usarlo, all’interno di un pezzo che, guarda caso, avevo chiamato “London Farewell”, senza nemmeno pensarci!

La copertina non c’è ancora ma magari qualcosa mi puoi già dire…
Tutta la grafica è stata creata da Matteo Sardina, mio amico musicista e grafico pazzesco che ha suonato con me durante le date di “Need” e che è una persona altrettanto importante per la riuscita di questo lavoro. Gli è venuta questa idea di creare una confezione che riproduca un telegramma, chiuso dal filo rosso che si vede nel video di “In My Head”; un telegramma vero, con francobolli e tutto, volendo lo si può anche spedire! Lo apri e dentro c’è il cd, fatto però a vinile e al posto del booklet c’è una lettera, con dentro tutti i testi. E di fianco ai credits e ai ringraziamenti c’è un disegno, che ha fatto mio fratello (un altro grafico bravissimo) di una donna senza un volto. Questo perché la persona di cui parlo non esiste davvero ma allo stesso tempo è reale, ognuno può metterci il volto che crede. Decidi tu chi è, se la tua ragazza, tua madre. Potrebbe anche non essere una donna ma semplicemente un’altra persona con cui ti rapporti. E il tutto sarà in bianco e nero…

Che è un paradosso, no? Fai un disco che si chiama “Queen of Colors” e ci metti una copertina in bianco e nero…
È lo stesso principio della donna senza volto: quello che rende felice te può essere diverso da quello che rende felice me, la stessa cosa vale per i colori.

Un’altra cosa che mi verrebbe da chiederti, anche se mi pare che un po’ tu abbia risposto, è: perché solo sette pezzi? È vero che oggi, con tutta la saturazione di proposte che stiamo vivendo, si ha sempre più bisogno di dischi brevi. Però forse così è esagerato, no? Voglio dire, alla fine non è neanche mezz’ora di materiale…
Ci sono due ragioni, essenzialmente. La prima è di senso: in quelle due settimane con Jacopo abbiamo scritto più di sette pezzi. Alcuni erano anche più belli e probabilmente usciranno dopo ma non entravano nel discorso generale che volevo fare. Sono affezionato all’idea dell’album come collezione di canzoni che abbia però anche una coesione interna. Per cui ho voluto che ci fosse proprio la storia di un percorso, indipendentemente da quale pezzo fosse meglio degli altri. Avrei potuto anche fare una raccolta di singoli ma non mi avrebbe soddisfatto, non l’avrei mai sentito mio! Il secondo motivo invece, come dici tu, è una questione di accessibilità: io stesso, quando escono dischi di artisti che mi piacciono, dischi che ho aspettato magari anche due anni e vedo che hanno dentro quindici pezzi, dico: “Ma perché? Dove la trovo un’ora e un quarto per ascoltare tutto?”. E magari la voglio anche trovare! E magari sto pure alzato tutta la notte! Però, ugualmente, capisco che è scomodo, che non è un’opzione facilmente praticabile. Lo stesso John Mayer ha fatto uscire il suo ultimo disco a tranche di quattro brani alla volta. Poi non sono legato ad una Major, non ho l’obiettivo di vendere il più possibile, non sono obbligato a fare singoli di successo, quindi cosa me ne frega?

So che recentemente sei stato in Africa per un breve periodo assieme a Manuel di Machete Dischi…
Beh, io in Africa ci ho vissuto fino a tredici anni, perché mio padre faceva il medico in Uganda. Quando ti capita di partire così presto, così giovane, non capisci le dinamiche delle cose che avvengono là. Certo, hai il cosiddetto “mal d’Africa”, hai interiorizzato perfettamente il modo in cui si vive lì, per te è assolutamente normale ma in realtà non è così! Per me essere felice voleva dire stare lì, per cui tornato in Italia, non capivo davvero cosa fosse accaduto. Sapevo semplicemente che là ero felice e qui no. Ma non sono andato giù per una questione nostalgica. Sono andato giù perché avevo quest’occasione, assieme a questo mio amico musicista, di andare a scoprire, grazie ad un altro amico che sta lì da anni, cosa vuol dire vivere lì adesso. Ho fatto finta che non ci ero mai stato prima, mi sono fidato di lui e sono stato a vedere che cosa sarebbe successo. La cosa veramente bella, che ho capito lì, è che le sfighe dell’Africa le sanno tutti e non ce ne frega nulla. Sono poveri? Non hanno da mangiare? Lo sappiamo! Ma noi lì non abbiamo visto le sfighe dell’Africa, abbiamo visto la sua speranza! Una speranza che non è data dai soldi, dalle cose, ma da come vivono queste persone che stanno lì. Gliel’ho detto al mio amico, prima di andare via: “Come vivete voi qui, è straordinario. In Italia sarebbe straordinario già vivere un giorno solo come lo vivete voi. Adesso ho capito che è alla mia portata, che lo posso fare anch’io, perché dipende da come mi pongo io di fronte alla vita!”. Quando sono venuto via da piccolo ero disperato. Adesso invece non vedevo l’ora di venire via perché ho capito che anche in Italia avrei potuto vivere così! Sono tornato ed è cambiato tutto! La cosa interessante è che ho riascoltato il disco alla luce di quell’esperienza e mi sono accorto che avevo la modalità per stare di fronte alle cose che raccontavo in quelle canzoni. Ero ancora più contento del lavoro, insomma!

Questo in effetti è quello che accade con le tue canzoni: canzoni che parlano della vita  e nello stesso tempo parlano alla vita…
È vero: un  brano come “I’llLet You Down”mentre la cantavo, mentre la scrivevo, stavo davvero morendo! Però allo stesso tempo, mi rendevo conto che cantarla mandava via quella cosa lì. Era un modo per buttarla fuori. E quindi mi è venuto in mente che la cosa più importante è la condivisione. Basterebbe che una sola persona che non sa scrivere, sentisse una di queste canzoni, ci trovasse qualcosa di suo, e ne sarebbe valsa la pena!

Prima hai detto che ti interessa poco vendere o non vendere dischi. Ciò non toglie che questo, dal punto di vista di chi fa il tuo lavoro, non è un periodo semplice. Come la vedi?
La situazione dal punto di vista discografico è la stessa ovunque. I dischi non si vendono più anche in America, a meno che tu non sia Ed Sheeran. Quello che fa la differenza è il ragionamento che sta dietro. Ok, questa cosa non ha più mercato: non la facciamo più oppure è una cosa che mi fa felice e la faccio lo stesso? Poi è chiaro che c’è tutto un discorso di sostenibilità, perché bisogna vedere se te lo puoi permettere o meno. Però, penso ad esempio agli Alter Bridge: loro hanno fatto successo in un periodo in cui il rock era morto e adesso fanno gli stadi! Il problema della musica è che non è presa abbastanza sul serio. Quando ho deciso che avrei voluto fare musica non sapevo, nel concreto che cosa avrei voluto fare ma ero certo che avrei voluto prendere quella strada. Esattamente come mio padre, quando ha deciso che avrebbe voluto fare il medico, no? Perché quella roba lì mi rendeva felice! Allora, se io avessi fatto un altro lavoro e non fossi stato felice, che credibilità avrei potuto avere? Che sostegno sarei potuto essere, per le persone che mi avessero incontrato? Ecco, invece ora la musica viene vista più come una scorciatoia (come se poi fosse facile!): tutta questa moda del rap, ora della trap, che è caratterizzata da una totale mancanza di contenuto, sia testuale che melodico. La maggior parte della roba che esce è a livello di jingle. Sono cose super catchy ma che poi non vogliono dire nulla. E non parlo solo dell’Italia, eh! La hit che è esplosa in America dice: “Mi sono trovato il cazzo nei pantaloni, uh!”. E ha vinto tre dischi di platino! È un usa e getta, un passatempo. È diventata come la palestra: fai l’abbonamento ad un prezzo super scontato e ci vai ma non perché ne capisci il valore, non perché sai che così fai bene al tuo corpo. Vai perché… boh! Perché va di moda, perché ci vanno tutti! La musica è uguale: la gente non capisce che è una cosa importante. Per me è importante come un qualunque lavoro fatto bene. Qualunque lavoro! Dal professore, al medico, al bidello! Le cose le cambi se le fai bene!

Mi impressiona perché in questo tuo percorso sei stato sempre in buona compagnia. Stupisce vedere quante persone umili ci siano nel mondo della musica…
Beh, non è che siano tutti umili, eh! Los Angeles è una città dove è tutto finto. Ti fanno credere che tutto è possibile, però alla fine sono due su mille quelli che ce la fanno davvero! Semplicemente, io ho avuto la fortuna di incontrare uno come Richie Kotzen, che è un musicista umilissimo ma io penso che chi è veramente umile è perché ha capito che l’unica cosa che ha fatto nella vita è di essere onesto con il dono che aveva ricevuto, con il proprio talento. Ecco, io in Kotzen ho visto uno così. Uno onesto con se stesso, con il suo talento. Tanto che, senza fare nessun tipo di calcolo, ha avuto i momenti in cui suonava davanti a cento persone e quelli in cui faceva gli stadi.

Qui le cose sono poi così diverse? Oggi va tanto di moda il Rap…
Beh, il rap promuove più una politica di soldi, di roba, dove l’importante è arricchirsi, fare successo. Però anche qui non è sempre così. Uno come Nitro, per esempio, è diverso. È un ragazzo giovane che ama fare quello che fa ed è umilissimo. Il mio amico Dario, che conosce molto bene Jovanotti, mi ha detto che anche lui è così. Oppure Alex dei Planet Funk: è una persona semplicissima e ha un’amore per la musica incredibile! Sai, io penso che, in definitiva, la differenza la fa chi ha capito che questo lavoro non è una scorciatoia ma una strada: chi ha capito questo, chi vive la musica davvero come una strada, allora può riuscire ad essere veramente grande.

Ma è tutto un bluff, quindi, questa cosa del rap e della trap? Perché da più parti si sente dire che è positivo, perché i giovani hanno trovato finalmente il loro linguaggio, un mezzo espressivo nel quale identificarsi. E ti dirò che anch’io, pur essendo su altri lidi musicali, alcune cose le trovo interessanti…
Nel rap ci sono senza dubbio degli aspetti che mi preoccupano. C’è tutta una generazione, ad esempio, che sta venendo su senza neppure sapere l’italiano! Perché va bene dire che hanno il tuo linguaggio, però diamo anche il valore giusto alle cose! Quello non è italiano! Se in una canzone ci sono nove bestemmie, sette verbi sbagliati, nessun contenuto, allora mi viene da dire che sì, avrà pure un valore ma in fondo qual è? Cosa rimane? È come la palestra. Una palestra senza un trainer, no? Tutto usa e getta! Poi non è neanche così difficile da fare. Non sto sminuendo, devi comunque saper usare quelle cose che usi però è innegabile che sia un qualcosa di molto più accessibile di prima! Voglio dire, il produttore di uno degli ultimi singoli di Salmo ha sedici anni! È bravo, assolutamente, però la giovane età ti dice molto. Dall’altro lato però, anche grazie ai Social, è tutto più trasparente: sai, le Views non è che le puoi falsare più di tanto! Se la gente va ai live di Ghali è perché piace Ghali, non perché abbia ricevuto chissà quale campagna di marketing! Tutti i rapper degli ultimi anni è venuta su dal nulla con enormi sacrifici e dedizione, gente arrivata dal basso: Ghali, Tedua, Salmo, Nitro… al punto che oggi si è invertito il fenomeno. Sono le radio che sono costrette a passare loro perché la gente li vuole sentire, non il contrario! Poi, a livello di gusti, io preferisco chi dà dei contenuti, chi racconta se stesso. E da questo punto di vista, la trap (ammesso che sia un genere) spesso non ha contenuto, ha più a che fare con la melodia. Quindi, sapendo che è così, non ha neanche troppo senso lamentarsi.

Ma le giovani generazioni sono poi così tanto peggiori di quelle precedenti?
Il problema principale dei ragazzi di oggi è che non hanno educatori. La musica è diventata un business, che poi va anche bene, bisogna anche vendere. Però, in un mondo dove c’è un’evidente crisi di valori, dove i ragazzi sono poco educati, è normale che chi fa musica tenda a riflettere questi aspetti e quindi scriva cose senza contenuti che rispecchiano la gente che ha davanti. C’entra anche la scuola: io stesso, che non sono mai stato uno che studiava, riconosco che la cosa che mi ha aiutato di più è stata trovare insegnanti che fossero anche educatori, che mi hanno aiutato a capire che strada volevo percorrere, a prenderla sul serio. È inutile lamentarsi del fatto che in giro c’è solo musica di merda: le radio passano esattamente quello che vuole la maggior parte della gente, non è che se lo inventano loro! Oggi è tutto molto più democratico, ci sono molti più canali, la gente ha la possibilità di ascoltare davvero quello che vuole ascoltare!

È un problema di responsabilità di chi con la musica ci lavora, quindi?
Io penso di sì: oggi nessuno vuole responsabilità ma se questo cambiasse, probabilmente ci sarebbe molta meno musica di merda in giro! È come operare, no? Se sei un medico e operi male, il paziente muore. Se devi pulire un cesso e lo fai male, la gente ci trova dentro la merda. Se sei un musicista e non sei vero ma sei consapevole che un sacco di gente ti ascolta, fai dei disastri. Basta vedere in questo periodo in America: c’è un boom di vendita di Xanax e farmaci di questo tipo e molti artisti, senza nessun problema, inneggiano a quello e non si rendono conto dei danni che fanno! Se tutti, non solo i musicisti, si assumessero più responsabilità nelle cose che fanno e nei rispettivi lavori sarebbe sicuramente un mondo migliore immediatamente.