Articolo di Andrea Furlan
Che anche per John Hiatt fosse giunto il momento di tirare le somme della propria vita e trarne un bilancio, lo avevamo già notato in Terms Of My Surrender (2014) quando ironizzava sulla possibilità di una resa e affrontava persino il tema della vecchiaia (Old People) stigmatizzandone le manie in un riuscito quadretto. In sostanza, diceva, gli anziani hanno fretta perché la vita è breve, non è mai comoda, e quando tutto sta per finire non c’è più tempo da perdere. Adesso, a sessantasei anni compiuti da poco, si spinge oltre: “avevo parole, accordi e archi, adesso non ho più niente di tutto ciò (Robber’s Highway)”. A tutti gli effetti questa sì sembrerebbe una resa, la serena ammissione di essere al capolinea, ma, sulla scorta di quanto ci è dato ascoltare, probabilmente è solo il modo di esorcizzare i fantasmi del tempo che passa. L’età matura porta saggezza e con essa l’accettazione di una fase della vita che invece ha ancora diverse carte da giocare.
The Eclipse Sessions è il ventitreesimo album di una carriera prolifica che a cadenze regolari ha sempre saputo produrre lavori quantomeno di buon livello se non capolavori assoluti (Bring The Family, 1987, e Slow Turning, 1988), gioielli di scrittura folk (Crossing Muddy Waters, 2000) o lunghe cavalcate southern oriented (Master Of Disaster, 2005). Messi da parte Kevin Shirley e Doug Lacio che avevano prodotto la solida tripletta di dischi antecedenti, ora Hiatt si affida alla consolle di Kevin McKendree (per alcuni anni con Delbert McClinton) e ai “soliti” Kenneth Blevins (batteria) e Patrick O’Hearne (bass), un combo cui si aggiungono le tastiere dello stesso McKendree e la chitarra elettrica del figlio Yates McKendree.
Il disco, registrato nei giorni a cavallo dell’eclissi solare del 21 agosto 2017, ha preso forma non tanto da un piano ben preciso, come dichiarato in una recente intervista, quanto piuttosto dall’intenzione di catturare il momento, buona la prima, e vedere cosa sarebbe successo. Ne è scaturita una manciata di brani, in buona parte elettroacustici, che alternano ballate dai toni chiaroscurali e riflessivi a scattanti guizzi di attitudine marcatamente roots rock. Nel complesso la produzione privilegia senza enfatizzarli i suoni puliti ed essenziali del trio, abbelliti dall’organo quasi sempre di sottofondo e i precisi interventi della chitarra solista dell’appena quindicenne Yates (una scoperta interessante, da tenere d’occhio nei suoi futuri sviluppi).
A funzionare sono soprattutto le canzoni, Hiatt è scrittore di classe e in ogni disco, anche negli episodi “minori”, infila almeno un paio di pezzi che lasciano il segno. Qui è il caso della splendida All The Way To The River, da accreditare alle sue pagine migliori, della ritmata Over The Hill, non a caso scelta come singolo, o l’incalzante Poor Imitation Of God. Lo stesso vale per l’intensità emotiva delle malinconiche introspezioni di Aces Up Your Sleeve e Robber’s Highway con l’acustica di Hiatt in bella evidenza e il timbro ancora caldo e rotondo della voce. È proprio la voce che non convince del tutto, quando il mestiere non riesce a mascherarne i limiti, è arrochita, come nel caso di Nothing In My Heart o addirittura fatica a raggiungere le note alte come in Outrunning My Soul prendendo troppi rischi. La potenza e l’estensione non sono più quelle degli anni d’oro quando ci estasiava con un vocione soul grintoso e vellutato: il paragone ad esempio con le escursioni di Bring The Family è ovviamente impietoso, ma in un certo senso è lo scotto che Hiatt è costretto a pagare per aver raggiunto vette irripetibili.
Pur con i suoi limiti, The Eclipse Sessions è un lavoro godibile e riuscito, se non altro per l’onestà con cui il cantautore di Indianapolis continua a proporsi senza maschera, anzi facendo delle proprie debolezze un punto di forza.
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