L I V E – R E P O R T


Articolo di Olivia Gazzarrini, immagini sonore di Davide Santi

Naïssam Jalal fa il suo ingresso sul palco del Parc di Firenze presentando il suo trio con un filo di voce e un volto irradiante. Flautista, cantante, compositrice franco-siriana è in tour in Italia con il suo trio formato dal pianista brasiliano Leonardo Montana e il fenomenale contrabbassista franco-armeno Claude Tchamitchian. Una trascendentale estetica di pace sarà il respiro di tutta la serata. La voce assente ha intensificato il trasporto artistico e arricchito il suono dello strumento di sofferenza. Il suono graffiato ed ancestrale evoca versi di uccelli, di un linguggio codificato dagli abitanti delle foreste tropicali, amplificato dall’alternanza con il flauto di bambù dalla vibrazione magica.

Il primo pezzo si chiama La notte (Al leil) che nella cultura araba simboleggia la delicatezza femminile e il mistero. La seconda composizione, Il Gatto delle Nuvole, parte con un pianoforte dolce su una base ritmica di basso che accoglie e carica il flauto in una ritmica incalzante che ci conduce in trance. Il passaggio da una zona iniziale di calma, di suoni essenziali e primordiali ad una progressiva crescita degli ordini sonori, fino ad una caduta libera in una estasi complessa, semi terrena e semi celeste, sarà la caratterizzazione della maggior parte delle composizioni di Naïssam Jalal, tratte dal suo ultimo lavoro Quest of the Invisible, che in Francia si è aggiudicato il premio “Victoire du Jazz”, il più alto dei riconoscimenti per la musica jazz. Le riflessioni sulla genesi dei pezzi alla fine di ogni esecuzione sono un completamento di un puzzle in cui vengono separati in volo e ricomposti nella fase improvvisa e breve di atterraggio, quando la canzone si chiude in un istante terreno. Trovo anche questo espediente geniale. La benedizione e la maledizione (o forse “incantesimo” per la parola inglese “curse”) sono l’antitetico dilemma dell’esistenza umana, la seconda quando ci avviciniamo sempre più alla morte e allo stesso tempo di benedizione, in quanto abbiamo la possibilità di diventare la persona che abbiamo sempre desiderato ed ambito ad essere. Il brano è un sofferente crescendo di attraversamento del crepuscolo, tra i rumori temerari della notte fino ad un salto nella luce dell’eternità.

Mentre immaginiamo e diamo forma nelle nostre menti a quella voce “perduta”, segue Social Mean Dream, dove il suono del basso viene prodotto con l’archetto e le cui frequenze dipingono paesaggi onirici di più mondi, stati emotivi che si sovrappongono in una danza di fanciulli e anime oltre il bardo, entrate nell’eternità del suono senza fine. Il flauto riempie lo spazio creato e il piano scandisce delicato la ripetizione di una delicata singola nota, per tessere latitudini di culture straordinarie ed antichissime e riappacificarne il karma di guerre secolari. “L’anima del viaggiatore” significa metamorfosi e ribaltamento, ovvero il diventare straniero nell’ incontrare qualcun’altro e nell’attimo in cui cominci ad interrogarti e dubitare su tutto quello che conosci e fin’ora hai creduto di sapere, la compassione per gli “altri” inizia ad abitarti. In definitiva le nostre società respingono perché noi non siamo più viaggiatori. Invece con loro il viaggio, scandito dal suono ipnotico del basso, continua in una cavalcata nel non sapere e un avventurarsi nell’incongnito sentiero non battuto e alla scoperta dell’estraneo. Ancora desidereremmo che la voce le uscisse magicamente da una gola rinsavita perché il suono del flauto ci ha suggestionato e accresciuto la certezza che ne saremmo rimasti incantati. Il concerto si chiude con una composizione chiamata Drunken cioè ubriaco non di alcol ma di amore con il divino e un “ancor piece” di improvvisazione dove il basso si trasforma in un fiato, esattamente in un Didgeridoo il cui suono circolare, come il ciclo di nascita e morte infinito, ci infonde e ci congeda con quel senso di pace, di ritualità, di cura e di connessione con la Madre Terra.