C I N E M A


Articolo di Barbara Guidotti

Quando, negli anni’60, Walter Vismara (l’attore Alberto Paradossi) – timido ragioniere di Vigevano – è costretto per ragioni di lavoro a trasferirsi a Milano, si trova a fare i conti con una realtà che lo sfida a misurarsi con nuovi rapporti, uno sport che non conosce, e con aspetti di se stesso ancora inediti e non sempre gradevoli.
Costretto a calarsi nel ruolo di portiere di calcio, passione del titolare della ditta (il Tosetti interpretato da Giovanni Storti), imparerà a mettersi – letteralmente – in gioco grazie all’aiuto di un ex campione in disarmo (un Marcorè tenero e dolente), scontrandosi con tutte le difficoltà del vivere da “straniero” in un mondo competitivo la cui ostilità è a tratti temperata dagli affetti familiari e dal miraggio di un amore destinato a naufragare nell’incomprensione.
L’opera prima di Neri Marcorè, ispirata a “Zamora” del giornalista sportivo Giovanni Perrone, scomparso nel 2023, rispecchia la grazia di un artista eclettico e sensibile che ha messo sulla scena una storia di formazione profonda e densa di una malinconica consapevolezza, nel corso della quale vediamo il protagonista cambiare sotto i nostri occhi, apprendendo dai propri errori – a volte irreparabili – per approdare ad una versione di se stesso meno giudicante e più matura, aperta al confronto con l’altro.

Ma il cambiamento investe in effetti tutti i personaggi che fanno parte del sistema di relazioni in cui Walter “Zamora” Vismara si inserisce, come una sorta di catalizzatore; un sistema in cui spiccano figure femminili la cui modernità non solo echeggia lo spirito del ’68, ma rispecchia la dichiarata ammirazione dell’autore per il coraggio e la forza delle donne nell’affrontare le delusioni, le scelte e gli ostacoli della vita di ogni giorno disegnandosi un ruolo autonomo nel mondo.
Nella partita che segna il riscatto di Walter dal proprio senso di inadeguatezza anche umana, si manifesta la metafora che sta nel sottotesto di tutta la storia, quella sfida che la vita rappresenta e dalla quale non sempre si esce vincenti, ma con la consapevolezza che comunque ci possono essere altre strade, altre scelte, altri incontri che ci attendono.
Quando la proiezione finisce e le luci in sala si accendono, mentre nell’aria ancora risuonano gli echi di una colonna sonora nostalgica che scandisce con accuratezza gli stati d’animo e le emozioni vissute dal protagonista (due soli i brani inediti, di Pacifico, che si aggiungono a brani storici di Nada, Morandi, Bindi e Gaber), ci vuole qualche istante per tornare al presente, uscendo dalle atmosfere di una Milano d’epoca che oggi sopravvive negli arredi e nelle atmosfere di certi locali vintage.

Nell’incontro “a latere” con il regista, quando Marcorè inizia a parlare, lo fa con quella grazia che da sempre lo caratterizza e si rispecchia nel suo modo tutto personale di esprimersi artisticamente, che canti, reciti o – come in questo caso – diriga un cast.
L’ammissione dell’identificazione col protagonista, nell’esperienza di migrante dalla provincia (Porto Sant’Elpidio) alla città, gli aneddoti relativi al casting e alla realizzazione del film, la dichiarata ammirazione per l’universo femminile che si esprime nella cura con cui sono rappresentati – tra gli altri – i personaggi per nulla scontati della sorella, della madre e della collega di Walter (rispettivamente Anna Ferraioli Ravel, Pia Lanciotti e Marta Gastini), si snodano nel corso di un’intervista che trasmette il senso di profonda autenticità di un artista che sa mettersi  in gioco con umiltà e coraggio.
Un “debutto” che lascia la piacevole sensazione che ci siano ancora belle storie da raccontare, e che quelle migliori non richiedano grandi mezzi o invenzioni, perché parlano di persone, sentimenti, vittorie e sconfitte, cadute e riscatti.

Parlano di noi.