R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Bisogna risolvere preventivamente qualche problema concettuale, quando parliamo degli svedesi Fire! Si tratta di un trio che non ha niente da spartire con ciò che viene chiamato comunemente jazz nordico. Innanzitutto per il tipo di formazione. Un basso elettrico, una batteria e un sax baritono, rispettivamente suonati da Johan Berthling, Andreas Werliin e Mats Gustaffson. Niente riferimenti classici, vade retro pianoforte, romanticismi non pervenuti, spiriti di Natura allontanati da stregoneschi esorcismi. Un trio di questo tipo porta alla memoria i Morphine degli anni ’90 ma rispetto alla band americana, i Fire! sembrano caduti nell’Ade con l’intenzione di non voler saperne di risalire in superficie. Comunque c’è dell’altro. Se non conoscessimo il passato di questa formazione – otto album alle spalle a partire dal 2009, compreso l’ultimo di cui ora ci occupiamo,e quasi altrettanti lavori sotto il nome e la misura di Fire! Orchestra – sarebbe arduo dover recensire un’opera come questo Testament. Bisognerebbe chiedersi il perché di una scelta votata al primitivismo, che non significa necessariamente elementarità, ma qualcosa che va ben oltre, come vedremo, rispetto all’idea dell’essenziale. Tre strumenti registrati senza sovra-incisioni, senza ospitate varie né tanto meno effetti elettronici aggiunti. Chiusi in studio a Chicago con quel pazzoide di Steve Albini – famoso soprattutto per essere intervenuto, tra l’altro, nelle produzioni rock dei Nirvana e dei Pixies – che ne ha curato la registrazione.

L’album che ne è scaturito è quanto di più coinciso e minimale si sarebbe potuto ottenere, una forma scheletrica, quindi, scarnificata ad oltranza. Il sax di Gustaffson, dalla voce cavernosa ed aspra, si limita a giostrarsi tra un numero di note che non supera o quasi le dita di una mano. Il resto sono sbuffi, ruggiti, minacciosi gorgoglii faringei, ma anche note delicate, malinconiche e solitarie come lamenti di un’anima tormentata, frammisti ad una ritmica implacabile che sembra marciare con ineluttabile rassegnazione verso il fondo dell’Averno. Se paragoniamo Testament con i lavori precedenti, non dico della Fire! Orchestra ma anche solo degli stessi Fire!, la scelta volontariamente regressiva pare evidente. Come se il trio avesse voluto non solo puntare su una interpretazione massivamente intensa – tutte le loro performance lo sono!! – ma lavorare sui potenti chiaroscuri che si creano giocoforza nel contrasto tra il soffio del baritono e gli elementi del ritmo, isolati nella luce livida di un immediato e obbligato rapporto prossemico. Così emerge una strana, arcana bellezza nascosta nel doppio fondo di questa musica fatta di passaggi inventati all’impronta nella miglior tradizione avant-jazz, con un pensiero costante rivolto alla libertà espressiva e a quanto di più anticonvenzionale vi possa essere rispetto al sistema armonico tradizionale. Chiaro è che questo trio non ha intenzione di trasmettere una stordente gioia di vivere o forse sì, attraverso però le maglie di una reazione ad un mondo che pare chiudersi su sé stesso in chiave apocalittica. Una resistenza ad oltranza, una dichiarazione di disincanto attraverso le macchie vibranti dei suoni nello svolgersi di un insieme di ballate nere come la pece. Se non c’è nulla da nascondere significa pure che non c’è niente da svelare, niente di più di quanto non si sia già mostrato con la sovra-stimolazione sensoriale innescata da questa musica.

Work Song for a Scattered Past, primo brano a presentarsi alla nostra attenzione, ha l’aspetto di una filastrocca musicale circolare. Una frase semplice di basso si ripete invariata per tutta la durata del pezzo e viene puntellata dalla batteria da Werliin che invece prende quota via via, dimostrando peraltro gran tecnica e cuore generoso. Su tutti aleggia il barrito del sax che lotta con sé stesso nel tentativo di raschiare il fondo della sua sorgente sonora. Una monocromia lentamente si modella sulla base ritmica con l’aspetto di una dance macabre, come una minacciosa processione a passo di marcia. The Dark Inside a Cabbage, titolo quanto mai enigmatico, mi ricorda la famosa tortura della goccia che i giapponesi praticavano sui prigionieri americani. Niente di truculento, per carità, ma sulla testa del soldato veniva fatta cadere una goccia d’acqua ad intervalli regolari, per giorni e giorni. I prigionieri impazzivano, tra una e l’altra, chiedendosi quando sarebbe arrivata la prossima, mentre lo scorrere del tempo si riduceva a un’attesa ossessiva senza risoluzione. Il passo ritmico è qui monolitico, granitico, con la batteria che si appiattisce sulla linea elementare di Berthling. Gustaffson interviene, prima dolcemente, sussurrando il suo malessere con il sax che cerca di armonizzarsi insieme al basso, allontanandosi spesso di un semitono sotto la linea di galleggiamento. Poi i soffi sembrano quelli della sirena di una nave smarrita nella nebbia, che cerca disperatamente di arrivare in porto senza schiantarsi sul molo. I saliscendi dinamici del baritono vengono sottolineati dall’incedere più sostenuto della batteria che si avvale persino di un’isolata rullata – una di numero – di tamburi. A leggere questo brano con la dovuta distanza, potremmo addirittura pensarlo come un inquietante, bizzarro blues che racconti la marcescenza del desiderio, una coazione sisifea a trascinare un massiccio peso pur non riuscendo a liberarsene mai.

Four Ways of Dealing With One Way è a mio sindacabile giudizio, insieme alla traccia che seguirà, il brano migliore, di gran lunga, rispetto al resto dell’album. L’introduzione di batteria non fa capire bene quale sarà la futura direzione. Ma il basso pizzica un’unica nota che funge da tonica per il dolente lamento esistenziale del sax. La traccia sembra alludere ad una solitudine senza fine ma con la rabbia inconscia sulle spalle del batterista che cerca quasi di potersene liberare picchiando energicamente le pelli dei tamburi. Se mai esistesse un’estasi del dolore, questo sarebbe il suo palcoscenico ideale. Running Bison. Breathing Entity. Sleeping Reality è il brano che segue. Mi piacerebbe sapere, tra l’altro, chi s’inventi questi fulminanti titoli zen…Se poco sopra si era accennato al blues perso tra le righe di The Dark Inside… ora questo termine dalla nobile origine nera torna più valido e comprensibile. A dire il vero questo pezzo potrebbe essere interpretato come la continuazione del precedente ma con in più la cognizione di una possibile redenzione. Il sax sembra inseguire una lontana melodia dell’Aranjuez di Rodrigo, per cui il dolore qui si trasforma in malinconia, che è già uno stato d’animo in grado di presumere una qualche via d’uscita. Da metà brano esplode il blues, la ritmica diventa quella di una rock band degli anni ’70, con i Fire! che sembrano la versione aggiornata ai nostri tempi dei vecchi Canned Heat. Il sax incrementa le dinamiche, la voce di Gustaffson approfitta, tra un soffio e l’altro, di qualche grido soffocato quasi per incitare i suoi sodali. Queste ultime due tracce sono comunque notevoli appunti di grande musica ispirata e più li si ascolta più crescono interiormente con il potere cronofago di non farci accorgere dello scorrere del tempo. Si chiude con One Testament. One Aim. One More to Go. Again, con una panoramica illustrativa sulla moltitudine di suoni estraibili da un sax. Batteria inizialmente quasi silente ma che acquista corpo mano a mano che il brano evolve, con il basso che insiste su qualche nota come sempre ripetuta quasi ad libitum. Crescono e di molto le dinamiche acustiche, tutto pare liberarsi per poi acquietarsi a metà brano. Momenti assorti chiudono la traccia, con il sax che ripiega su sé stesso come al termine di una spossante ghost dance, dopo aver corteggiato, non corrisposto, una qualche forma di stralunata trascendenza.

Gustaffson ha l’aria fosca di un ammaliatore di anime, un mefistofelico tentatore che per mezzo della sinistra sensualità della sua musica tenta un’Odissea alla rovescia. Non si torna più da dove si è un tempo partiti ma ci si perde nelle paludi di uno Stige alla ricerca di qualcosa che non c’è e forse nemmeno è mai esistito. Il senso, lo scopo e la via dell’esistenza che vanamente questo trio cerca errando fra siderali tristezze e rabbiose frustrazioni, continua a svanire in lontananza, come quella famosa Isola che non si trova mai. La musica dei Fire! apre una finestra verso l’Altrove attraverso l’intreccio gutturale dei propri strumenti, a tratti respingente ma altre volte, e non poche, pericolosamente seducente.

Tracklist:
01. Work Song For A Scattered Past (6:56)
02. The Dark Inside Of Cabbage (8:38)
03. Four Ways Of Dealing With One Way (5:21)
04. Running Bison. Breathing Entity. Sleeping Reality. (9:02)
05. One Testament. One Aim. One More To Go. Again. (10:37)

Photo Credit: (1) © Fire!, (2) © Don Chessa