R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Suona oggi definitivamente come un’elegia, la cornetta di Ron Miles. Ricordo che una delle mie prime recensioni che apparve su Off Topic riguardava appunto l’esordio di questo musicista di Indianapolis per la Blue Note con Rainbow Sign – vedi qui tra i migliori jazz-album del 2020. Il paradosso sta nel che fatto che quel disco era dedicato alla morte del padre e pareva coronare una carriera discografica iniziata nel 1987, allungatasi nel tempo attraverso la pubblicazione di una dozzina di album. Ma il destino ha posto fine alla vita dello stesso Miles nel 2022 a cinquantotto anni, a causa di una rara malattia ematica. La sorpresa di trovarsi di fronte a questa nuova uscita discografica che racconta una serata live di Miles in trio con Bill Frisell alla chitarra e Brian Blade alla batteria, è stata pari all’emozione di un’amichevole visita inaspettata e appare, col senno di poi, come l’epicedio conclusivo di un’intera vita artistica. L’evento live a cui ci si riferisce è un concerto del 2011 ripreso all’interno della Old Main Chapel a Boulder, in Colorado, episodio che la Blue Note ha voluto omaggiare in questo album postumo intitolandolo appunto come il luogo dove è avvenuta l’esibizione, cioè Old Main Chapel.

L’esperienza della combinazione triadica Miles-Frisell-Blade risale giusto a quegli anni e ne troviamo testimonianza nella pubblicazione del 2012 nell’album Quiver, in cui il trio venne arricchito dalla presenza di Thomas Morgan al contrabbasso e di Jason Moran al pianoforte come nel successivo I’m a Man del 2017. Si tratta dello stesso quintetto che suonerà, del resto, anche in Rainbow Sign. Quindi Old Main Chapel si presenta coma una sorta di viaggio a ritroso negli anni, portandoci, non senza un sentimento di intristita rassegnazione, al cospetto di un concerto coi fiocchi, condiviso con tre dei migliori jazzisti del tempo. Off Topic si è interessata più volte sia a Frisell che a Blade – leggi qui e quie pare superfluo segnalare, in questo contesto, l’intenso percorso storico e professionale di entrambi i musicisti. In questo album il trio si muove con leggerezza naturale, sottovoce, e si percepisce l’attenta transazione comunicativa reciproca per poter sostenere gli ampi spazi improvvisati che si sviluppano attorno ai brani, sette in totale, di cui sei composti da Miles più uno standard del 1928. La mancanza di un contrabbasso a completare il sostegno ritmico obbliga Blade a trattare la batteria come fosse quasi uno strumento armonico – un po’ come opera l’italiano Massimo Barbiero – cercando di accordare il più possibile i propri suoni percussivi con gli elementi melodici creati dalla cornetta e dalla chitarra elettrica. A questo proposito si può ascoltare un paradigmatico e lungo assolo di Blade all’inizio del secondo brano in scaletta. Frisell utilizza la sua chitarra praticamente senza effetti aggiuntivi, cercando una sonorità semplice e purificata, quasi vicino alla timbrica acustica. E poi c’è la cornetta di Miles, alle volte insinuante e maliziosa, in altre occasioni intrisa di vapori meditati e malinconici. La musica scorre spesso in un clima di lentezza trasognata ma talora esce da questi schemi con veloci appunti a margine, pensieri schizzati e abbozzati su post-it lasciati a caso e poi giustamente dimenticati perché, come diceva Morricone “… la musica quando esce dagli strumenti non si vede e non si sa dove vada a finire.” Potremmo affermare come la narrazione lirica di Miles sia molto inclusiva e coinvolgente, al punto che Frisell diceva che “…Ron ha trovato un modo per includere tutto…”. Sebbene questa citazione sia stata fatta nel lontano 2003 – riportata da Giovanni La Briola sulla web page di Westword – è abbastanza esplicativa di come il cornettista sapesse leggere lo spazio intertestuale tra le note lasciate dagli altri sodali e lo riempisse di fraseggi brevi ed intensi, complementari al senso espressivo globale.

L’apertura dell’album è affidata a Mr.Kevin, un brano con un’introduzione modale che probabilmente serve ai tre musicisti per trovare una chiave d’interplay. Una volta afferratone il senso comune, si avverte come gli strumentisti si approprino del tema, condotto dal suono morbido della cornetta, sostenuto dalle note di chitarra con sporadici riverberi e dall’impressionante corsivo grafico di Blade, una vera e propria sintassi ritmica distribuita nel contesto melodico politonale del brano. Il processo empatico d’affiatamento continua per circa cinque minuti buoni, per poi attraversare una fase d’improvvisazione dove si cerca addirittura un certo recupero di coordinate swinganti. Frisell funge quasi da messa a terra in tutto questo dialogare, con frequenti e brevi richiami ad alcuni passaggi tematici. L’assolo è profilato con eleganza straordinaria nella quale non si fatica a percepire il suo stile chitarristico inconfondibile. Spettano a lui le battute conclusive e la ripresa tematica, naturalmente in associazione alla cornetta di Miles. Applausi meritati. Tocca ora all’unica cover dell’album, il brano dal titolo chilometrico There Ain’t no Sweet Man That’s Worth the Salt of my Tears, composto alla fine degli anni ’20 da Fred Fisher ed interpretato da una pletora di artisti, da Bing Crosby a Bix Beiderbecke, da Peggy Lee a Bobby Darin, fino alle più recenti versioni di Diana Krall e Norma Waterson. Si comincia con un assolo di Blade, molto studiato e calibrato, lontanissimo dai cliché a cui siamo abituati nell’ascoltare i batteristi in solitudine. Dopo quattro minuti di vagabondaggio percuotendo pelli e piatti, compare la chitarra di Frisell che imposta un blues addomesticando l’accompagnamento della batteria. Appare la cornetta che canta il tema in pieno stile anni ’20 ma senza fretta, quasi con una movenza strascicata e indolente fino al sopraggiungere dell’improvvisazione in cui Miles e Frisell dialogano con calma in uno stile sublimato e diluito nell’ottimo interplay comune.

Guest of Honor viene introdotta da un tema giocoso e surrettiziamente malizioso da parte della cornetta, una melodia dal vago sapore felliniano che nel momento dedicato all’improvvisazione si suddivide in un fraseggio frastagliato che comunque continua a seguire gli accordi tematici. Non mi stanco di sottolineare il percussionismo colorista di Blade e la tecnica sopraffina di Miles che inanella una serie di scale discendenti, con suoni brevi e ficcanti. Un brano piacevole e piuttosto leggero, che riscuote gli applausi d’approvazione del pubblico. Queen B. ha una struttura più vaga e dilatata, maggiormente riflessiva, mostrando un andamento lento e incantatorio, con un disegno quasi paesaggistico operato dalla chitarra di Frisell che si muove entro linee astratte. Quasi silenziata la batteria, almeno per un buon tratto del brano, lasciando libera solo qualche vibrazione di piatti e cooperando, quindi, a diminuire la densità strumentale. La conversazione si muove su piani sommessi, come in una ballad decentrata, con la cornetta che taglia di sghembo la scena musicale, entrando ed uscendo dal tema fino al crescendo del drumming di Blade. Da qui in poi si procede verso il finale, tra incrementi e decrescite dinamiche, con una chitarra lunare che costruisce la propria ragnatela attorno alle note di Miles. In Rudy-go-Round si riprende il tono scherzoso che si respirava in Guest of Honor ma la musica s’arricchisce di dissonanze e di astrazioni esprimendosi soprattutto attraverso l’improvvisazione. Frisell lavora quasi in senso blues con affermazioni decise che sembrano attingere dal rock. Il momento è peculiare anche per Blade che pare divertirsi non poco, guizzando tra i suoi tamburi e piatti con tutta l’energia che sa liberare per l’occasione. Verso il finale di partita s’impegnerà in un assolo molto, ma molto diverso da quello dimostrato all’inizio della seconda traccia dell’album. La cornetta fa vita randagia, oscillando tra temi persino orecchiabili a momenti di assoluto abbandono tra le braccia dell’improvvisazione. Sicuramente questo è uno tra i brani più divertenti e variati di tutto il concerto, a giudicare dai commenti degli stessi musicisti a giochi conclusi. I Will Be Free, col senno di poi, pare quasi una premonizione, coi suoi toni di spietata chiarezza melodica, intrisi nell’inchiostro della malinconia. Cornetta e chitarra si sovrappongono mostrandosi talora all’unisono, con Frisell che pesca i suoi accordi nell’american rock book sfruttando un accompagnamento che ha poco jazz tra le dita bensì lo stile polveroso di una visione desertica. Un brano bello ma livido, uno spazio vasto immerso in una solitudine che mi ha ricordato qualche fotografia sonora di Ry Cooder. New Medium riprende saldamente le redini del jazz, avvicinandosi anche ad una dimensione blues rivisitata modernamente con quel modulo più asciutto ed astratto che ci eravamo goduti in Rainbow Sign. Ottimo il lavoro di Frisell che per larghi tratti si trova a duettare meravigliosamente con Blade. Miles si mantiene in un clima piuttosto spettrale e tirato nelle note che mi ha ricordato quell’altro Miles, se solo Ron avesse avuto, in questo concerto, la tromba al posto della cornetta. L’impianto melodico ha una serie di sequenze ascendenti su cui il brano insiste particolarmente, soprattutto in fase di chiusura, incrementando le sue dinamiche per poi spegnersi quasi in un sussurro.

Il trio di Ron Miles dimostra un baricentro compatto senza smagliature né indecisioni, nemmeno durante i momenti più improvvisati. Fasi di meditata lentezza si alternano ad episodi più veloci e resi a volte con spiritosa leggerezza. L’affiatamento palese tra i musicisti aiuta nel tratteggiare un vero e proprio disegno autoriale ed è ovviamente un peccato che questa combinazione non possa più riproporsi. Ma almeno questo approccio live potrebbe servire, oltre al piacere di ascoltare una formazione così brillante, per risvegliare l’interesse e quindi l’ascolto verso qualche lavoro precedente, con un riguardo particolare al già citato Rainbow Sign. Potremmo così prendere visione più completa di un repertorio post-moderno totale di jazz d’alta qualità, oltretutto non così facile da reperire altrove.

Tracklist:
01. Mr. Kevin (11:56)

02. There Ain’t No Sweet Man that’s Worth the Salt of My Tears (12:30)
03. Guest Of Honor (10:14)
04. Queen B (12:35)
05. Rudy-Go-Round (13:04)
06. I Will Be Free (6:38)
07. New Medium (11:08)

Photo © Johnathan Chimene/ WBGO (1), Hans Wendl (2)