R E C E N S I O N I
Articolo di Giovanni Carfì
Note di merito per album passati distrattamente in secondo piano, ma meritevoli di un loro piccolo spazio. Nell’impossibilità di raccontare tutto ciò che viene prodotto, una selezione di dischi con confronti senza vincitori, né punteggi; ma con la presunzione di restituire una sensazione il più immediata possibile, attraverso un’analisi che va oltre le solite stellette.
Delicato ma deciso e soprattutto raffinato; ecco il primo lavoro in italiano di Francesco Sbraccia. Registrato in un posto dalle fattezze molto bucoliche, quasi in solitaria, cercando una stabilità emotiva e sonora che traspare da ogni canzone, attraverso una semplicità ed un approccio molto fresco che ne rende l’ascolto piacevole, dove è d’obbligo un’attenzione particolare per i testi, che rendono il disco un ottimo debutto.
Sonorità chiuse, ricche di elettronica e drum-machine insistenti, in contrapposizione ad un approccio testuale di tipo cantautorale, anche se oggi soprattutto tra le nuove leve, vi è un’esigenza di espressione, più parlata che cantata. Un lavoro che non è così “pop” come vorrebbero loro, ma che ha comunque delle declinazioni interessanti e attuali, rendendolo particolare e caratteristico.
Roberta Cartisano è la mente dietro a questo progetto; polistrumentista e “policollaborativa”, la ritroviamo in parecchi progetti e partecipazioni con artisti noti e meno noti. Questo lavoro ha un’anima rock-folk con influenze “old” in alcuni casi, forse per la scelta di strumenti “analogici” rispetto all’elettronica di cui siamo zuppi, ma allo stesso tempo risulta essere molto contemporaneo ed originale.
Un disco che bisogna ascoltare in modo completo, senza saltare avanti o indietro. Un lavoro sospeso, quasi onirico, con tracce molto lunghe dove c’è tutto il tempo per potersi perdere, ritrovare e sognare. Sono brani nei quali la voce non è altro che uno strumento aggiunto, più al servizio della musica che il contrario, dando una sensazione di flusso sonoro continuo.
Non il classico disco rock e probabilmente non lo vuole essere; una visione lucida e sincera, senza paura di affrontare e combattere situazioni. Chitarre, atmosfere rock anni ’90 ed energia; in una formazione abbastanza tradizionale, spicca il timbro della voce di Debora Chiera e l’uso quasi sarcastico che ne fa, sposandosi alla perfezione con il resto della band.
Un progetto musicale che affronta e si concentra sul tema della detenzione. Attraverso storie e sensazioni raccolte proprio tra le mura del carcere di Rebibbia, nascono canzoni che celano nostalgia, amore e speranza. Le sonorità sorridono ad influenze sud americane, ma riadattandole ad uno stile prettamente cantautorale, con testi semplici e diretti, senza troppe metafore o messaggi nascosti.
Prendete un trio danese, un’amore per elettronica, minimalismo e aggiungete il pianista Nils Frahm; ecco ora aggiungete un mucchio di synth, ore di improvvisazione e parecchia elaborazione. Come siano riusciti a districarsi in questi fiumi sonori ipnotici, e ad uscirne mettendo un inizio ed una fine ad ogni traccia, è ammirevole. Un disco che rapisce, a metà strada tra ambient, ipnosi regressiva e paesaggi cinematici.
Progetto solista del percussionista e producer Giulio Tosatti, che in realtà si avvale delle collaborazioni sonore di mezzo modo, o per lo meno da loro trae a piene mani, ritmi e calore, rivisitando il tutto. Cuba, Africa, sole e impronta dance/dub, shakerate il tutto e avrete una vaga idea di questo lavoro; nulla di miracoloso, ma un onesto debutto, fresco e dignitoso nei suoi 18 minuti.
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