R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

In una lettera pubblicata sul quotidiano Il Tempo datata 16 novembre 1968 e indirizzata all’attrice Silvana Mangano, Pier Paolo Pasolini scriveva: “Quando si è giovani si ha tanto tempo davanti che non si ha paura di buttarlo via”. In effetti è nell’età critica dai 30 ai 40 anni, quindi non proprio da più giovani, che incominciamo a farci delle domande sul valore della nostra esistenza, quando cioè ci si rende conto della nostra vulnerabilità e che forse le scelte che abbiamo fatto e le strade intraprese non sono proprio quelle che avremmo desiderato far nostre. I primi bilanci avvengono solitamente in concomitanza a fatti esteriori, metabole inaspettate, cambiamenti non voluti che ci mettono a tu per tu con il nostro destino per affrontare i numerosi, inevitabili paradossi in cui siamo quotidianamente coinvolti. Non dobbiamo pensare, però, che questi temi trattati siano solo banali astrazioni. Ad esempio, la contrabbassista malese naturalizzata australiana Linda May Han Oh, non ancora quarantenne, ha cominciato ad interrogarsi seriamente, manco a dirlo, in concomitanza della pandemia. Le domande vertevano, oltre che sullo scorrere inesorabile del Tempo, ovviamente anche sul ruolo del musicista, sul valore e sull’utilità di un mestiere che non ha – e non dovrebbe – avere come oggetto un bene consumabile come non è infatti la Musica. L’Arte, come tutte le cose migliori della vita, non serve a niente, nel senso che il suo compito non è quello di un utile confinato nella logica della compravendita mercantile, ma ha coma unico oggetto il pensiero, il cuore, il piacere dello Spirito, guadagni in grado di far la differenza tra una vita sensata ed un’altra spesa ad inseguire l’insoddisfazione di un ossessivo comportamento consumistico e predatorio. Ecco quindi che la nostra Autrice si è buttata in un’impresa non da poco, devo dire piuttosto ambiziosa e non sempre ad un livello qualitativamente stabile ma comunque si tratta di un’operazione coraggiosa che merita tutta la nostra attenzione. Prima di tutto perché la Oh è un’ottima musicista arrivata alla sesta pubblicazione da titolare – contando anche il primo disco autoprodotto nel 2009 – e ha inoltre raccolto una serie di collaborazioni a ventaglio sulle quali Off Topic ha scritto più di una volta, con Pat Metheny ad esempio – vedi una recensione qui o insieme a Joe Lovano & Dave Douglas e Vijay Iyer – potete leggere qui e qui.

The Glass Hours, l’ultimo album della contrabbassista, racchiude nel titolo un significato anfibologico nella traduzione dall’inglese. Se le Ore di Vetro potrebbero essere interpretate come quei momenti trasparenti che riflettono le nostre meditazioni più profonde facendo emergere i conflitti interiori, capovolgendo con un po’ di giocosa libertà i termini originali in Hour Glasses otteniamo la traduzione in clessidre. E quale miglior simbolo iconografico tramandatoci per meditare sul trascorrere del Tempo, così come nell’intenzione originaria della Oh? The Glass Hours è un lavoro complesso ma non complicato che richiede attenzione quanto basta. Possiede un’anima interiore piuttosto cangiante e dinamica, a tratti inafferrabile. Non si tratta quindi di un album facile, se intendiamo definire con questo termine una musica che sia idonea a stare in sottofondo quando siamo contemporaneamente impegnati in altre cose. Questo disco, vivaddio, non si presta per nulla a far da tappezzeria. Va ascoltato, interpretato, interrogato come ogni opera d’arte che si convenga e sul quale possiamo esprimere apprezzamenti e perplessità solo dopo numerosi ascolti. La Oh suona il contrabbasso e il basso elettrico ed è responsabile di alcuni interventi vocali insieme alla vera vocalist di questa formazione, cioè la cantante portoghese Sara Serpa. C’è poi il sax tenore di Mark Turner, la batteria di Obed Calvaire – già con la Oh fin dal 2009 – e Fabian Almazan, l’attuale compagno dell’Autrice, al pianoforte e alle tastiere elettroniche.

Il brano che troviamo all’inizio dell’album è Circles. Come afferma la stessa autrice in un intervista rilasciata a Morgan Enos di London Jazz News il 5 giugno 2023, il riferimento ciclico è una sorta di “tapis roulant edonico”, cioè un continuo girare intorno a sé stessi attratti da beni materiali che non bastano mai. La convulsa partecipazione all’edonismo è ben sottolineata dalla linea melodica che sale e scende di tono in continuazione, sostenuta dall’intervento in backing vocal della Oh che fa da sottofondo al canto senza parole di Serpa, spesso all’unisono col sax di Turner. Il pianoforte corre in tutte le direzioni toccando varie tonalità con scale che continuano ad incrociarsi senza una direzione apparentemente accomodante. Il batterista martella i suoi tamburi con luminoso eclettismo e il sax tenore compare e scompare con i suoi assoli intrufolandosi tra le improvvisazioni pianistiche. Né avrebbe potuto mancare il contributo in assolo della Oh. Decisamente un brano iniziale un po’ difficile da digerire ma suonato con una perizia tecnica sbalorditiva. Un finale in parziale dissolvenza che sembra poter alludere ad una presa di coscienza con gli ultimi gorgheggi della cantante che si spengono al rallenty. Antiquity pare inizialmente tranquillizzarsi rispetto al brano precedente ed ha un incipit quasi da ballad. Il pianoforte, dopo una breve introduzione fatta di penombre, innesca le sue scale multi-direzionali inframmezzate da lampi di elettroniche. Il coro vocale si spegne tra un contrabbasso e una percussione stranamente moderata per fare posto ad un lungo parlato di Serpa. Come racconta la Oh, il testo fa riferimento “…alla monotonia della vita quotidiana… a un passato che si ripete ancora ed ancora… a quel tipo di persona bloccato nella sua beata ignoranza, in una sorta di purgatorio.” Sembra di rileggere le parole di Elsa Morante, quando parla degli “infelici molti”, tagliati fuori da ogni ebbrezza di vita, ignari di ogni benedizione dionisiaca. Chimera non sembra tanto riferirsi al mostro mitologico ucciso da Bellerofonte – e che gli costò un peccato di hybris punito prontamente da Zeus – ma piuttosto ad un sogno, una speranza irrealizzabile, una consapevolezza nuova che possa premiare la visione di sé in trasparenza offerta dalle ore di vetro… In effetti il brano sembra cambiare orientamento con un bel momento in trio contrabbasso – splendido – della Oh, batteria e pianoforte. Poi di nuovo il canto, certo sempre efficace, ma non rischia di diventare troppo reiterato? Fortunatamente la parte solo musicale riprende il comando delle operazioni, il trio sopra descritto risale in quota sulle ali di Pegaso e mette in evidenza il pianismo snello e veloce di Almazan, appena chiaroscurato da qualche frammento elettrico. Jus ad Bellum è un titolo latino che significa “guerra legittima” ma ovviamente si tratta di un brano con un testo che prende le distanze dalla necessità di giustificarla. La melodia non è mai memorizzabile, alle volte si ha l’impressione di ascoltare frammenti del Pierrot Lunaire ma l’Autrice introduce in questo brano un lungo e ripetitivo ostinato con una frase cantata che si prolunga – anche troppo – tra le suddivisioni ritmiche del bravissimo Calvaire e le anarchiche scale di piano del solito Almazan.

La title-track The Glass Hours si confeziona su un suggestivo corale attorno al quale gli strumentisti si sistemano a circolo affidandosi al sax di Turner e a un pianoforte anfetaminico. Lavoro straordinario per la ritmica da cui emerge il batterista con la sua personalità dirompente. Il brano prosegue con rallentamenti e riaccensioni improvvise ed è un po’ faticoso seguirne i continui rovesciamenti di prospettiva. Come suggerivo inizialmente sono necessari più ascolti, alle volte, per poter fissare almeno i fondamentali di alcuni brani. Imperative non molla certo la presa e anzi fa leva sulla voglia di agire e di adattarsi ai mutamenti spesso non graditi della realtà. Quasi dieci minuti di delirio musicale che si snodano tra frasi serrate, interventi vocali spesso in sincrono con il sax e il piano, in passaggi certo non facili da eseguire. Colpisce in positivo, nonostante la dinamica fantasiosa che muove di continuo di ogni tipo di legame ritmico, la capacità subitanea dei musicisti di adattarsi repentinamente a passaggi fatti di umori densi, cambi di tono e di velocità. Sembra a volte che tutti questi frammenti musicali vengano mescolati in un frullatore e rimodellati in ordine inverso. Abbiamo però la possibilità di ascoltare, in una sorta di momentanea oasi intervallare in mezzo a tutto questo, la micidiale preparazione tecnica della Oh al contrabbasso in un assolo formicolante di spunti e poi Calvaire che dimostra tutta la sua febbricitante inventiva alla batteria. Finale convulso e passaggio al brano seguente Phosphorus. Batteria, basso e tastiere impostano una ritmica che ricorda certe imbucate prog alla Henry Cow – chi se li ricorda? – con il solito canto senza parole che francamente sta diventando anche troppo invadente. Insomma, la musica di Linda May Oh è un’infornata di pane in continua lievitazione. Essa ha decisamente una propria cifra distintiva ma in questo pezzo la frammentazione delle linee musicali raggiunge uno dei suoi massimi livelli, merito – o colpa – del batterista posseduto dai demoni. Ogni tanto emerge il sax tenore che s’incrocia – non benissimo – con il canto della portoghese. Respite è finalmente una pausa, un angolo inaspettato di paradiso – visto come si son messe le cose – che deve molto alle suggestioni di Amarcord e quindi di Nino Rota. Poteva un brano, almeno uno, finire com’era cominciato? No, anche questo accelera fino alla ripetizione ad libitum di uno spizzico di strofa cantata e di sax. Dato che a questo album non manca nulla, tocca ora ad una meditazione sull’al di là con The Other Side. Altri dieci minuti di piacevole sofferenza, se così la vogliamo chiamare. In realtà questa traccia è una di quelle che si riescono meglio ad interpretare, offrendo una buona leggibilità di jazz moderno, con un ottimo sax ed un pianoforte che inizialmente si controlla maggiormente ma che diventa poi preda della frenesia scaliforme. L’assolo che segue, quello al contrabbasso della Oh, non fa che ribadire la mia personale ammirazione per questa musicista che a volte apprezzo più come esecutrice che non come compositrice. Sembra maggiormente rasserenante, ovviamente a modo suo, l’ultimo brano della raccolta, Hatchling, che lavora su tempi più dilatati e poco compressi. E meno male che anche il canto si conclude qui, confesso che non l’avrei retto ulteriormente.

Che dire? Era tanto che non faticavo così nel recensire un disco di jazz. Intendiamoci, è stata una piacevole impresa, tuttavia più impegnativa della media delle musiche che normalmente sfoglio per Off Topic. E questo è sicuramente positivo, segno che certo jazz non ama adagiarsi sugli allori. The Glass Hours è per certi versi un lavoro sorprendente, sia per la costruzione dei brani molto complessa che vive senza tentazioni melense e sia per le angolazioni espressive talvolta accecanti costituite da torrenziali eloqui strumentali. L’incandescenza tecnica che regge tutto questo è veramente notevole ma l’impressione che rimane, dopo tutta questo corposo barbecue di carni al fuoco, è paragonabile a quella di un pasto troppo ricco, con una sarabanda di sapori che finiscono per sfocarne il senso definitivo, piuttosto che renderlo più assimilabile.

Tracklist:
01. Circles (6:50)
02. Antiquity (6:42)
03. Chimera (5:34)
04. Jus Ad Bellum (8:30)
05. The Glass Hours (6:38)
06. The Imperative (9:16)
07. Phosphorus (7:24)
08. Respite (3:45)
09. The Other Side (9:25)
10. Hatchling (5:08)