R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Uno tra i 147 precetti delfici dell’antico tempio apollineo recita così: “disprezza l’arroganza”. Le parole del pianista Vijay Iyer, a questo proposito, e che possiamo leggere in un suo scritto datato 02/11/23 pubblicato sul sito ufficiale della Chamber Music America, sembrano non lasciare dubbi. Personalmente mi sono piaciute così tanto che mi sento di sottoscriverle in toto. In particolar modo quando egli si scaglia, con veemente energia, contro il termine eccellenza, quella “maledetta clava di parola”, come meglio specifica lui stesso. La medesima espressione è in effetti tanto amata da una certa categoria di persone a cui piace riempirsi la bocca con sintagmi ad effetto e soprattutto con un termine divisivo come questo che separa il mondo in due categorie, gli eccellenti e… gli altri. Perché, aggiunge e chiosa Iyer nel suo lungo scritto, “…l’eccellenza riguarda le brochure, le sale riunioni e i marchi, ma la musicalità è per la gente. L’eccellenza è ciò per cui ci viene insegnato a lottare ma la musicalità è letteralmente ciò che conta.” In termini più pragmatici, Iyer ci vuol dire che questa presunta qualità appiattisce tutti verso lo stesso, convenzionale ipotetico traguardo, mentre la sola bontà della Musica può essere espressione di pura creatività soggettiva, senza modelli necessari a cui ispirarsi, senza deliberazioni aprioristiche su tutto ciò che dovrebbe per forza essere più significante. Di questo importante musicista contemporaneo abbiamo già abbondantemente parlato in una precedente recensione di Off Topic che potrete leggere qui, a proposito del suo precedente lavoro ECM del 2021, Uneasy.

Oggi Iyer si ripresenta in trio all’attenzione del pubblico con questo nuovo Compassion, realizzato insieme agli stessi musicisti di Uneasy, cioè la contrabbassista Linda May Han Oh e il batterista Tyshawn Sorey, anche questi oggetti d’attenzione in prima persona da parte di Off Topic, rispettivamente qui per la Han Oh e ancora qui e qui per Sorey. Come suggerisce il titolo del precedente album, anche Compassion non è una passeggiata facile. La compassione a cui ci si riferisce sembra inerente al sentimento doloroso – e in qualche misura proprio per questo creativo – al seguito di quegli avvenimenti drammatici che occupano quotidianamente le pagine dell’informazione. Tutto questo sembra stimolare i fraseggi insidiosamente irregolari ma sviluppati con un’oratoria realmente pregiata dal pianoforte di Iyer, intrecciandosi a formare quasi un organismo biologico insieme agli interventi strumentali dei suoi sodali Han Oh e Sorey. Una struttura omeostatica, che scambia di continuo tra il dentro ed il fuori avendo come fine un bilanciamento tra dare e avere, tra l’interiorità e il mondo esteriore. Ed è appunto questa situazione d’equilibrio dinamico che è il grande segreto di un album come questo. Una musica che di per sé non ha intenzioni sconvolgenti ma che mantiene l’attenzione della mente e del corpo come se si stesse ascoltando un costante dialogo sui massimi sistemi. I territori percorsi da questo trio sono quasi tutti – con l’eccezione del piano solo di It Goes – attraversati da instabilità ritmiche, a volte da vere e proprie scosse telluriche ma anche da vibrazioni sotterranee più continue, onde cadenzate su cui il piano di Iyer può navigare con grande sicurezza. Non si tratta certo di musica sperimentale e nemmeno mi sento di definirla espressione d’avant-garde ma ci si trova invece di fronte ad un jazz corposo, materico, argomentato strutturalmente come una rigorosa tesi filosofica, che a volte si concede momenti melodici anche ben riconoscibili come accade nella trasposizione del brano di Stevie Wonder Overjoyed. L’interplay è sempre perfettamente in fase, senza indugi né sospensioni. Le matrici afro-americane affiorano in superficie mescolate ad elementi di contemporaneità – non si suona certo il jazz di trent’anni fa (!!) – e tutto questo resta sotto il controllo vigile e attento di Iyer, che regge le fila del discorso lungo un tragitto segnato da dodici brani, nove dei quali di propria composizione.

Si inizia l’ascolto proprio con la title-track Compassion, dove compare lo sfregamento delle spazzole di Sorey su piatti e tamburi che anticipa gli arpeggi acquei di Iyer e il battito quieto del contrabbasso della Oh. L’Autore prosegue poi con uno sviluppo piuttosto classicheggiante, pennellando con accenni di romanticismo una linea armonica molto moderna e ritmicamente poco prevedibile. Il brano sembra immerso in una nebbia leggera attraverso cui s’intravedono progressivamente profili via via più marcati di forme comunque indecifrabili. Un brano costruito coralmente, perfettamente auto-integrato in ogni sua componente strumentale. Arch è l’abbreviazione di Archbishop ed è un brano dedicato al coraggio dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu che lottò attivamente contro l’apartheid. Gli arpeggi di piano in apertura possono sviare inizialmente l’attenzione, facendo pensare ad un clima diverso da quello che poi si svela essere un intreccio ritmico-armonico piuttosto complesso. La traccia vede in primo piano la cavata robusta, quasi rabbiosa della Oh che s’appropria di gran parte della lunghezza del pezzo, appoggiandosi alla batteria precisa di Sorey. Segue l’assolo di Iyer, anch’esso, come quello della contrabbassista, eseguito con tumultuosa energia percussiva. Sembra quasi di avvertire l’eccitazione della folla impegnata ad inseguire con determinazione i suoi propositi. Il brano si spegne lasciandosi sfinire lentamente, sfocando in un’impressione di lontana rimembranza.

Overjoyed è un brano di Stevie Wonder ma le ragioni di questa scelta val la pena di riassumerle. Dopo aver ricevuto in prestito un pianoforte appartenuto a Chick Corea, Iyer avvertì l’impulso di suonare il brano di Wonder che lo stesso Corea aveva inciso nell’album Summer Night: Live nel 1987 con John Patitucci e Dave Weckl. Nella versione che ne diede il pianista del Massachusetts il tema si distendeva su una base ritmica un po’ latina ma Iyer & C. ci danno dentro con un piglio più aggressivo e viaggiano contromano con una verve improvvisativa notevole. Il piano è brillante, esuberante e la compartecipazione contrabbasso-batteria è veramente implacabile. Siamo molto vicini, in questa prospettiva, ai climi del be-bop e del jazz di stampo più afro-americano, dove il trio fa sfoggio di tutta la notevole capacità tecnica che possiede. Ancora la Oh s’impegna in un lungo assolo e Sorey sbriciola i ritmi in mille rivoli tra tamburi e i molti piatti. Finale al rallenty, in parziale dissolvenza. Ed inizia in modo vorticoso, appunto, Maelstrom, il mitico, pericoloso gorgo dei mari del Nord. Questo brano fu composto per Tempest, un progetto musicale rappresentato live nell’agosto del 2021 e dedicato alle vittime della pandemia. Una veloce sequenza di note al piano segue un’impostazione modale, tra le poche per la verità, in un album che si esprime in prevalenza con molti cambi di tonalità. Qualche drone d’accompagnamento, Sorey che rischia d’incendiare i tamburi, molta energia ma francamente mi sembra uno tra i pezzi più deboli di questo lavoro. Prelude: Orisan è invece, nel suo alone di raccoglimento, tra i momenti migliori. Il tema proviene da un’altra composizione di Iyer, For My Father, performata per la prima volta in pubblico dalla pianista Sarah Rothenberg – trovate il video con la presentazione dello stesso Autore su YT. L’inizio molto lirico suonato su un’unica linea melodica è accompagnato da qualche sussurro di batteria e da un contrabbasso che ripropone lo stesso tema. Una certa impronta classica pervade la composizione ma senza arenarsi in parentesi passatiste, anzi, immettendovi risoluzioni armoniche molto moderne che non rinunciano, tuttavia, alla tonalità emotiva, decisamente gonfia di sentimenti tristi. Anche il seguente Tempest fa parte dell’omonimo progetto già citato in precedenza del 2021. Grande nerbo ritmico, con Oh e Sorey che offrono il meglio di loro stessi. Tema drammatico, vagamente ansiogeno, ben sviluppato nell’improvvisazione pianistica con diversi cambi tonali. Altro assolo della contrabbassista, molto disinvolta, e Iyer che martella i tasti dimostrando una rutilante concezione di pianismo, in grado di trascorrere con naturalezza dai frangenti più intimisti, del nel brano precedente, a quelli più sovraesposti come in questo caso. Così come il brano Tempest, pure il seguente Panegyric rientra nella triade dei pezzi facenti parte del progetto più ampio sopra nominato. Sembra inizialmente di poter ascoltare quasi una ballad con un colloquio discorsivo tra piano e contrabbasso – bellissimo in questo contesto – ma poi il clima comincia a scaldarsi maggiormente e salgono temperatura emotiva e dinamiche più intense con il pianoforte che incrementa i suoi volumi sonori, approfittando – e non è la prima volta – di un assetto ritmico di prim’ordine. Atmosfera scintillante e, come al solito, si va a terminare con gli strumenti che si dissolvono progressivamente nello spazio sonoro. Nonaah è un’invenzione di Roscoe Mitchell targata 1977 e originariamente pubblicata su un doppio Lp omonimo. Dato che qui siamo in pieno momento free con Mitchell tra i principali ed autorevoli fautori dell’AACM di Chicago, diventa molto complicato, almeno per quanto mi riguarda, trovare elementi riconoscibili tra le due versioni e lascio quindi all’attenzione di ognuno la possibilità di rintracciarli. Dopo questa parentesi anarcoide, Iyer si chiede giustamente Where I Am. Riemergendo dalla parentesi avanguardista di Mitchell, l’Autore dimostra di esserne stato toccato nel profondo e nonostante l’inizio sviluppato con insolita delicatezza e con la consueta, ottima parentesi solistica del contrabbasso, il brano tende ad avvicinarsi progressivamente a un territorio di confine, in cui senza rinnegare l’approccio tonale, si avverte il desiderio di slegarsi dalle regole. La ricerca delle dissonanze procede comunque con il criterio di quell’equilibrio che domina l’album, come già rilevato all’inizio di questa recensione. Inoltre bisogna rilevare che questo brano, insieme ai due prossimi che seguiranno, fa parte di un ulteriore progetto d’insieme chiamato Ghosts Everywhere I Go, ispirato a Ghosts in the Schoolyard, testo della poetessa e scrittrice chicagoana Eve L. Ewing. Ghostsrumental segue quindi le orme della traccia precedente, presentandosi con uno schema basico tutto sommato simile e un inizio giocato su una semplice coppia di accordi pianistici. Ben presto Iyer s’allontana da questo schema giocando attorno ad un’improvvisazione spiccia, seguito come al solito dall’assolo della Oh, sotto il quale il piano riprende il succitato vamp alla tastiera. Brano molto denso che tende ad un groove spiraliforme. In mezzo a tutto questo l’abituale gran lavoro di Sorey – che batterista, ragazzi (!!). Sarà perché personalmente sono un amante del piano solo ma il brano che segue, It Goes, trovo che sia una perla di rara bellezza, nella sua apparente semplicità. Suonato quasi in forma di blues, si presenta con un’anima serena, un’incantata rarefazione armonica che lavora sull’essenziale. Mi ha ricordato alcuni blues in solitudine di un giovane Paul Bley del tempo che fu. L’ultimo brano è una duplice ispirazione che viene da Free Spirits del sassofonista John Stubblefield – pubblicato sull’Lp Midnight Sun del 1980 – unita a Drummer’s Song che invece è della pianista Geri Allen e proviene da Open on All Sides in the Middle del 1987. Atmosfera luminosa e chiara in questi due universi sigillati dalla creatività proteiforme di Iyar e dall’efficace sodalizio ritmico Oh-Sorey.

Reputo da sempre, e l’avevo anche suggerito recensendo il precedente Uneasy, Vijay Iyer un pianista geniale, dotato di una capacità fuori dal comune di saper condensare idee, armonie e ritmi in qualsiasi nuova operazione egli intraprenda. Volendo fare un paragone con l’arte pittorica, lo definirei un Cezanne della tastiera, per quella sua visone equilibrata delle forme e per la distribuzione di pesi e misure opportunamente sistematizzate. Buona parte del merito, occorre aggiungere, lo si deve in questo contesto all’accompagnamento ritmico di contrabbasso e batteria, che definire granitico è fin troppo poco. Riporto a chiosa di tutto un ulteriore, illuminante suo estratto dal sito di Chamber Music America. “Non puoi iniziare a creare qualcosa di nuovo se sei convinto della tua grandezza; è paralizzante. Devi accettare la tensione, la vulnerabilità, il fallimento e i vicoli ciechi ad ogni fase.”

Tracklist:
01. Compassion (4:51)
02. Arch (6:14)
03. Overjoyed (7:53)
04. Maelstrom (4:37)
05. Prelude: Orison (3:44)
06. Tempest (6:24)
07. Panegyric (6:31)
08. Nonaah (2:32)
09. Where I Am (5:45)
10. Ghostrumental (6:38)
11. It Goes (3:10)
12. Free Spirits / Drummer’s Song (7:15)