Recensione di Andrea Furlan

There is no higher healing than turning trauma into art” Larry Moss

Di traumi Mary Gauthier ne sa certamente qualcosa. Il primo, devastante, lo subisce ancora in fasce, quando viene abbandonata dalla madre. Un anno in orfanotrofio, poi una famiglia adottiva da cui però scappa. Droga, alcool, riabilitazione. Ormai adulta, rintraccia la madre naturale, ma viene respinta. Non è stata affatto semplice la sua vita, una continua lotta contro i propri demoni e le troppe domande irrisolte. Scrive la sua prima canzone a 35 anni ed è la svolta. La musica è la sua ancora di salvezza, diventa uno degli autori più apprezzati e profondi, capace di sublimare il dolore e la sofferenza in arte di altissimo livello. La narrazione stessa è una cura, nel suo album del 2010, The Foundling, affronta proprio l’abbandono e le ferite che faticano a rimarginarsi. Tutta la sua opera del resto è un incessante riflettere sulle pene dell’esistenza, dell’amore, delle relazioni umane e della ricerca di una serenità possibile e desiderata.

Non è difficile immaginare il suo coinvolgimento emotivo nel progetto SongwritingWith:Soldiers (www.songwritingwithsoldiers.org) nato dalla interazione con un gruppo di veterani di guerra e soldati in servizio attivo e le loro famiglie con l’intento di spingerli a raccontare la propria storia, a scavare dentro se stessi e a esternare il proprio dolore per costruire nuovi legami, ritrovare fiducia e provare a ripartire con stimoli nuovi e positivi. Un laboratorio in cui i soldati, affiancati e sostenuti da un gruppo di musicisti, si accostano alla difficile arte di creare canzoni e lasciano fluire liberamente i propri sentimenti sapendo che qualcuno li ascolta senza giudicare. Aprire il cuore fa bene, non c’è rimedio migliore per trovare conforto e sciogliere i nodi dell’anima quando tutto si fa buio e sembra non esserci via d’uscita.

A Mary Gauthier va il merito di aver raccolto questo grido d’aiuto trasformandolo in undici splendide canzoni che portano in evidenza uno dei problemi più spinosi della società americana, il difficile ritorno a casa dopo aver sperimentato sulla propria pelle il trauma della guerra, tema del resto già affrontato da Bruce Springsteen riguardo il Vietnam. La storia, come sempre, si ripete, adesso semplicemente si chiama Iraq e i militari sono i primi a fare le spese della politica muscolare americana, impegnati ad esportare la democrazia in tanti fronti di guerra, non appena il primo bullo di turno alla Casa Bianca lo ritiene necessario.

Nei brani, tutti scritti a quattro mani, non c’è traccia alcuna di vittimismo e autocompiacimento, assistiamo alla sola esposizione dei fatti, raccontati in prima persona, in una sorta di liberatoria seduta psicoanalitica. La Gauthier, con il contributo essenziale nella fase di stesura del disco di Michele Gazich, uno degli artisti più colti, raffinati e sensibili che vanta il suolo italico, da anni al fianco dei più bei nomi del songwriting americano (la stessa Gauthier, Eric Andersen, Tom Russell, John Hammond, Victoria Williams, Michelle Shocked and Mark Olson), tiene ben saldo il bandolo della matassa e compone il ritratto coeso e toccante di una grande famiglia, dipinta con sguardo compassionevole e partecipato. Non poteva essere diversamente per chi, qualche anno fa, cantava con trasporto “my brother could use a little mercy now” (Mercy Now, tratta dall’omonimo album del 2005). Ecco, siamo tutti fratelli, accomunati dallo stesso dolore, alla ricerca della grazia perduta e di un po’ di misericordia, in una insanabile dicotomia tra bene e male, sacro e profano, armi e grani del rosario. L’anima sudista della Gauthier, gotica e fatalista, emerge nello scavo psicologico di un’umanità dolente che trova ristoro affermando, con grande dignità, la propria identità. L’orgoglio, il senso di appartenenza a qualcosa di più elevato, la condivisione e la fratellanza, la paura, il ricordo struggente di chi non ce l’ha fatta, l’ansia impotente di chi aspetta a casa, il coprirsi le spalle a vicenda, l’ipocrisia delle commemorazioni ufficiali, le difficoltà tuttora incontrate dalle donne a farsi accettare nello spietato e rude ambiente maschilista sono le tante sfaccettature che compongono un’unità drammatica particolarmente vivida ed efficace.

Impossibile non innamorarsi subito di Rifles & Rosary Beads e non farsi trascinare dal turbinio emozionante di sensazioni suscitate dall’ascolto. Ogni singolo brano è una pagina di notevole intensità, dalle acustiche pennellate folk delle ballate più intime e minimali fino alle brillanti nervature rock dei passi più grintosi. Quasi scioccante l’incedere marziale di Soldiering On, aspra ed elettrica, sembra di essere in battaglia insieme agli uomini che avanzano senza mollare: “Non combatti per te stessa, combatti per quelli che hai accanto e loro fanno lo stesso per te e per vivere devi essere disposto a morire, ma quello che ti salva in battaglia, può ucciderti a casa”. La tensione altissima si stempera nell’incedere bluesy di Got Your Six (“nessun salvatore su un crocefisso, guardami negli occhi, ti copro le spalle”) e il country agrodolce di The War After The War, constatazione amara dei sogni infranti (“non si può tornare indietro nel tempo, so che non sei più lo stesso, ma non sei l’unico per cui il mondo è cambiato”). Il ricordo struggente dei compagni perduti affiora in uno dei momenti più toccanti del disco, Still On The Ride, ispirata ballata acustica dal suono tipicamente Americana: intro di armonica dylaniata, qualche tocco di mandolino, la magia del violino e, soprattutto, la voce, bellissima, della Gauthier. Voce sublime anche in Brothers che, pur nel ritorno dell’incedere marziale, trova nuance dolcissime nella preghiera di riconoscimento e considerazione (“ho versato il sangue sulla strada, Dio se ho portato il mio fardello, ti ho tenuto d’occhio, morirei per te, questo non rende anche me un fratello?”). Da segnalare assolutamente la superlativa title track Rifles & Rosary Beads, la ballata morbida e notturna It’s Her Love, commovente dichiarazione d’amore resa con grazia infinita, e la conclusiva Stronger Togheter dichiarazione d’intenti sul tempo a venire (“ci concentriamo sul buono, è tutto quello che abbiamo, non sembra molto ma sappiamo che invece lo è”).

Rifles & Rosary Beads è una delle opere più riuscite di questo primo scorcio del 2018, certamente in ambito Americana, ma non solo, ha qualità musicali e letterarie tali da renderlo affascinante al di là delle facili etichette di genere. Prodotto dalle mani attente di Neilson Hubbard (membro dei The Orphan Brigade progetto di grande valore anch’esso slegato dagli angusti confini di semplicistiche definizioni) il disco deve molto del suo valore ai musicisti in esso conivolti, primo fra tutti quello di Michele Gazich, qui come sempre pronto a cogliere, con il suo incantevole violino, ogni minima suggestione dalle composizioni e a tradurla in momenti lirici di ragguardevole ispirazione e trasporto. Oltre a Gazich, sono della partita Will Kimbrough (voce, chitarra e mandolino), Neilson Hubbard (batteria), Danny Mitchell (voce piano e fiati), Kris Donegan (chitarra) e Michael Rinne (basso). Ultimo, doveroso accenno al libretto, come sempre curato nei minimi particolari dalla Appaloosa, che contiene la traduzione in italiano dei testi permettendone così una facile e rapida comprensione.

Quando il vento sollevava la polvere
Guardavo verso il cielo,
Chiedevo al Signore perché non avevo nessuno di cui fidarmi
Ed è stato difficile vederlo finché non ha attaccato
Ma il mio nemico non era l’Iraq