R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Ci sono dei tratti impliciti nella musica del pianista Daniel Karlsson che si spiegano con la sua militanza nella band del batterista Magnus Ostrom, orfano del trio del compianto Esbjörn Svensson. Ma rimarcare che una jazz band svedese con formazione triadica debba qualcosa agli E.S.T. sembra un’affermazione apodittica e quindi, nonostante le parziali somiglianze, non mi soffermerei più di tanto su una comparazione di questo tipo. Anche perché, nonostante la componente elettronica aggiunta con cautela e un certo orecchio allenato al rock, il Daniel Karlsson Trio suona con meno pathos drammatico, manifestando un po’ più di brillantezza rispetto agli E.S.T. e diciamo pure anche una maggior leggerezza. Quest’ultimo termine non va però interpretato in senso sminuente. In fondo, un disco come questo Sorry Boss, secondo quanto esprimono gli stessi componenti del trio, punta a raccontare una normalità quotidiana, una serie di comportamenti che descrivono la vita di gente comune, impegnata nel lavoro e nelle ritualità sociali condivise di tutti i giorni. La stessa copertina dell’album ci mostra i tre musicisti che appaiono in foto come abituali impiegati tra scartoffie che volano tutt’attorno e con fogli di taccuino fissati al muro. Ora, se il raffronto inevitabile con gli E.S.T. lascia a parer mio un certo margine di dubbio, in altra battuta viene spontaneo tracciare un secondo paragone con i Bad Plus, quelli che avevano ancora Ethan Iverson in formazione. Anche in questo caso, però occorre segnalare le opportune differenze. Dove il trio statunitense tendeva a picchiar duro, a volte senza troppi complimenti, gli svedesi, ora, accarezzano una musica più raffinata ed anche nei – pochi – momenti più convulsi, trovo che il tocco pianistico di Karlsson abbia un tono più intimista e fantasioso, mentre la componente ritmica di contrabbasso e batteria mi sembra essere più garbata addirittura anche nei momenti maggiormente dinamici ed intensi.

Arrivati, dopo dieci anni di convivenza professionale al loro settimo lavoro – l’esordio avvenne nel 2013 con Das Taxibat – i musicisti del DK trio suonano una linea di note luccicanti, ben modulate, senza bisogno di eccessi deflagranti e soprattutto con un’impostazione generale tonale, garantendo in questo modo la perdurante gradevolezza della loro musica. Vero è che Karlsson ha conservato l’abitudine a qualche schema minimalistico reiterabile e che talora bussa alla porta di una melodica new-age, ma più che altro credo che queste sporadiche scelte servano a mantenere uno spettro espressivo il più ampio possibile. La registrazione di Sorry Boss è avvenuta con modalità casalinghe, cioè nell’abitazione di Karlsson che si trova nell’isola di Runmarö, nel mar Baltico, ad est della penisola scandinava a poca distanza da Stoccolma. Un ambiente relativamente tranquillo, quindi, dove il trio ha provveduto a mantenersi comunque piuttosto lontano dalla stereotipata koinè espressiva di molti attuali gruppi jazz svedesi. Niente atmosfere tipicamente nordiche, nessuna evocazione di spiriti naturali. Solo un jazz frizzante sostenuto da una certa gagliardia ritmica che non supera mai il giudizioso limite di un auto-contenuto dinamismo. La formazione di questo trio comprende dunque Daniel Karlsson al piano e alle tastiere elettroniche, Christian Spering al contrabbasso e Fredrik Rundqvist alla batteria.

Si comincia con brillantezza ascoltando il primo pezzo della selezione, cioè Bus Stop Story, un curioso esempio di groove descrittivo, dove il contrabbasso sembra simulare l’arrivo caracollante di un bus con qualche colpo di piatto del batterista ad imitazione del campanello che invita alla fermata. Il piano segue una melodia un po’ funky, molto giocata sul ruolo della mano destra e la batteria frammenta un tempo tutto sommato piuttosto lento ma straordinariamente ricco di tendenze poliritmiche. Il pezzo, però – almeno come suggerito dal titolo –  allude ad una storia. La parte finale del brano, magnifica e nostalgica, sembra quasi rievocare un tempo passato. Chissà se ora, vien da pensare, esiste ancora quella fermata e quello stesso autobus. Miglior inizio non poteva capitare per un brano d’apertura, la musica è materica, sembra quasi di poterla manipolare come un blocco di creta e solo nel finale l’aspetto malinconico della rimembranza prende il sopravvento. Sorry Boss inizia con un travolgente arpeggio pianistico dal sapore romantico, un vero e proprio moto ondoso lungo la tastiera ben presto riassorbito dalla ritmica gentile ma implacabile del contrabbasso e della batteria. Karlsson interviene in un secondo tempo col Rhodes, prima usando questo piano elettrico in aggiunta solo alla propulsione ritmica, poi sovrapponendolo con estrema eleganza alla sonorità del piano acustico o forse di una seconda tastiera. Il titolo ha una sua curiosa storia, essendo l’espressione continuamente ripetuta dagli operai che lavoravano nel cortile di una abitazione dei tre musicisti, durante una loro tournée in Inghilterra, per scusarsi del rumore che producevano. Anche questo è un gran brano, molto tecnico, realizzato con slancio emotivo e comunicativo, al punto giusto da rivelare il perfetto grado di interplay dei componenti della band. Last Minute rappresenta una fluttuazione di fase, il tempo si fa più tranquillo, il suono si screzia di accenti melodici con Karlsson che cuce insieme varie frasi brevi dall’incedere malinconico. L’assolo pianistico è misurato, ben integrato col senso della tematica sfuggente caratteristico di questo brano. Evidentemente – e lo si avverte dal modo di suonare il pianoforte – Karlsson ha un livello tecnico tale che può esprimersi senza appariscenti estremismi. Bastano poche manciate di note ben risonanti per delineare progressioni armoniche dal tracciato desueto. Heaven or Elsewhere se la gioca con un ostinato riff di piano alla mano sinistra mentre la destra esegue una melodia sovrapposta alle note di contrabbasso. Questo lavoro a due, eseguito in ambito dissonante, contribuisce a creare, insieme a qualche lampo sonoro elettronico, una sensazione generale di grande dinamismo e di inquieta tensione armonica. L’assolo di piano si aggiunge al suono di altre tastiere e insieme all’ottimo lavoro di Spering e Rundqvist, crea una sorta di continuo girotondo elettro-acustico, un brulichio di note che non vanno mai a confondersi le une con le altre.

Happy Hour accelera il battito cardiaco con un’idea gioiosa di fondo – l’aperitivo a chiusura della giornata lavorativa – che si manifesta dopo l’enfatica ma ironica introduzione del piano. Uno schema ripetitivo di tastiera elettronica, agendo sulle frequenze sonore medio-basse, suggerisce il movimento e il chiacchiericcio di persone in un locale lounge. L’assolo di Karlsson di impronta be-bop è molto chiaro e pulito, questo pianista non sporca mai il proprio suono evitando di mescolare, con la scusa della velocità esecutiva, note che c’entrano poco tra loro. Un funky-soul di gran classe quindi, all’interno di una sequenza di brani dove fino ad ora non ho ancora rilevato nessun anello debole. Confidential Document è una piccola – dura poco, purtroppo – parentesi di solo piano immersa a metà tra inquietudine e tristezza. I suoi colori scuri, freddi e distaccati mi ricordano certe parentesi alla Bobo Stenson degli anni ’90. Musica che risuona negli spazi lasciati dagli accordi, con una melodia che sembra esitare ad emergere, quasi trattenuta inizialmente dalle note più gravi della tastiera e che poi s’arrischia un poco alla luce, verso la seconda parte del brano. Pigeons on the Wire sembra inizialmente poter procedere quietamente quasi solo per piano. Ma le frasi in dissonanza utilizzate da Karlsson vengono compresse dalla progressiva avvolgenza della batteria e del contrabbasso. Quest’ultimo procede per un certo tempo all’unisono con le frasi create dalla mano sinistra sulla tastiera del pianoforte. L’incedere ripetitivo degli accordi prosegue fino al punto in cui il brano sembra trasformarsi in una ballad ma l’effetto dura poco. Un assolo di Spering, col suo pensoso lirismo, riporta il clima alle fasi iniziali. Altri cambiamenti però aspettano il trio che alterna fasi di tensione ad altre più rilassate. L’andamento generale del brano sembra voler sfuggire alle definizioni, col suo insistito girovagare melodico e ritmico. Clock Out s’annuncia con una frase di piano impulsiva e ricca di dissonanze mentre la traiettoria musicale diventa quasi surreale. La musica perde contatti con i melodismi frammentandosi in una serie di fraseggi pianistici e di pungenti stimolazioni ritmiche. Il trio si lascia andare verso lidi improvvisativi frenetici anche se dalla metà in poi tutto si stempera, si distende, riacquista il respiro degli spazi più ricchi di tranquillità. Il finale è un rischiaramento progressivo, con suoni acustici ed elettronici che si mescolano trascolorando in lontananza, come un cielo sgombro di nubi dopo un temporale.

L’album del Daniel Karlsson Trio dimostra una coscienziosa progettualità che si manifesta in una serie di dialoghi e sovrapposizioni strumentali realizzati con sicurezza e scorrevole combinazione armonica. Non c’è nulla di troppo serioso in questa musica, anzi, il trio sembra impegnarsi a perseguire un fine ludico e narrativo tanto che talora il potere descrittivo degli interventi rende tangibili le immagini evocate, così come accade in alcuni brani. Impressiona, oltre alla chimica delle idee, il continuo confronto ad alti livelli di perizia strumentale, tanto che è impossibile restare indifferenti davanti al perfetto gioco ad incastro degli strumenti. Insomma, questo Sorry Boss è un gran buon lavoro e, dopo gli E.S.T., mi sembra che Daniel Karlsson Trio sia il miglior gruppo scandinavo che abbia mai ascoltato fino ad ora.

Tracklist:
01. Bus Stop Story
02. Sorry Boss
03. Last Minute
04. Heaven or Elsewhere
05. Happy Hour
06. Confidential Document
07. Pigeons on the Wire
08. Clock Out