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Articolo di Luca Franceschini, immagini sonore di Roberto Sasso

Vedere Glen Hansard dal vivo rientra tra quelle esperienze musicali che una volta nella vita vanno fatte per forza, non importa che uno sia fan o meno dell’artista irlandese.
Se la provenienza geografica e l’esperienza con gli Swell Season lo fanno accostare ad un certo “folk revival” che sta impazzando in questi anni (e che è forse una delle pochissime tendenze musicali fortemente riconoscibili di questo inizio duemila), dal vivo si tratta proprio di un’altra cosa, si parla di una dimensione poliedrica che lo rende poco inscatolabile all’interno di schemi prefissati.
L’Alcatraz, come location, è decisamente meglio del Limelight dove lo vidi quasi tre anni fa: del resto le sue quotazioni sono salite molto qui da noi. Palco piccolo come al solito, ma ottima affluenza e tanta gente giovane, a conferma che questo è un artista veramente trasversale.
Mi perdo i Lost Brothers, il duo acustico che ha aperto la serata, ma scambiare quattro chiacchiere con gli amici mi è onestamente sembrato meglio, visto che siamo arrivati sul posto tutti un po’ tirati.
Glen Hansard e la sua band di nove elementi arrivano sul palco alle 21 puntualissimi e si parte immediatamente con “Grace Beneath The Pines”, tenuta su completamente dalla sua voce e da una sezione d’archi ancora piuttosto in sordina.
La reale dimensione full band la assaggiamo con la successiva “Winning Streak” che messa così presto, in seconda posizione, fa capire che il nostro non ha nessuna intenzione di tenere per la fine le cartucce pesanti.

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Esecuzione perfetta in cui tutto funziona, dall’impasto vocale al tappeto d’archi, compresa la ripresa finale del ritornello, cantata in coro dal pubblico. Un brano meraviglioso, un’altrettanta meravigliosa resa live. Personalmente, non avevo quasi bisogno d’altro.
Già, perché Glen Hansard dal vivo è un fenomeno totale: non importa davvero che canzone stia suonando, perché ogni volta ti lascia intravedere l’anima e senti che da lì non te ne andresti più.
I dischi possono piacere o meno (“Didn’t He Ramble” ha messo d’accordo quasi tutti, però), si può discutere sulla qualità del repertorio ma sulle sue doti di performer non si può davvero dire nulla. Questo è anche merito di una band allargata e rodatissima, nonostante sia stata quasi totalmente rinnovata, che presenta una sezione archi tutta al femminile (Jeanie Lim alla viola e Simone Vitucci al violoncello) e una sezione fiati (Ronan Dooney e Curtis Fowlkes al trombone, Michael Buckley al sassofono) che si alternano e si combinano a seconda dei brani, creando una profondità unica e un’alternanza pieno/vuoto sempre molto suggestiva.
Il concerto dunque non è semplicemente una mera successione di brani: ci sono sezioni full band, poi a tratti Glen rimane da solo con la sua acustica, poi ritorna la band ma impiegata in forma ridotta, poi ancora full band, poi si ferma a chiacchierare con il pubblico raccontando le storie dietro a certe canzoni… ecco, è una festa più che un concerto. C’è la chiara sensazione che ci abbia aperto le porte di casa sua e che non si stia semplicemente esibendo ma stia condividendo con dei perfetti sconosciuti quel che davvero gli sta a cuore.

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Da buon irlandese, si ferma ogni tanto a chiacchierare, scherzando col pubblico e raccontando aneddoti sulla nascita dei vari pezzi. Rispetto all’ultima volta che l’ho visto, lo fa forse un po’ di meno ma è comunque imperdibile quando, a inizio show, si diverte a mimare pose effettate a beneficio dei fotografi sotto il palco (“non ne ho mai visti così tanti in tutta la mia vita”, dirà tra un verso e l’altro di “My Little Ruin”). Commuove e fa riflettere quando, prima di “Come Away To The Water”, svela come l’idea alla base del pezzo sia nata nel 1991 a New York quando, in una pausa delle lavorazioni del film “The Commitments”, si è imbattuto in strada in un enorme cumulo di effetti personali appartenenti ad un giovane omosessuale morto di AIDS, prendendo così coscienza di un dramma allora molto diffuso ma che il governo americano non amava discutere.
Imbarazzante e divertente al tempo stesso, quando racconta che la genesi di “Mc Cormack’s Wall” sta in una serata ad alto tasso alcolico passata assieme ad un’amica, con la quale, a detta sua, non si è poi “comportato in modo onesto” (con tutti i sottintesi del caso). Molto interessante (soprattutto per me, che sul significato di quel pezzo mi interrogavo da quando ne scrissi il mese scorso), peccato che ci dica anche che la tizia in questione, una certa Tara, sarebbe anche quella che si occupa del banco del merchandising. Lei però non sembra prendersela molto e sorride divertita (probabilmente sa che la conoscenza dell’inglese dell’italiano medio non è propriamente oxfordiana).

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La setlist come al solito spazia molto: “Didn’t He Ramble” è presente con sei pezzi su dieci (le cose migliori, per quanto mi riguarda), tutti di straordinaria resa, tutti che confermano la bontà di questo lavoro e anzi, la esaltano ancora di più. Di “Winning Streak” abbiamo già detto. Bastano poi il gospel di “Her Mercy” (con Glen che usa il pubblico al posto del coro femminile, con risultati più che discreti e alquanto divertenti) e la struggente “Mc Cormack’s Wall”, cantata seduto al piano elettrico, col vìolino che nel finale si lancia in una scatenata danza irlandese, per dire che è stata cosa buona e giusta esserci.
Non mancano neppure i brani dal precedente “Rythm and Repose” ma non molti, perché è già stato adeguatamente promosso l’ultima volta.
Ciononostante, pezzi come “Bird of Sorrow”, “Talking With The Wolves” (con la sua batteria campionata così fuori luogo eppure così splendida nel contesto) o “High Hopes” (crescendo vocale da brividi) si dimostrano per l’ennesima volta tra le migliori composizioni del nostro.
Arriva anche qualche outtake come la rockeggiante “Way Back in The Way Back When”, con un ritornello facile facile che scalda il pubblico a dovere, e “Didn’t He Ramble”, probabile title track mancata del nuovo disco. Un bel pezzo ma ci sta che sia rimasta fuori, nella scelta definitiva.

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Personalmente trovo che Glen Hansard dia il meglio di sé quando ha dietro la band lanciata alla massima potenza. Eppure, quando imbraccia la chitarra acustica le sue straordinarie doti di esecutore vengono fuori e la platea resta ipnotizzata a dovere.
Da questo punto di vista, “Leave” è da pelle d’oca, con l’intensità sprigionata talmente alta che non si fa problemi a rompere le corde (succederà più di una volta nel corso della serata).
Notevole anche “Back Broke”, sempre rimanendo in tema Swell Season, mentre i bis si aprono con Glen affacciato sulla balconata bassa del locale che, rigorosamente privo di amplificazione, esegue una “Say To Me Now” pazzesca, che neppure i cori del pubblico riescono a coprire. Subito dopo è raggiunto dal chitarrista Rob Bochnik per una delicata “Gold”, sempre dal repertorio di “Once”. Poi Glen ci svela che è il compleanno di Rob, viene portata una torta, si canta “Tanti auguri” tutti in coro e poi il suddetto dolce finisce in faccia al chitarrista, tra le risate di tutti.
Un bel siparietto, rincarato quando sul palco salgono i due Lost Brothers ad esibirsi in una scalcagnatissima versione di “Bella Ciao”, che ci hanno detto di aver suonato per strada a Napoli, qualche giorno prima. Conoscono solo una strofa e la ripetono all’infinito, col pubblico che sembra gradire parecchio.
Per fortuna la successiva è un’ottima “Corinna Corinna”, con Hansard relegato nella inedita veste di bassista.

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La chiusura è più che telefonata: “Falling Slowly” cantata assieme alla pianista Romy (bellissima voce la sua, credo che andrò a recuperare il suo disco solista), con una fan in sedia a rotelle portata sul palco per duettare (più che bene) sull’ultimo ritornello.
Poi, dopo una sempre ispirata “This Gift”, ci saluta tutti con una lunga versione di “The Auld Triangle”: nella migliore tradizione Irish Pub, i musicisti della band e i due roadie (bravissimi, tra l’altro) si alternano dietro al microfono per le varie strofe, col ritornello cantato a squarciagola da Glen e da quelli del pubblico che la conoscevano.
Finisce così, tra gli applausi scroscianti e strameritati, con il congedo veloce di uno che sa che tanto tornerà presto.
Tutto qui? Tutto qui, se non fosse che ci siamo dimenticati di dire che, più o meno a metà serata, è partita una “Drive All Night” da paura, una rilettura che ormai conosciamo ma che a me, che non l’avevo mai sentita dal vivo, ha fatto l’effetto di una botta in pieno stomaco. Non dico sia superiore a quella di Springsteen ma di sicuro è allo stesso livello. E direi che è giusto finire così. Perché uno che prende un pezzo del genere e riesce a farlo suo, non ha davvero bisogno che gli si dica più nulla.
C’è gente che dice che sia più bravo come interprete che come compositore, appunto. C’è del vero, indubbiamente. Ma forse è anche per questo che i suoi concerti sono sempre quella roba pazzesca che si è vista l’altra sera.

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