I N T E R V I S T A


Articolo di Luca Franceschini

Se la bolla dell’It Pop prima o poi esploderà, seguendo tutto sommato il destino di tutti i generi musicali che hanno raggiunto per varie circostanze e in vari momenti lo status di trend, di sicuro Qualunque non sarà tra le vittime di questa fine. Il suo percorso si è infatti svolto sempre in maniera differente rispetto agli artisti che vengono di solito raggruppati attorno ai soliti nomi di Calcutta, Gazzelle e decine di altri. Sin dall’esordio assoluto di Più simili ad Hannibal Lecter che a Gesù Cristo, passando per il primo album Mafalda, il Meteo e tutto il resto e al successivo Ep Il primo lunedì dell’anno, il suo percorso si è articolato maggiormente all’interno di un ambito che potremmo definire di “rock alternativo”, dove le inquietudini e le domande esistenziali erano espresse attraverso schitarrate potenti e melodie cantate con struggente intensità. Il ritorno, dopo quasi tre anni riempiti di concerti, silenzi e dall’interessante parentesi di Romboil pesce, avviene con Farmaci, un Ep di cinque pezzi che uscirà in autunno e di cui sono già stati anticipati due singoli, Mozzicone e Mafalda (quest’ultimo uscito proprio in questi giorni). Se sul fronte discografico continua il sodalizio con Costello’s, la novità sta nel team di produzione, composto dai sempre ottimi Fabio Grande e Pietro Paroletti, ormai veri e propri partner artistici dell’etichetta milanese. Ma attenzione a parlare di It Pop: l’impronta generale si è sicuramente modernizzata, gli arrangiamenti sono in qualche modo divenuti più leggeri, è entrata una maggiore componente elettronica; il songwriting però è rimasto sempre quello, intenso, qui anche maggiormente autoironico, ma ben lontano dalla superficialità esibita che si denota spesso in certe produzioni di quell’area. Cambia il vestito ma non la sostanza, insomma, per cui Farmaci rappresenta l’ennesima conferma di un artista in costante crescita, il cui talento è ancora fin troppo sottovalutato. Incontro Luca Milani nello stesso bar dove ci eravamo visti per la nostra precedente intervista. Siamo in un paesino della provincia di Milano, dove da qualche tempo è ritornato a vivere. Immerso nel verde, in una zona magari non bellissima ma tranquilla e serena, ideale per quattro chiacchiere in libertà, lontani dal caos cittadino e immersi in una vita che torna a rifiorire piano piano, dopo i mesi del lockdown.

Cerchiamo di riannodare i fili: cos’è successo in questo periodo di pausa?

Ero in un periodo confuso, non capivo che cosa stesse succedendo nella mia vita in generale e di conseguenza facevo fatica a fare chiarezza in ambito musicale. Io già ai tempi avevo fatto un Ep perché non sapevo bene in che direzione andare come suoni, tematiche… ricordo che ne avevamo parlato l’ultima volta. Le cose poi si sono complicate ulteriormente, sono entrato in dinamiche psicologiche da cui era difficile uscire e sono andato ancora di più in tilt. Per cui ho deciso di iniziare a definire tutte le mie varie priorità, a fare chiarezza, anche dal punto di vista dei suoni…

In che senso?

Ad esempio, io ho sempre ascoltato molto Rap, fin da ragazzino. Mi piacevano le prime cose di Mecna, Ghemon, Dargen D’Amico… però questa cosa qui non l’ho mai portata nella mia musica e mi sono sempre chiesto per quale motivo, visto che mi piace molto. E così ho pensato di consegnare questo pacco di cose confuse a Fabio Grande e Pietro Paroletti e dirgli: “Fate voi!”. Ci abbiamo lavorato parecchio in remoto, nel senso che mi mandavano delle proposte e io le valutavo, ci scambiavamo idee…

Non sei andato a Roma da loro?

Sì certo, una volta che abbiamo capito cosa volevamo fare, sono andato in studio da loro e l’abbiamo chiusa, le registrazioni le abbiamo fatte lì. È stato proprio un consegnare a loro tutta la mia confusione e cercare di capire che cosa ne avrebbero fatto, con quelle versioni embrionali dei pezzi…

Per “embrionali” intendi chitarra e voce?

Per lo più sì. Mi ha aiutato anche un po’ Bonetti (altro artista del roster Costello’s, anche lui con il nuovo disco in uscita il prossimo autunno NDA) che è venuto alcune volte a casa mia e mi ha messo su qualche tastiera, però il tutto rimaneva tutto troppo astratto, non c’era una definizione precisa. Quella è venuta solo grazie a Fabio e Piero.

Quindi sei soddisfatto?

Molto! Anche se alla fine sono uno dei soliti stronzi che vorrebbe cambiare sempre delle cose, che ha nuove idee anche quando il prodotto è finito, però diciamo che questo è il primo lavoro di cui sono contento al 100%!

Il Rap non è ancora entrato però…

No ma sta arrivando piano piano (ride NDA)!

A livello di produzione qualcosina si sente, in effetti. A questo proposito, mi pare che tu sia cresciuto molto nella scrittura. Certo, forse qualcuno potrebbe obiettare che hai sconfinato un po’ troppo nel campo dell’It Pop però, se anche fosse vero, sicuramente hai scritto delle canzoni profonde, credibili…

Io credo che si debba distinguere tra l’aspetto melodico e quello tematico. A livello melodico senza dubbio è molto più Pop, ma questo perché a me il Pop piace! In precedenza avevo già scritto cose molto più melodiche ma forse ero insicuro, mi vergognavo, quindi non le ho fatte uscire, puntando sempre su canzoni molto rock. Adesso invece ho acquisito sufficiente tranquillità per potere fare solo quello che mi fa felice. C’è entrato dentro molto Pop, qualche piccolo passaggio che è un po’ più Rap, soprattutto per i Beat. A livello di tematiche invece, parlo sempre della mia situazione, di come mi rapporto con la vita, un rapporto che è sempre stato un po’ disagiato. Se però quando è uscito il primo disco non avevo idea di che cosa stesse succedendo e con l’Ep qualcosa iniziavo ad intuire, adesso penso di aver acquisito una certa consapevolezza, so come gestire queste cose e quindi probabilmente la scrittura si è evoluta di conseguenza, è un po’ più a fuoco il modo con cui affronto certi argomenti.

Ph Federica Vismara

Giusto per fare chiarezza: questi pezzi sono nuovi o sei andato anche a recuperare roba più vecchia?

Li ho scritti tra il 2017 e il 2020. Mafalda, che è quello che esce questo venerdì, è il primissimo. Sono canzoni che mi hanno accompagnato in questi anni un po’ bui ma credo che dentro ci sia anche tanta positività.

Sono d’accordissimo ma ci arrivo dopo. Parlando invece degli arrangiamenti, credo che balzi all’occhio come il precedente Ep, con quelle chitarre molto pronunciate, si muovesse ancora in un certo ambito rock, con qualche leggero rimando all’Emocore, che so che tu ami molto. Questo invece è più “moderno”, per usare un termine banale. Credo che sia il frutto delle soluzioni che hanno trovato Fabio e Pietro, perché la loro impronta si sente molto…

Sì, anche se ovviamente gli input li ho dati io. Avevo già deciso che non avrei voluto fare qualcosa di simile all’Ep precedente, volevo un suono che rispecchiasse il mood che avevo addosso in quel determinato momento della vita e ci abbiamo lavorato in modo molto naturale, senza troppe pianificazioni o forzature.

Quello che mi piace tantissimo è che i pezzi sono appoggiati in modo molto leggero sugli arrangiamenti. La tua voce esce fuori molto bene, su tappeti sonori che, nella loro semplicità, sono perfettamente rifiniti.

Probabilmente anch’io ho acquisito maggiore consapevolezza di quello che posso fare con la voce e queste soluzioni semplici sono quelle che escono meglio rispetto alla mia voce, creano un mood rilassato.

Per quanto riguarda invece i testi, mi pare che se nell’Ep precedente mettevi in mostra le tue fragilità, quasi a lanciare una richiesta d’aiuto, qui il tutto è molto più spassionato ed ironico. Racconti sempre un tuo modo incasinato di rapportarti alla realtà ma allo stesso tempo mi pare che tu abbia raggiunto una certa accettazione di te, che è una cosa assolutamente positiva…

Sì certo! So che in me entrano certe dinamiche e che in parte bisogna migliorare ma va bene così.

E di conseguenza sei riuscito a fare un disco per così dire più “aperto”, positivo, come tu stesso dicevi prima. Non è un disco “preso male”, ecco!

Vero! Anche la produzione poi è molto leggera, non ci sono quelle chitarre che appesantiscono il tutto ma anche a livello di tematiche, nonostante non si parli di cose proprio allegre, il modo di affrontarle è molto diverso.

Parlando del tuo prossimo singolo, mi verrebbe da dire che anche tu, come Springsteen, hai un tuo nume tutelare, visto che l’hai già inserita da parecchie parti…

Eh, mi spiace per questa ragazza (risate NDA)! Quando ho scritto questo pezzo ero particolarmente giù e la nomino in una frase per dire che quel momento in cui stavamo assieme è stato effettivamente l’ultimo felice prima di questo grande buio. Poi in realtà il pezzo non è esclusivamente dedicato a lei, così come anche l’Ep in generale, si parla di tante situazioni “Post Mafalda” (ride NDA). Però sì, mi piace questa idea di creare una poetica personale, un po’ come I Tre Allegri Ragazzi Morti

Il titolo dell’Ep, “Farmaci”, allude indubbiamente alla tua situazione personale. Forse un po’ forte come idea, mentre invece la copertina sdrammatizza molto…

Beh, quella è una trovata grafica, nell’ottica di trovare un modo figo per presentare visivamente il progetto. La parola “Farmaci” invece non deve essere vista in senso letterale: non “medicine” ma piuttosto “tutte quelle cose che ti fanno stare bene”. È un po’ la chiave di questo mio periodo di vita. Sto affrontando un mio percorso psicologico e sto andando a focalizzare le cose che mi fanno stare bene e che vanno coltivate, separandole da quelle che invece occorre lasciare perdere. Poi io personalmente non ho assunto nessun tipo di farmaco: un po’ per paura ma soprattutto perché non ce n’è mai stato bisogno.

Normalmente abbiamo questa idea di trattare ogni situazione mentale come se fosse una cosa “anormale” e quindi tendiamo a non parlare di un certo tipo di problemi, li censuriamo. Tu invece hai sempre avuto una certa sincerità e una grande libertà nel raccontarti ed è un aspetto di te che ho sempre apprezzato…

Alla fine credo che chiunque trarrebbe grandi opportunità dall’andare da uno psicologo. Viviamo in una società frenetica, dove le priorità sono tutte sballate, serve per mettere a fuoco quelle che sono le cose davvero importanti. Non ho nessun problema a parlarne e anzi, credo che farlo possa servire ad alcuni come input per affrontare certe situazioni.

“Razzomissile” parla di fuga, che è un po’ un tema universale, oltre che nel titolo c’è una certa eco da cartoni giapponesi…

È la canzone più leggera di tutto l’Ep ed è nata un po’ per cazzeggio. Abitavo ancora a Milano, faceva un caldo assurdo e tutto quello che pensavo era che volevo scappare, perché a me il caldo dà veramente fastidio! Ho preso la chitarra e mi è venuta fuori la bozza del ritornello, con parole inventate ma tra cui c’era dentro “razzomissile”. Dopo parecchio tempo ho ripreso in mano la bozza e ci ho costruito sopra una canzone vera e propria, tenendo bene fissa quella parola, che volevo assolutamente usare. Sì, parla di fuga ma è anche metaforica, intende il bisogno di costruire la vita su qualcosa di solido, che non siano le solite menate.

Questa cosa che tu dici si collega a “Diversivo”, che conclude il lavoro e nel quale tu dici che “Non saremo felici mai”. Il tutto ha un respiro leggero, ben lontano dalla disperazione esistenziale, per cui mi verrebbe da chiederti che cosa intendi tu per felicità…

È una domanda molto difficile ma credo che per felicità si debbano intendere dei brevi momenti che ci separano da un periodo di sofferenza o anche solo da uno di crescita personale. È il culmine di un percorso prima che ne inizi subito un altro. Per questo motivo dura molto poco, è improbabile che rimanga per troppo tempo, quindi io penso che non saremo mai veramente felici. Nonostante tutto, i momenti di felicità arrivano. La vita dopotutto è questa cosa qui, è ricercare la felicità.

C’è una ragione particolare per cui hai deciso di utilizzare “Mozzicone” come primo singolo?

È l’ultimo pezzo che ho scritto ed ha coinciso con un periodo di ricaduta all’interno di dinamiche mentali che pensavo mi stessi lasciando alle spalle, quindi mi sono detto che avrei dovuto scrivere qualcosa ed è uscita Mozzicone. L’ho scritta in pochi minuti, è stato un processo rapido. La decisione di usarla come primo singolo non è stata troppo calcolata, visto che bene o male tutti i brani si prestano per questa funzione. Al di là del ritornello molto catchy, probabilmente è quella che si ricollega di più al discorso precedente, perché è molto cantata, rispetto ad esempio ad un brano come Verdeacqua, che ha un po’ più di ritmo nelle strofe ed è più vicina ad un certo mondo “Graffiti Pop”.

Si potrebbe dire quindi che scrivere per te sia terapeutico?

Quando dico: “Oggi mi metto a scrivere”, in realtà non faccio altro che comporre una melodia su degli accordi, mettendo le parole a caso. Di solito scrivo i testi quando mi ritrovo in una condizione apatica. Arriva sempre un momento in cui non sono né felice né triste ma percepisco che c’è qualcosa che non va. È sempre una maschera di un qualche disagio che non voglio affrontare, mi chiudo in un guscio per non guardare in faccia la tristezza. Quando arrivano quei giorni lì, scrivere è terapeutico perché è un modo per arrivare ad affrontare certe situazioni, certe dinamiche emotive senza per forza doversi martellare i coglioni. Normalmente, quando l’ho fatto, sono in pace, riesco ad accettare più facilmente il modo in cui sono fatto. Di base è così, non credo che potrei scrivere a comando. Poi magari domani trovo la felicità eterna e smetto del tutto di scrivere (ride NDA)!

Il che ci riporta all’eterno dilemma se l’arte scaturisca dalla sofferenza oppure possa essere praticata anche all’interno di una situazione di appagamento…

Dipende da cosa fai, dai motivi che ti portano a fare musica. Per me è molto naturale, in quei momenti lì mi metto a scrivere, forse perché so già a livello inconscio che è la cosa giusta da fare…

Sei un grande appassionato di serie Tv e anche in queste nuove canzoni le hai citate. Recentemente ho letto “The Game” di Baricco e lì dentro lui dice che le Serie Tv sono un tipico prodotto dell’età della Rete, dice che rappresentano il perfetto incrocio tra il cinema e Internet. In effetti, più si va avanti, più mi rendo conto che come prodotto e come modo di comunicare, incarna proprio quelle che sono i bisogni e i modi di essere delle nuove generazioni. Voglio dire, è più facile che un ragazzo oggi passi del tempo guardando una serie, piuttosto che un film…

Sono d’accordo e credo che dipenda da diversi motivi: banalmente, passiamo molto più tempo con noi stessi, siamo molto connessi e guardiamo poco la televisione. La serie dura molto di più di un film e dunque ti tiene compagnia, crea delle dinamiche interessanti nel portare avanti la storia, è molto più facile affezionarsi ai personaggi, ci sono tante sotto trame che vengono caratterizzate in un certo modo. Questo è senza dubbio il motivo più pratico. Poi, se siano davvero lo specchio della società attuale non saprei, probabilmente tutti i prodotti narrativi rappresentano in un certo senso l’epoca in cui sono usciti. Parlavo l’altro giorno con Carmine (Esposito NDA), il mio chitarrista, sentivamo un pezzo di Pretty Solero dove c’è dentro anche Carl Brave e gli dicevo che sono proprio contento di avere 27 anni oggi e di poter ascoltare musica che, secondo me, è la musica più bella che possiamo ascoltare oggi. E lui mi ha risposto che probabilmente tutte le generazioni hanno fatto questo ragionamento!

Credo anch’io. Che poi ammettere questo sarebbe il modo migliore per smettere di ripetere quanto siano stati belli gli anni Settanta…

Ogni prodotto che ha a che fare con i media rappresenta la contemporaneità, che sia musica, cinema, serie Tv. Poi se una cosa piace di più, è semplicemente perché riesce a raccontare il proprio tempo meglio di un’altra.

Anche perché altrimenti, se davvero la “vera musica” è accaduta solo in una certa epoca, chi non ha vissuto quella dovrebbe spararsi. Come diceva giustamente Cosmo (intervistato da Riccardo De Stefano per il libro “Era Indie” NDA): “Non ci può essere un miglioramento o un peggioramento. Se ci fosse un parametro ok, allora vuol dire che è migliorato o che è peggiorato. Negli anni Settanta c’era questa voglia di sperimentare, di tirare fuori roba nuova, invece negli anni Duemila c’è stata una fisiologica stanchezza. Non vuol dire che i Duemila sono peggiori, vuol dire che le cose hanno fatto il loro corso”. Ecco, sono cose che penso da una vita ma per fortuna le ha dette anche lui, che è un po’ più autorevole di me…

Banalmente, l’autotune, così tanto demonizzato, oggi c’è, lo usano in tanti e più viene usato, più si impara a farlo meglio, la gente si abitua e le cose che escono sono belle. Che cos’è l’autotune? Non è niente, è semplicemente un mezzo, uno strumento. Sarebbe come dire: “Mi fa cagare il banjo!”. Va bene, ci sta, però se tanti lo amano è normale che si faccia anche musica con quello…

La musica utilizza mezzi e linguaggi differenti. Bisogna giudicare solo sul modo in cui questi vengono usati: c’è chi lo fa bene e c’è chi lo fa male…

La grande svolta di uno come Contessa, per dire, è stata proprio che dieci anni fa si è inventato un modo diverso di raccontare le cose, che ha avuto un grande successo perché ha intercettato un’esigenza di sentire canzoni che parlassero un linguaggio diverso, perché quello tradizionale le nuove generazioni lo sentivano superato. Poi col tempo uno si famigliarizza con un certo tipo di codice espressivo ed impara anche ad usarlo meglio. Da ascoltatore, all’inizio l’autotune non mi piaceva ma col tempo mi sono abituato, oltre che secondo me hanno imparato ad usarlo molto di più!

Tornando alle serie Tv, cosa hai visto ultimamente?

Sono sempre molto in fissa con la fantascienza. Ho visto l’ultima stagione di “Expanse”, che è un caso unico perché Netflix l’ha chiusa ma Prime l’ha comprata per continuarla; poi ho recuperato “Man in the High Castle”, che non avevo ancora visto e poi sto aspettando “Utopia”, che dovrebbe uscire a breve: è una serie del 2012 che era stata chiusa dopo una sola stagione e che a me era piaciuta tantissimo. Adesso Prime l’ha comprata e ne ha fatto un remake. È un po’ un misto tra Kill Bill e Dark Gently, una storia molto particolare! Di Mainstream invece cosa ho guardato? Probabilmente niente (ride NDA)! No beh, alla fine me ne vedo un sacco. Ho visto “La casa di carta”, ho visto “Patriot”, che mi è piaciuta molto perché affronta delle situazioni da commedia in modo molto scuro, ridi per cose di cui ti rendi conto che non dovresti ridere…

Ma Rombo – il pesce che fine ha fatto (La band che Luca ha messo in piedi assieme a Carmine Esposito, Gabriele Branca e Alessio Profeti, ispirata alle sonorità di gruppi come Gazebo Penguins e Fast Animals And Slow Kids NDA)? Era partito benissimo ma poi non è più andato avanti…

(Ride NDA) È stato tutto un grande cazzeggio! Lo abbiamo fatto unicamente per divertirci ma poi abbiamo iniziato a ricevere una serie di proposte da varie etichette. Ci ha fatto piacere ma non doveva essere una cosa strutturata, era solo un passatempo estemporaneo. Abbiamo fatto un disco registrato in casa, in un’atmosfera di grande serenità e abbiamo fatto due date che tra l’altro sono andate sold out, è stato bellissimo! Poi basta, l’abbiamo lasciato lì!

Era bello, quel disco!

Era una bomba! Probabilmente riprenderemo in mano la cosa ma anche qui, sempre in maniera molto leggera!

Hai intenzione di organizzare qualche data quest’estate?

Se si potrà, volentieri, anche perché “Mozzicone”, rispetto ai miei standard, sta andando molto bene. Mi piacerebbe quindi poter fare qualche concerto perché finché rimangono numeri, questi ascolti sono sempre un po’ astratti. Penso che ancora per un po’ sarà difficile organizzare situazioni grandi quindi magari noi piccoli saremo un po’ più tutelati. Il culmine del fare musica per me è la situazione live quindi se capita qualcosa, ci sarò!

È un bel casino questa situazione, vero?

Sicuramente per gli addetti ai lavori come roadie e fonici non è per niente facile ma penso che in realtà il problema generale del settore musica non vada ricercato in questa circostanza specifica e in come è stata gestita da parte dello stato. Probabilmente ci sono in atto una serie di dinamiche che nemmeno io so e che non funzionano così bene da poterla gestire in modo da tutelare di più i musicisti. Quindi se questa situazione cambierà le cose in modo da avvantaggiare i musicisti, ben venga. Ma non me la sento di dire: “Lo stato se n’è fregato!”. Lo ha fatto, certo, ma probabilmente per motivi preesistenti…

Del resto è una conseguenza dell’atteggiamento che la politica ha sempre avuto nei confronti della musica e dell’arte in generale…

È vero, però gli artisti secondo me stanno vivendo una situazione abbastanza privilegiata. Che poi è un ruolo che io reputo fondamentale, il loro, però forse le tutele dovrebbero arrivare prima in altri settori. Molto spesso la musica non produce entrate per lo stato, ci sono delle situazioni in cui ci si organizza per pagare meno tasse possibili, per cui ci può stare che ad un certo punto decida di privilegiare ciò che gli porta più entrate.

In effetti c’è chi ha trovato paradossale che proprio ora i musicisti chiedano aiuti al governo, dopo che per anni si sono posti in maniera conflittuale o per lo meno antitetica… però io li capisco, anche perché non è che vivere di musica sia semplice, tranne che per pochissimi nomi…

Certo, sono d’accordo. Anche se, ripeto, la priorità deve essere per chi ci lavora, per gli addetti ai lavori. Questi dovrebbero essere trattati come normali impiegati. Chi fa le canzoni, per come la vedo io, è in una situazione diversa…

Tu dici? Spiegami meglio.

Se domani non si guadagnasse più niente dalla musica, ci sarebbe comunque gente che continuerebbe a farla. Questo dimostra che è un’esigenza. È un campo che è pieno di gente che lo fa gratis, che ci prova, non penso che siano i primi ad essere tutelati, considerando che è un lavoro che farebbero comunque. Poi mi rendo conto che la mia è una posizione da stronzi, eh!

Probabilmente la soluzione sarebbe tornare ad una forma di mecenatismo. Lo suggeriva Rossano Lo Mele nell’editoriale dell’ultimo Rumore, riprendendo uno scritto del 1947 di Henry Miller, dove il succo era più o meno questo: l’artista dovrebbe essere messo nella condizione di creare liberamente, senza pressioni ma questo è possibile solo se qualcuno fosse disponibile ad investire i propri soldi in un progetto di cui si intravedono le potenzialità ma che non esiste ancora in termini concreti…

È un altro modo di vedere la faccenda, certo. È vero che quando qualcuno inizia a guadagnare con la musica e può permettersi di fare quello dal mattino alla sera, i lavori che produce dopo sono molto meglio, si vede.

Può anche essere vero il contrario, però: c’è quel luogo comune per cui nei primi lavori un artista o un gruppo butta dentro tutto di sé, la rabbia, il desiderio di farcela e poi dopo rischia di diventare più scontato, di andare col pilota automatico…

Credo dipenda dalle persone: alcune in effetti possono sedersi e affrontare il tutto come un lavoro, il dover scrivere una hit per portare a casa i soldi… non credo ci sia una risposta univoca. Bisogna anche contestualizzare il tutto nella società in cui viviamo. La domanda di musica è forte per cui ci sarà sempre gente che la farà. Nel momento in cui lo fai, sei un privilegiato, quindi non so se potresti chiedere dei soldi. In una società ideale, ben vengano i mecenati! Ma al punto in cui siamo, non lo vedo possibile. L’artista poi non vende direttamente un prodotto, utilizza servizi terzi, Spotify, la Siae… non vende direttamente quello che fa. Voglio dire, se un domani non dovesse più esistere la Siae, chi pagherebbe gli autori? Questo per dire che il discorso di tutelare gli artisti è importante ma poi non è così semplice capire come farlo nel concreto…