R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Mi sorprendono sempre un po’ ma generalmente in senso positivo gli ibridi tra gruppi jazz – un quintetto in questo caso – e le formazioni di archi. Questo perché si tratta, in linee generali, di connubi ad elevato rischio di promiscuità. Da un lato si dovrebbe scantonare dall’effetto trappola che gli stessi archi, per loro natura, possono esercitare sugli strumenti classici di una formazione jazz. Dall’altro evitare di creare incroci pericolosi che tendano inconsapevolmente a svilire violini e violoncelli, sottoposti a eccessivo stress ritmico che lo stesso jazz, per sua sincopata costituzione, è portato a esprimere. In questo disco non si pongono comunque problemi di incompatibilità. Utilizzando una metafora sportiva potremmo affermare che non ci sono impreviste invasioni di campo e i ruoli di ogni strumento appaiono ben definiti e mai soverchianti. Cristiano Pomante si comporta molto “democraticamente” senza sopravanzare gli altri compagni d’avventura, lasciando ad essi grande spazio di manovra.

Già allievo di Andrea Dulbecco il nostro sembra non allinearsi all’impronta di altri conosciuti vibrafonisti, così come invece ha fatto un altro giovane musicista come l’americano Joel Ross riconoscendosi nell’influenza di un maestro della caratura di Milt Jackson. Pomante, invece, molto coraggiosamente, assomiglia a questo ipotetico Libero pensatore con cui egli ha scelto di titolare il proprio lavoro, libero nelle intenzioni e nei programmi. Da queste parti si preferisce un dialogo aperto in cui ciascuno crea un proprio universo narrativo senza perdere di vista la traccia principale della composizione. La poesia di questi racconti segue un ritmo di comparse e dissolvenze, come accade nel brano di apertura, l’evocativo Point of view, e prosegue col piano di Claudio Filippini che rappresenta un punto di riferimento importante per tutto lo svolgersi del disco e che nel susseguente To Clara raggiunge forse il massimo d’espressività. La musica si snoda a frammenti, talora facendo affiorare suggestioni classicheggianti, come ad esempio in Orange sky, oppure in Eyes of the sun dove riaffiorano alla memoria, almeno nelle parti iniziali, i quartetti cameristici di Anton Webern o del modernissimo Beethoven in maturità, per poi andare a trasformarsi in una perifrasi rock con la chitarra in distorsione di Marco Gioncardi a lavorare in sottofondo. In Fantasia emergono reminescenze dall’est europeo ma comunque Pomante ed il suo gruppo non si dimenticano del jazz. Questo emerge a volte d’improvviso, comparendo come un’inattesa fioritura tra una rimembranza e l’altra, sussistendo per qualche istante e poi tornando a nascondersi in un gioco d’ombre e di luci, una visione di un paesaggio dal finestrino d’un treno in corsa da cui appaiono e scompaiono rapidamente costruzioni architettoniche, boschi, città. Riconosciamo anche, nell’ultima traccia che intitola il disco, un lontano profumo di oriente in quelle quattro note ripetute del piano ad imitazione dello shamisen giapponese come in certe soundtrack di Ryuichi Sakamoto. Se si può manifestare un benevolo appunto a questo lavoro è proprio riguardo all’eccessiva eterogeneità musicale che oscura, a volte, il desiderio di un binario più costante ed omogeneo. Una maggior linearità di percorso, in fondo, non avrebbe guastato.

Tracklist:
01. Points of view
02. To Clara
03. Eyes of the sun
04. The art of being fragile
05. Fantasia
06. Orange sky
07. Gioco di ombre
08. Libero pensatore