R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Confesso di essermi avvicinato a questo disco di Alex Hitchcock, Dream Band, con una certa dose di scetticismo e circospezione. Quando leggo sulla stampa internazionale aggettivi iperbolici come “incredibile”, “unico”, “talento fantastico” ecc… che riguardano proprio questo giovane saxofonista inglese, giunto al terzo disco da titolare – escludendo gli E.P. e il lavoro in coppia con Tom Barford – mi chiedo se effettivamente tutto questo entusiasmo sia giustificabile o se invece ci si trovi davanti ad una delle innumerevoli “next big thing” che mensilmente popolano le riviste specializzate. Poi scopro che Dream Band è stato realizzato con l’impiego di tre gruppi “da sogno” tutti diversi – 15 musicisti in totale – e i miei dubbi hanno continuato ad aumentare, facendomi pensare ad una sorta di guazzabuglio strumentale o comunque ad una seria discontinuità espressiva tra i diversi brani proposti. Invece mi sbagliavo di brutto. Hitchcock è indubbiamente un musicista con caratteristiche virtuosistiche che vengono espresse misuratamente ma che si estrinsecano alla bisogna con autentiche esplosioni di idee. Il suo sax tenore possiede a tratti una morbidezza molto suadente e altre volte una decisa ma contenuta aggressività, mantenendosi tuttavia ben lontano da certi guizzi rabbiosi di molti suoi giovani colleghi. Fraseggi a volte serrati ma comunque pieni di respiro, spesso con andamento circolare, realizzati con un suono che mi ha ricordato gli istanti più tranquilli di un Sonny Rollins o certe escursioni come quelle di Bobby Watson. Addirittura, nell’unico standard presente nell’album, Azalea di Duke Ellington, Hitchcock s’avvicina alla timbrica di Ben Websterprovare per credere – segno che il giovane sassofonista britannico ha molte frecce al suo arco e sa mutare pelle a seconda delle circostanze.

Le tre band di cui si accennava poc’anzi intervengono ciascuna nei diversi brani e per comodità le definiremo 1, 2 e 3, specificando quale delle tre interverrà nelle singole tracce. L’aspetto migliore di questa triplice possibilità è che il salto da un gruppo ad un altro non viene avvertito e l’album conserva una conforme qualità omogenea, senza bruschi stacchi o improvvise soluzioni di continuità. Il tono complessivo di questo lavoro è sufficientemente rilassato e anche nei momenti più carichi di tensione tutto sembra svolgersi con estrema naturalezza e fluidità. La band n.1 è formata da Midori Jaeger (voce e violoncello), Will Sach (basso), Jas Kayser (batteria) e Deschanel Gordon (pianoforte). La n.2 è invece strutturata con Noah Stoneman (piano), Ferg Ireland (basso), Jason Brown (batteria) e Luisito Quintero alle percussioni. Infine la terza “dream band” comprende un altro sax tenore, quello di Chris Cheek, Cherise Adams-Burnett alla voce, Will Barry al piano, Joe Downard al basso, Shane Forbes alla batteria e David Adewumi alla tromba.

Si comincia con Wolf and Nina con la band n.1 in azione e la splendida, toccante voce della Jaeger che aggiunge qualche nota pizzicata del violoncello in aggiunta al contrabbasso mentre Hitchcok sviluppa il suo assolo, dopo una breve introduzione al piano. La melodia è molto complessa, presumo anche difficile da intonare, eppure tutto sembra così naturale e gradevole che un inizio migliore di questo non si sarebbe potuto sperare. Yeshaya vede invece all’opera la band n.2. Il brano ha un ritmo serrato e spezzettato da un’ottima batteria – quella di Jason Brown, forse il miglior batterista tra i tre – e dopo l’inizio di sax ascoltiamo un bell’assolo di piano che prelude ad un secondo, ficcante intervento di Hitchcock, di cui ammiriamo il fluire denso, caldo, impegnato in una lirica e scorrevole focosità. La terza band si presenta con Intro che è un vero preludio al brano che seguirà, To love itself.  In quest’ultimo la Adams-Burnett interviene doppiando il sax in unisono. Il pezzo si svolge leggero, fluttuante, con questa doppia melodia cantata in contemporanea da voce e sax. Mi ricorda qualche accenno del primo Pat Metheny nell’andamento dolce e altalenante delle parti, con un assolo ben marcato di contrabbasso prima e di piano poi. Devo dire che anche e soprattutto negli assoli è difficile rimarcare le differenze tra i tre pianisti che si alternano nell’esecuzione dei brani dell’album. Un ascolto “a cieco” potrebbe facilmente ingannare chiunque. Outro conclude degnamente To love itself, con la trama pianistica di sottofondo ed un altro unisono che vi si stratifica, questa volta realizzato tra sax e contrabbasso. FSTL inizia con una nota “re” di piano ribattuta e la tromba di Adewumi che comincia a tratteggiare i limiti della composizione in cui, presto, si presenterà un altro percorso in sincrono, questa volta con il sax dell’ospite Cheek a muoversi a braccetto assieme alla voce della Adams-Burnett. L’assolo di tromba resta anch’esso in quell’ambito soft che è un po’ l’impronta riconoscibile dei fiati – ma non solo – in tutta la prima parte del disco.

Con Move 37 ritorna alla ribalta la band n.2, caratterizzata da una ritmica latina per merito delle percussioni di Quintero. Nonostante il ritmo del musicista venezuelano inietti una certa dose di spigliatezza in più, insieme al contrabbasso di Ireland che s’impegna in un assolo prevalentemente contratto sulle note più gravi, prevale comunque la moderazione complessiva. Il sax vola, la batteria sostiene il gioco lavorando molto sui piatti, il suono è brillante ma contenuto. Azalea di Ellington odora di buon, vecchio standard di classe con il contrabbasso che a note pizzicate reintroduce la band n.1. Mentre il sax “websteriano” duetta con l’emozionante e vibrante voce della Jaeger, si ha l’impressione di ascoltare una modalità esecutiva d’altri tempi. Tra i brani migliori dell’album, quasi perfetto nel suo incedere un po’ romantico e un po’ demodè. Con Embers ritroviamo la band n.2. Il duetto si sposta tra sax e batteria – sempre Brown ai tamburi, il mio giudizio positivo su di lui è ancor più confermato – ma anche il contrabbasso fa qui un gran lavoro di cucitura. In questo brano il gruppo si lascia maggiormente andare, l’energia frenata fino ad ora con classe e misura ribolle tra le mani dei musicisti. Ritorna la band n.1 con lo splendido Overcome any Obstacle with a horse. Questa vola la Jaeger non canta ma fa invece vibrare le corde del suo violoncello che s’accompagnano a dei perfetti accordi consonanti di piano impostando una linea melodica calda e sensuale. Altro duetto e parziale unisono tra sax e violoncello che fa pensare a molta parte scritta in questo album, al di là della naturale improvvisazione. Una certa aria swingante prende poi il sopravvento con l’assolo di sax: si tratta di un vero e proprio profluvio di note sostenuto questa volta dalla batteria di Kayser che non lesina accompagnamenti con piatti e decise rullate. Simulacra attacca alla maniera bebop con la band n.2. proponendo un’intro veloce di contrabbasso. Man mano che ci si avvicina alle note finali dell’album sembra che i ritmi si facciano più serrati e il clima del classico jazz dei ’60 irrompa soprattutto con il piano di Stoneman che s’avventura in una serie di passaggi stretti alla Oscar Peterson. Mentre la ritmica tira il fiato è il sax di Hitchcock che dialoga con sé stesso, assistito dal piano a cui spetta il compito di seguirlo fin verso le battute finali del brano. Chiude la band n.3, ancora in ossequio, come nel caso della traccia precedente, alla classica suggestione da hard bebop dove il sassofono di Hitchcock questa volta pare dilungarsi, forse un po’ troppo, in una serie di preziosismi. Ma la tensione energetica raggiunge il massimo e forse è proprio per questo motivo che si consumano tutte le ultime cartucce disponibili senza risparmio.

Poca “pancia”, tutto sommato, in questo album ma molto equilibrio tra testa e cuore, con un suono di sax veramente apollineo e un gruppo di musicisti che se, non proprio da sogno, sanno come ammaliare l’ascoltatore.

Tracklist:
01. Wolf and Nina
02. Yeshaya
03. Intro
04. To love itself
05. Outro
06. FSTL
07. Move 37
08. Azalea
09. Embers
10. Overcome Any Obstacle with a Horse
11. Simulacra
12. And Then