R E C E N S I O N E


Articolo di Luca Franceschini

A sentire Josh Evans, che lavora col gruppo dal 2008 e che ha co-prodotto il disco assieme alla band, la regola che i cinque si sono dati per queste nuove canzoni è stata “nessuna regola”: sperimentare tutte le idee che potessero venire fuori, sovraincidere, assemblare le varie parti, far sembrare elettronica una batteria che invece è suonata totalmente in modo tradizionale (è il caso di “Dance of the Clairvoyants”), inserire piccoli loop elettronici e chitarre a dodici corde suonate da Matt Cameron (“Alright”). Tutto questo lo ha raccontato al sempre ottimo Claudio Todesco, un’autorità quando si parla di Pearl Jam e le parole di colui che per la prima volta dopo diverso tempo ha sostituito in studio Brendan O’ Brien (anche questa una novità, in effetti) ci riportano uno scenario quasi idilliaco, dove la band ha lavorato in tutta calma (ci hanno messo quasi tre anni, tra una cosa e l’altra), quasi mai assieme (ma gli anni passano e non si può certo pretendere da degli over 50 lo stesso atteggiamento cameratesco ed entusiasta che avevano agli esordi) e con la seria intenzione di realizzare qualcosa di memorabile.

Ecco, da qualunque parte la si voglia guardare, questo mi sembra il punto più interessante: perché se i Pearl Jam del post Lightning Bolt (il peggior disco della loro carriera, penso sia una delle poche affermazioni su cui tra i fan potrebbe esserci la maggioranza assoluta) hanno ancora voglia di mettersi in discussione, quando potrebbero tranquillamente timbrare il cartellino con un tour mondiale ogni due anni o giù di lì, è già un buon punto di partenza. Specialmente se si considera che l’unico inedito pubblicato in questo lungo iato di sette anni, Can’t Deny Me, oltre che raccapricciante, pareva davvero buttato lì con noncuranza, giusto per avere qualche cosa da suonare nei nuovi concerti (che poi, per fortuna, l’hanno pure proposta relativamente poco). 
Quindi, è davvero un nuovo album, vuole essere davvero un passo avanti. E questo a prescindere dai risultati. Perché quando sei a questi livelli, quando hai dato così tanto, anche trovare nuovi stimoli potrebbe essere un problema. 
Partiamo dunque con i festeggiamenti: abbiamo dodici canzoni per quasi un’ora di musica, abbastanza per farsi perdonare di averci fatto aspettare così tanto. 
Poi, se proprio dovessi rispondere alla domanda su come sia questo Gigaton (e immagino di doverlo fare, visto che mi sono messo a scrivere) direi semplicemente che è meglio di Lightning Bolt. “E non ci voleva molto!” direte voi. Sì, non ci voleva molto ma non era neanche così scontato. 
Quindi, per capirci, c’è un disco che ha un titolo bruttino (i fan di Greta Thunberg avranno pure esultato ma diciamocelo, il titolo è brutto e la copertina pure) ma che è un disco dove la band si è sforzata di scrivere brani che nascessero sul serio da uno sforzo creativo e che non fossero solo il riempitivo di una carriera che non avrebbe più bisogno di altro materiale inedito. Ribadisco, sono motivi più che sufficienti per festeggiare. 
Entrando più nel dettaglio, c’è tanto di buono ma c’è anche parecchio di insipido e alla fine dell’ennesimo ascolto la sensazione di occasione sprecata non si riesce proprio più a mandare via. 
Eravamo partiti benissimo, perché Dance of the Clairvoyants, con quelle sue inedite tastiere anni ‘80, il ritmo Funk della strofa, il vago sentore di Talking Heads, la struttura elaborata e imprevedibile, poteva pure senza troppi problemi essere inserito tra le più grandi canzoni della band degli anni Duemila. 
I fan più oltranzisti sono rimasti nel complesso scandalizzati (ho monitorato i commenti su pearljamonline e per come la vedo io, se l’utente medio di quei portali lì è incazzato, vuol dire che siamo sulla strada giusta) e quasi ci siamo concessi di sperare che il resto potesse essere all’altezza. 
Già la successiva Superblood Wolfmoon era intervenuta a smorzare gli animi ma in fin dei conti, quell’up tempo rockeggiante, così simile nel feeling a cose del secondo periodo come “Evacuation” e “Big Wave”, non era poi così male. È quello che i Pearl Jam sanno fare meglio, ormai, e quel tipo di pezzi non devono essere poi così ragionati, basta che funzionino. 
L’ascolto del disco ci ha bene o male messo di fronte ad episodi di entrambi i tipi: ci sono le cose più coraggiose, quelle che potremmo definire “sperimentali”, almeno nell’ottica di una band che ha fatto la storia del rock e che tira avanti soprattutto col peso del proprio nome e poi ci sono quelli che i fan vogliono sentire. Per fan, non intendo ovviamente i nostalgici del Seattle Sound (non credo che esistano ancora, dopotutto, e se esistessero non sarebbero certo lì a seguire Vedder e soci) bensì tutti coloro che hanno amato la band da No Code in avanti, accettandone il nuovo corso e, sono i peggiori ma tutti abbiamo diritto di esistere, quelli che l’hanno scoperta attraverso le gesta soliste del suo cantante e che ripetono in loop quanto sia emozionante Black

Inutile dirvi che i miei pezzi preferiti stanno nella prima categoria: Who Ever Said, che ha un bel piglio rock, molto old school ma che si evolve subito in maniera interessante, bypassando la struttura tradizionale con un break centrale molto riuscito, dove la melodia si apre e poi va giù a capofitto con un crescendo d’intensità, fino a sfociare nel secondo ritornello. Non elaboratissima ma senza dubbio un bel biglietto da visita, posta così in apertura. Poi apprendiamo da Evans che è una di quelle a cui hanno lavorato di più in sala prove e siamo ancora più soddisfatti. 
Del primo singolo abbiamo già detto, fosse stato tutto su questo livello staremmo scrivendo un’altra recensione ma questo pezzo c’è e allora lasciatemi dire che quando tireremo le somme di fine carriera, ce la ricorderemo di sicuro. 
Poi c’è Quick Escape, che al di là dei facili ammiccamenti testuali a Queen (ma perché?) e Led Zeppelin e la solita trita retorica a metà tra Beat Generation e antitrumpismo, è un mid tempo potente ed incalzante, col basso di Jeff Ament in grande spolvero e linee vocali molto riuscite. 
Seven O’ Clock, è forse la migliore, quasi profetica nel suo raccontare di tempi difficili in cui bisogna tenersi su a vicenda, un Josh Evans in grande spolvero a tenere su tutto, un rallentamento nel ritornello molto inusuale, a fare da contrasto a strofe molto più ritmate e saltellanti, un finale di grande intensità anche se la voce di Eddie Vedder è solo un bel ricordo del passato. 
Dovremmo aprire questa parentesi, in effetti. Il grosso problema di questa band, credo di averlo scritto più di una volta, è che negli anni è divenuta sempre più succube del suo cantante. Non è stata colpa di nessuno in particolare ma tra dischi e tour solisti che ne hanno amplificato la visibilità e arricchito il già solido bagaglio di carisma, è davvero difficile sganciarsi dalla sensazione che i Pearl Jam non siano più un’unità indissolubile con due soli cambi di formazione in trent’anni, bensì “il gruppo di Eddie Vedder”. Il quale, sia detto chiaro e tondo e non me ne frega nulla di essere attaccato dai soliti talebani, ormai non ne ha più. Ci sono diversi momenti, in questi 56 minuti, in cui arranca, in cui manca di potenza, in cui è evidente come l’età e probabilmente anche un incauto utilizzo dei propri mezzi nei primi anni di carriera, siano finalmente arrivati a pagare pegno. Dal vivo, se mai ci sarà un tour, vista la situazione, sarà durissima. 
E allora viene ancora più l’amaro in bocca a scoprire che quasi metà della tracklist è composta da ballate semi acustiche, scritte da lui o comunque da lui pesantemente influenzate, con l’apice in una Comes Then Goes dove, stando alle impressioni, suona totalmente in solitaria. Se guardate sul solito Forum, vedrete che si sta gridando al capolavoro. Per quanto mi riguarda, se escludiamo un testo di altissimo livello, che si dice sia dedicato a Chris Cornell (in realtà non ci sono elementi a cui appigliarsi, potrebbe essere ma anche no) si tratta del “solito” pezzo di Eddie Vedder. Gioca sull’emozione, è intenso ma alla fin fine è manierismo puro. Non volontariamente, è ovvio, ma ormai è così, la sua scrittura è stereotipata e se va avanti così rischia seriamente di diventare la caricatura di sé stesso. 
Va allo stesso modo con River Cross, posta in chiusura, che di fatto nasce come brano suo e che era già stata suonata qualche volta dal vivo (chi c’era la scorsa estate a Firenze l’aveva già ascoltata): Pump Organ, quattro accordi, un crescendo, tanto feeling ma rimane molto poco, quando tutto è finito. 
E faccio fatica a parlare di Alright e Buckle Up: scipite e insignificanti, mentre solo leggermente meglio risulta Retrograde, che ha un chorus indovinato ed un piacevole feeling orchestrale. 
Quando pigiano sull’acceleratore, invece, le cose vanno decisamente meglio: Never Destination e Take the Long Way sono scontate ma divertenti, senza particolari pretese ma scalda il cuore vedere che questi signori di mezza età godano ancora così tanto nel suonare del sano rock and roll; e soprattutto che un chitarrista come Mike McCready si diverta con gli assoli come un ragazzino; avete presente una cosa più anacronistica di un assolo di chitarra nel 2020? 
E quindi questo è Gigaton per il sottoscritto. Certifica che i Pearl Jam sono ancora vivi, merita l’attenzione di chiunque, anche dei fautori della novità a tutti i costi e quelli che “No, io ormai quei gruppi lì non li considero più”. Nonostante tutto, a parte qualche bel pezzo e a tutte le considerazioni che si facevano in apertura, non fa che confermare quella vecchia regola non scritta per cui, dopo un tot di anni, il repertorio di qualunque band storica smette di essere storicamente rilevante. 
A parte, ovviamente, per i fan ma quello è un altro discorso. 

Tracklist:
01. Who Ever Said
02. Superblood Wolfmoon
03. Dance of the Clairvoyants
04. Quick Escape
05. Alright
06. Seven O’clock
07. Never Destination
08. Take The Long Way
09. Buckle Up
10. Comes Then Goes
11. Retrograde
12. River Cross