R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

C’è un sottile e misterioso filo che lega indissolubilmente le culture tribali africane e le avanguardie artistiche. In arte, quel filo prese le forme della cosiddetta “Art Négre” che legò, per esempio, un artista come Amedeo Modigliani all’arte tribale. Ma fitti legami formali corrono anche tra l’arte africana primitiva e moltissimi altri artisti della prima metà del Novecento, a cominciare dal mostro sacro di tutte le avanguardie, ovvero Pablo Picasso, ma certamente non furono immuni da questa forte e significativa contaminazione, artisti come Matisse, Braque, Giacometti, Brancusi, Arp e tanti altri. Anche le avanguardie musicali hanno un debito di riconoscenza con l’Africa, a cominciare dal jazz naturalmente, e non solo per motivi puramente anagrafici, ma anche per motivi strettamente concettuali. Dovremmo necessariamente partire da qui per commentare un lavoro assolutamente straordinario come Deconstructing Monk in Africa del duo (che sembra in realtà essere una intera orchestra), formato da Giancarlo Schiaffini al trombone e Sergio Armaroli a tutto il resto, ovvero balafon cromatico, water drum, calebasse, talking drum, mbira, shaker(s), bull-roarer, percussioni. 

Il disco è uscito a gennaio per l’etichetta Dodicilune, una suite della durata di un’ora dove, partendo dal raffinato dadaismo jazzistico di un mostro sacro come Thelonious Monk, i due musicisti decostruiscono un percorso, fatto di citazioni coltissime, ritmi primitivi e ancestrali, blues, sequenze, accenti rallentati, sonorità libere e rumoristiche. Quasi una carta topografica sonora che ci porta attraverso un’Africa simile a quella di Raymond Russell che ebbe l’ardimento di intitolare il suo romanzo più famoso “Impression d’Afrique”, scritto col metodo dell’omofonia della frasi. Ecco anche Deconstructing Monk in Africa è in realtà una “impression d’Afrique” e non una Africa vera. Ed in questo risiede la genialità dei due musicisti, quella di aver trovato una chiave di lettura “non mimetica” di interpretazione dei ritmi tribali, proprio sulla scorta della capacità ironico-compositiva di Thelonious Monk. E allora se non siamo al capolavoro, poco ci manca. Basta incominciare ad ascoltare questa meraviglia per non riuscire più a discostarsi da essa: un “labirinto neandertale” dentro la sonorità primigenia, intrapresa da due musicisti che sembrano aver sciacquato i loro panni nel Reno di Darmstad, magari dopo aver incontrato Ligeti e Stockhausen; e in effetti Giancarlo Schiaffini, non solo li ha incontrati, ma li ha anche frequentati e questo incontro non poteva che lasciare un segno indelebile, come fu anche  quello con lo straordinario gruppo Nuova Consonanza in quegli incredibili anni che furono i Settanta. L’accoppiata con Sergio Armaroli è straordinaria, nel segno della sperimentazione più coraggiosa e vista la provenienza dal “free” di quest’ultimo: “artista sonoro” come ama definirsi, ha prodotto la soave, impetuosa e minimale tempesta perfetta che costituisce questo lavoro. Un discorso a sé andrebbe fatto per l’elettronica, usata in maniera magistrale, senza prevaricazioni, senza i soliti esorbitanti frastornamenti. Potremmo dire “un’elettronica parca” che sembra essere nata nei recinti dei villaggi africani, insieme ai latrati del trombone, al puntillismo del vibrafono e alle improvvise rincorse e alle decelerazioni bulimiche di certe composizioni di Monk. Due musicisti con due curriculum “da paura” che non vogliono addomesticare il suono e nemmeno vogliono farsi addomesticare da esso. Concedetevi un’ora in un altro mondo, un viaggio fuori dal comune, non c’è bisogno di autocertificazioni, di passaporti, solo di coraggio mettendo da parte il pregiudizio e facendovi trasportare dal cuore e dalla mente. Musica “sconfinata”.

Tracklist:
01. Deconstructing Monk in Africa