I N T E R V I S T A


Articolo di Francesca Marchesini

I Balthazar sono un gruppo di origine belga che viene fondato nel 2004 da Maarten Devoldere, Jinte Deprez e Patricia Venneste; ai tre polistrumentisti dall’anima indie rock, si aggiungono Christophe Claeys alla batteria e Simon Casier al basso. Con questa formazione producono i loro primi tre album: Applause, Rats, Thin Walls. Nel 2015, purtroppo, arrivano a uno stallo creativo e i membri della band si prendono una pausa; Venneste e Claeys lasciano il gruppo mentre gli altri si dedicano ai loro progetti solisti. I Balthazar, rinnovati nella composizione e nel sound, ritornano nel 2018 e nel 2019 pubblicano l’album Fever; alla lavorazione di questo disco più pop e ballabile si aggiungono il batterista Michiel Balcaen e il polistrumentista Tijs Delbeke.
Il 26 febbraio 2021 i Balthazar rilasciano il loro quinto album in studio, Sand. Ho avuto l’occasione di parlare dell’LP con Maarten Devoldere (voce e testi); abbiamo discusso della produzione del disco in un così delicato momento storico, del tema centrale dell’album e delle evidenti influenze R&B e jazz sul rinnovato sound del gruppo.

Ormai i concerti sono un lontano ricordo, ma, nel 2019 (Firenze Rocks), ho avuto la fortuna di vedere una vostra performance dal vivo; sul palco si percepisce la vostra essenza polistrumentista perché, oltre ad esserci due cantanti principali, ogni musicista suona svariati strumenti. Come cambia invece il vostro approccio in fase di registrazione e come avete lavorato durante la pandemia?
Sicuramente, in questa occasione, la creazione di un album è stata affrontata in modo diverso. Abbiamo iniziato a scrivere i brani durante il tour di Fever e avevamo pianificato di ritrovarci tutti insieme in studio per le registrazioni; poi, c’è stato il lockdown e abbiamo dovuto cambiare i nostri piani: abbiamo cominciato a registrare da casa, concentrandoci singolarmente su certe parti. Abbiamo lavorato più del solito con l’elettronica, sperimentando l’utilizzo di bass synth e sample di batteria, e ci riteniamo più che soddisfatti del risultato. Questo diverso modo di registrare si è rivelato come una sfida per noi, che ci ha permesso di essere più creativi e, in questo senso, credo si sia rivelata un’esperienza molto interessante.

Ascoltando i vostri ultimi lavori in studio, è molto evidente come il tuo progetto solista e quello di Jinte Deprez abbiano influenzato il sound di Fever e Sand. A livello stilistico, Fever sembra una proiezione del tuo lavoro come Warhaus mentre Sand ha un fortissimo legame con la produzione J.Bernardt. Si è trattata una vera e propria scelta musicale, o piuttosto una casualità?
Si è trattato più che altro di un processo naturale. Quando fai nuove esperienze, o ti dedichi musicalmente a qualcos’altro, diventa poi normale riproporre ciò che si è acquisito. In generale, quando lavoriamo ad un album non pensiamo prima al concept o alla linea melodica; lasciamo che la produzione sia più come un flusso di idee e, alla fine di tutto, valutiamo se fare dei tagli. In questo caso ci è semplicemente piaciuta l’idea di portare avanti i suoni influenzati dall’R&B.

Vorrei parlare con te del tema dell’album. Il titolo Sand si riferisce al passare inesorabile del tempo, al simbolismo della clessidra; poiché Sand è il secondo album che pubblicate dopo la “pausa creativa” del periodo 2015-2018, potrebbe riferirsi anche al tema delle sabbie mobili e al rimanere artisticamente bloccati?
Sinceramente, non ci avevo pensato… effettivamente si potrebbe riscontrare un legame con l’idea che la mancanza di creatività, in musica, porta inevitabilmente a ritrovarsi intrappolati nelle sabbie mobili. Nella realtà però, l’album vuole rivelarsi come l’esatto opposto di questo concetto; l’abbiamo concepito come un invito al continuo movimento e all’essere sempre più artisticamente ambiziosi.

Pensando a una domanda più filosofica, qual è quindi il messaggio dell’album? Parlate del tempo che scorre, volete richiamare un atteggiamento alla carpe diem?
Rifacendomi alla mia personale filosofia di vita, direi che è più indirizzata verso un “le cose che devono succedere, succedono”. È un concetto che poi si ritrova anche in Sand: il tempo va avanti e non si può fare nulla per fermarlo, per questo risulta necessario focalizzarsi sulle proprie azioni e decisioni.

Ci sono tre canzoni che, secondo me, meglio riassumono l’album: Moment, On A Roll e You Won’t Come Around. Si parla, ovviamente, del passare del tempo, ma in questi brani si parla tanto anche di perdita e dell’amore…
Sì, è vero, si parla molto di perdita. Durante la scrittura dei brani io stavo affrontando la fine di una relazione, è per questo che nel disco si ritrovano svariate break-up songs. Alla fine, la produzione di brani risulta sempre come un ottimo modo, per quanto triste, di superare la situazione. Con Sand si è presentata una coincidenza quasi divertente: quando lavoravamo a Fever, Jinte stava affrontando una rottura; tutte le break-up songs, in quel caso, sono state scritte da lui. A distanza di qualche anno ci siamo scambiati di ruolo.

Parlando di amore e jazz, vorrei farti un’ultima domanda sulla traccia Powerless. Quando ho ascoltato questa canzone, l’ho immediatamente ricollegata al film La La Land e al brano Start A Fire che John Legend ha prodotto per la colonna sonora. C’è una qualche possibilità che il film, o l’idea di rinnovare il jazz, vi abbiano ispirato?
Ho visto il film La La Land, ma no, non è tra le “esperienze” che sono risultate influenti; è vero, però, che mi piace molto l’atmosfera che può essere generata dal suonare il piano con uno stile jazz. Mi sono ritrovato a studiare e usare molto il pianoforte per il mio progetto solista, Warhaus, e questo si è riversato evidentemente su Sand. Anche se l’album ha delle note jazz, il tipo di suono a cui volevamo avvicinarci di più sicuramente era quello R&B e, pensando al nostro lato più pop, la musica dance anni Settanta.

 

Photo credits ©Alexander D’Hiet