R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Non conosco il motivo del ritardo riguardo alla pubblicazione di questo nuovo disco di Amit Friedman, Unconditional Love. Finito di registrare nell’estate del 2018, forse per l’intoppo pandemico che ha colpito duro anche Israele, il terzo lavoro da titolare di Friedman esce solo ora a quasi tre anni di distanza dalla sua realizzazione. Giustamente celebrato in patria, meno conosciuto oltre confine, Friedman conduce il suo sax, soprattutto il tenore, verso una dimensione brillante di sonorità limpide e aperte, con un fraseggio spesso serrato ma estremamente preciso nell’articolazione. Il suo modo di suonare forse non presenta caratteri di estrema originalità ma si allinea, a mio parere, al percorso di altri sassofonisti come l’americano Eric Alexander, perlomeno nei momenti di soffio più spinto. Nei brani più lenti Friedman non si lascia mai andare alle svenevolezze, ventilando qualche somiglianza al soprano con Javier Girotto o forse anche con Paul McCandless degli Oregon, per certe intenzioni melodiche dal sentimento leggermente malinconico. Con una dedica al proprio padre, appassionato di jazz che gli ha evidentemente trasmesso questo trasporto, Friedman edita Unconditional Love forte dell’apporto ben strutturato del suo gruppo che lo segue in questo percorso.

La formazione si compone del bravissimo pianista non ancora trentenne Tom Oren, di Gilad Abrad al contrabbasso, Yonatan Roses alla batteria, Amos Hoffman all’oud, Rony Ivryn alle percussioni. Completano la band gli interventi vocali di Joca Perpignan e Doron Talmon. Il disco suona del jazz formalmente rigoroso ma accattivante, piacevole e lineare, aprendosi occasionalmente con l’oud di Hoffman a qualche sonorità più tradizionale propria della terra medio-orientale d’origine dei musicisti. Home at last è il brano che esordisce nella tracklist ed è strutturato in due parti distinte. Si annuncia inizialmente con un’intrigante linea melodica che accanto al sax viene percorsa all’unisono dal piano e dal contrabbasso. Poi c’è un brevissimo arresto che fa pensare al capolinea e invece, da qui in poi, il brano prende decisamente quota e Friedman dimostra tutto ciò che sa fare, cioè fraseggi lunghi, veloci e uniformi ben sostenuti dalla ritmica. Segue Mal-mal, parecchio melodico che deve molto al pianismo cristallino di Oren. La traccia viaggia lungo i binari di una certa cantabilità mai stucchevole e sempre intimamente intrecciata allo sforzo ritmico del contrabbasso e della batteria. Name droppin’ conserva parte dell’orecchiabilità relativa del pezzo precedente ma qui il sax si prende tutto lo spazio che desidera e si lancia in un lungo assolo, seguito in un secondo tempo dal pianoforte che non gli è certamente da meno. Si giunge così alla title track di questo disco, cioè Unconditional Love. Qui siamo nel regno della ballad e il sassofono canta letteralmente una canzone, lenta ed espressiva, con l’accompagnamento dello “snare brushing” – le spazzole sfregate e trascinate sul rullante – come accade in tutte le ballate che si rispettino. L’atmosfera si fa più “nordica” e generica, sembra, infatti, di ascoltare il Martin Tingvall Trio con l’aggiunta del sassofono. Rill-rool è proprio il brano che mi fa venire in mente il paragone delineato poco prima con Javier Girotto e i suoi Aires Tango, per quell’aria d’Argentina che percorre l’intero sviluppo musicale. Il sax e il piano gareggiano in un duetto testa a testa evidenziando tutta la loro grande tecnica espressiva.

Blues for Jackito è un’immersione nel post bebop, in un clima Bluenote anni ’60, con ritmi sincopati, molto swing ed altrettanto abbondante mestiere e in aggiunta perfino il classico assolo di contrabbasso verso il finale. Rimanendo nell’ambito della canzone è la volta di Alma, con la voce suadente del cantante e percussionista d’origine brasiliana Joca Perpignan, naturalizzato israeliano e membro dell’Idan Raichel Project. Gli influssi sudamericani che si erano percepiti in Rill-rool si avvertono in modo ancor più marcato in questa traccia, lasciando un sapore strano, come se il gruppo si fosse geneticamente trasformato per l’occasione in qualcosa di diverso da sé. Sunset viene accarezzato dal suono dell’oud che con un assolo molto espressivo continua l’approccio profondamente melodico impostato in questa seconda parte del disco e lo manterrebbe tale se non fosse per uno scatto di generosità di Friedman che si slancia in un mood quasi parkeriano verso la chiusura. Torna la forma canzone con Stride by stride con la voce pulita di Doron Talmon, la bionda trentacinquenne cantante israeliana che in certe inflessioni vocali mi ha fatto ricordare Stacey Kent. Si chiude con una sorpresa. Una delle più belle canzoni di Paul McCartney, il valzer Junk tratto dal suo secondo album uscito nel 1970, praticamente subito dopo lo scioglimento dei Beatles. Un brano che scivola liscio come l’olio sulle note dell’elegante approccio di Friedman, rispettoso della melodia ma che trova modo e tempo anche per un moderato timing d’improvvisazione.
Alla fine dell’ascolto di tutto questo Unconditional love mi ritrovo a pensare a quell’imprecisato numero di ottimi musicisti jazz sparsi nel mondo che non hanno forse quel “quid” che li renderebbe inconfondibili per emergere come meriterebbero. Comunque sia questo è un lavoro elegante e di classe superiore, che si fa apprezzare per la facile fruibilità e la mancanza di asprezze.

Tracklist:
01. Home at Last
02. Mal-Mal
03. Name Droppin’
04. Unconditional Love
05. Rill-Rool
06. Blues For Jackito
07. Alma
08. Sunset
09. Stride by Stride
10. Junk