Articolo di Simone Santi

[se volete sapere perché un’altra rubrica che tratta di letteratura, vi invito a leggerne l’introduzione]

E così siamo giunti alfine alla terza parte, secondo la divisione stabilita per questo articolo, con la quale si conclude la serie che realizza attraverso la trattazione di tre sonni/sogni il breve excursus che abbiamo intrapreso nel tentativo di delineare almeno in abbozzo i rapporti riconoscibili tra la poesia di Dante e l’esperienza visionaria in somniis et in vigilia – durante il sonno e da svegli. Nella prima parte abbiamo visto e ipotizzato una chiave di possibile interpretazione del sogno riferito alla madre del poeta dal Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante, quando la donna già aveva concepito ed era in attesa di lui; nella seconda parte abbiamo invece sollevato i primi veli dal sogno ricevuto da Dante a seguito dell’incontro con Beatrice e riportato, sia in versi poetici che nella prosa del commento, nel capitolo terzo di Vita Nova; un’osservazione avveduta delle immagini oniriche ha evidenziato come in entrambi i casi esaminati, attraverso  la visio in somniis fossero rivelati avvenimenti della vita futura del poeta e allusioni alle forme (carismatiche) e ai fini (in pro del mondo che mal vive) della sua speciale chiamata al compimento della vita come della sua scrittura.

In questa parte conclusiva, nello specifico non ci occuperemo di un sogno, piuttosto cercheremo di cogliere la natura di un genere particolare di “sonno” nel quale Dante cade in diversi momenti del suo viaggio oltremondano nella Comedìa e nel caso specifico alla fine del canto III dell’Inferno.
Dopo l’incipit rappresentato dai canti I e II, preparatori all’altro viaggio, il canto III si apre con l’ingresso per la porta dell’Inferno. Attraversato l’Antinferno e lasciate alle spalle le anime degli ignavi, Dante raggiunge insieme a Virgilio il fiume Acheronte, superato il quale si approda alla riva del regno infernale. Il compito di traghettare le anime che qui giungono verso l’altra sponda, dove il giudizio divino le ha destinate per avere esse scelto sulla terra la via del peccato, e di traghettare con esse anche Dante, eccezionale visitatore dell’aldilà in quanto ancora vivente nel suo corpo, per volontà e per grazia divina, è la figura inquieta e temibile di Caronte. Superate da Virgilio le resistenze del nocchiero ad accoglierli sulla barca, lui e Dante salgono insieme alle anime che senza più speranza lamentano la sorte che le attende una volta che saranno gettate dall’altra parte.

Durante l’attraversamento, ad un certo momento la terra è scossa da un grave tremore, si leva un turbine di vento e nell’aria oscura balena una vampa di fuoco. Per il gran spavento e per lo stordimento causato da quel gran fragore, Dante perde i sensi e nell’ultima terzina scrive : “caddi come l’uom cui sonno piglia”. All’inizio del canto IV, allorchè viene risvegliato da un profondo boato che“ruppemi l’alto sonno ne la testa”, egli si ritrova dunque sull’altra sponda dell’Acheronte che costituisce già il margine esterno del primo cerchio dell’Inferno, il Limbo degli spiriti magni.
L’episodio ora descritto appartiene alla fenomenologia dei deliqui in cui in molteplici occasioni il poeta cade. Talora si tratta di reazioni che possono apparire molto umane, allo stesso modo che il lagrimar che gli suscitano circostanze profondamente coinvolgenti per la loro intensità emozionale e tensione etica. Un episodio affatto simile è quello che si verifica poco più avanti, alla fine del canto V, al termine delle spiegazioni che lo spirito dolente di Francesca porge a Dante sulla vicenda dello sciagurato amore tra lei e Paolo Malatesta, causa della loro morte violenta nella vita terrena e della loro condanna in quella eterna al secondo cerchio, tra i lussuriosi: sopraffatto per l’insostenibilità del sentimento di straziante pietà suscitata in lui dal loro racconto, il poeta viene meno “com’io morisse. E caddi come corpo morto cade”. Anche stavolta, “al tornar de la mente” Dante non si risveglia in quel luogo, ma già nel successivo terzo cerchio.

Uno sguardo più accurato su questi fenomeni può già riconoscere che non si tratta di un semplice espediente narrativo a cui il poeta ricorre, e il loro ricorrere in precisi momenti chiarisce che la loro natura non è solo psicologica-emotiva. Come si legge nel racconto di questi episodi, ogni volta che Dante viene preso da questi “sonni”, ogni volta si risveglia da un’altra parte, in un altrove che rimanda allegoricamente ad un passo successivo nel percorso spirituale rappresentato dal viaggio.
Un parallelo utile per la sua perspicuità si ritrova nella religiosità persiana mazdea. Al capitolo XXII dello Zaratusht-Nameh, un lungo poema composto in Iran da uno zoroastriano nel XII secolo, leggiamo di Zoroastro che al suo ingresso nella terra mitica/mistica in Eran-Vej incontra l’Arcangelo, il quale gli dice: “Chiudi un istante gli occhi.” e Zoroastro li riapre in paradiso. Anche qui, analogamente a quanto abbiamo visto prima, la temporanea “perdita dei sensi” è la condizione necessaria all’uomo, sia a Dante così come a Zoroastro, ricordiamolo ancora viventi nel loro corpo, di accedere a un piano superiore dell’esistenza e della conoscenza.

Sul piano fenomenologico questi stati di deliquio e perdita di coscienza possono richiamare ed essere assimilati agli stati catalettici quali si determinano nelle esperienze estatiche dei mistici. Anche su un piano di esperienza carismatica, quella sperimentata da Dante e da Zoroastro è una esperienza di ex-stasis, un’uscita dell’anima dal corpo che viene temporaneamente chiamata ad un contatto diretto con la divinità e con la sfera del sacro, da cui dovrà ricevere la visione che il mistico avrà poi il compito di tradurre con parole umane e riportare agli altri uomini – “e quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive” .
In Egitto al tempo dei faraoni il sonno era vissuto come una forza impersonale che si impadroniva degli uomini, riducendoli in uno stato di inerte incoscienza tale da provocare una temporanea uscita dell’anima dal corpo. Per questa ragione secondo le dottrine misteriche il sonno rappresentava una prima iniziazione alla morte. Il dio Bes, divinità minore del pantheon egizio a cui erano riconosciute particolari prerogative di protezione dai demoni e dagli spiriti pericolosi, era il dio che presiedeva ai riti di iniziazione, i quali avevano lo scopo di condurre il candidato in uno stato di morte simbolica all’interno del quale egli avrebbe subito un processo di trasformazione spirituale tale da consentirgli di rinascere con una nuova identità; lo stesso dio Bes era anche il guardiano preposto alla porta dei sogni, senza il cui permesso nessuno, né uomo né demone avrebbe potuto passare.

Gli antichi sapevano riconoscere tra le diverse forme di sogno quelle appartenenti alla più generale categoria della visione. Tale conoscenza apparteneva ad una sapienza che si è trasmessa in diverse correnti attraverso i secoli e forse i millenni, per quanto una cultura come quella nostra occidentale abbia operato capillarmente ora per demonizzarla, ora per irriderla, col risultato di avere indefinitamente ristretto il campo dell’esperienza umana comunemente ammessa. L’odierna fisica sta tuttavia riprendendo a riscoprire una visione della realtà che per certi aspetti recupera, attraverso il linguaggio scientifico che le è proprio, sapienze antiche che attraverso i secoli hanno parlato attraverso il linguaggio degli spirituali.
Ciò non significa chiaramente ritornare ad antiche e ormai inattuali visioni del mondo, ma ampliare la conoscenza della nostra esperienza umana di sensi e di stati della coscienza rimasti per troppo tempo sopiti in un sonno senza sogni.