R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
L’aria ha qualcosa a che fare con l’anima. Anima, infatti, viene dal greco ànemos che significa vento, soffio vitale. Ogni strumento a fiato è misura, in qualche modo, di un ànemos che proviene da dentro e che dà respiro allo strumento stesso. Le pause, quindi, sono i momenti dell’attesa, della distanza tra un’emozione e l’altra. L’aria è melodia che racconta l’intimità dell’uomo, il canto che viene dalla sua interiorità. Dove c’è aria c’è però anche fuoco che da essa trae alimento e che trasforma la stessa in calore e in energia. Il fuoco s’accende infatti tra i tasti del pianoforte, le fiamme si alzano in cerca dell’etere da bruciare. Aria e fuoco hanno quindi il loro momento circolare, una ruota che si alimenta spontaneamente e che lega questi due elementi primordiali in un circuito continuo. Enzo Carniel e Filippo Vignato sono rispettivamente il fuoco e l’aria, il pianoforte e il trombone, più qualche effetto elettronico, sparso qua e là. Due musicisti poco più che trentenni, il primo francese e il secondo vicentino, che narrano dell’anima senza sotterfugi, senza maschere, attraverso note vibratili che si muovono nella trasparenza dell’aria.

Dico subito che si tratta di musica di grande eleganza e di ottima struttura, creata con maturità e sentimento. Poesia contemplativa, attenzione alle sfumature, modernità armonica e quanto di meglio questa coppia di giovani musicisti poteva offrire. Ci troviamo alla periferia del jazz, sul confine della musica moderna tonale, laddove, oltre il limite, s’intravedono territori ancora inesplorati e rischiosi. Ma questo lavoro, Aria, resta al di qua, ancora ben ancorato a strutture melodiche piene d’invenzioni condivisibili, all’interno di un paesaggio che non ha pretese intellettuali ma solo desiderio di esprimere la propria interiorità. Gli spiriti sono inquieti, niente affatto pacificati. La visione del profondo non svela solamente calma e serenità, tutt’altro. Vi sono luoghi più scuri, temporali in lontananza, vampe di luce tra nuvole minacciose, quasi un atteggiamento romantico che a tratti emerge dalla musica. Poche delicatezze, molte ambivalenze ma questo infine è vero sentimento perché immune da stucchevoli accomodamenti.
Aria è anche il brano che introduce il disco. Ascoltiamo il fiato che scorre attraverso il trombone intonando una melodia cantabile, quasi un blues dissimulato. Sarà il piano, in un secondo tempo, a portarsi su scale che sfidano la tonalità, ad accendere le fiamme, ad illuminare il paesaggio di bagliori inaspettati. Il secondo brano in scaletta, Carla, è una dedica che inizia piena di dubbi, in cui trombone e piano s’affidano a qualche dissonanza. Si può percepire un conflitto inquieto in cui il dialogo tra i due strumenti sembra tracciare il ritratto di questa ignota presenza. Non è una canzone di solo amore ma anche di vaga incertezza e lo provano le battute finali, con quel suono strascicato sui bassi del trombone e l’arpeggio di piano che pare non volersi concludere.

In Babele la koinè sembra non volersi più realizzare attraverso il linguaggio solo parlato ma soprattutto per mezzo dell’espressione musicale che permette di scavalcarne i limiti linguistici. L’ottone stantuffa, grida, alza la voce: è sempre il piano che cerca melodicamente di mettere ordine attraverso una corsa tra scale in contropendenza, bellissime, che entrano ed escono dalla tonalità d’impianto con la velocità del vento. Stretched Mirrors è introdotto dal piano ed è forse il brano più classicamente jazz del disco. Il sapore è quello della ballad e qui la melodia mi ha ricordato la tromba di Enrico Rava, anche se in questo caso lo strumento a fiato è diverso. Earth Echo è musica immaginifica, paesaggistica, con ampio respiro del trombone e accordi pianistici che seguono praticamente nota per nota la melodia dello strumento di Vignato. Qualche coriandolo colorato del Fender Rhodes in sottofondo sembra quasi voler togliere un po’ di ridondanza alla composizione. Arbre d’Arain è il momento più complesso ed introverso dell’intero lavoro, sembra interamente improvvisato nella prima parte dove rischia più volte d’avvitarsi attorno a sé stesso. Meglio nella seconda sezione dove si evidenzia l’influenza jazzistica del piano che conserva comunque uno sviluppo lievemente forzato caratterizzato da continui cambi di tonalità e mutamenti d’umore. In In All Nilauptala l’ingresso è affidato ad una serie di accordi ribattuti della tastiera su cui il trombone costruisce la propria melodia fino ad un crescendo che non esplode ma si trattiene superando una pausa da cui parte uno sviluppo d’improvvisazione pura. La ripresa di Aria (Ariæ), in veste più elettronica ed effettistica, conclude l’intero lavoro senza peraltro nulla aggiungere al contesto. I due musicisti sono ben preparati, tecnicamente molto validi. L’idea di base è quindi il dialogo strumentale fondato su due opposti. Due strumenti che si cercano e si rispondono continuamente tra spazi, silenzi e qualche grido. Una coppia di giovani che promette di avere molte cose da dire anche nel prossimo futuro.
Tracklist:
01. Aria
02. Carla
03. Babele
04. Stretched Mirrors
05. Earth Echo
06. Arbre d’Airain
07. In All Nilautpala
08. Ariæ
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