R E C E N S I O N E


Recensione di Aldo Del Noce

Cogliamo una sorta di bi-partizione nell’approccio revisionista a Thelonious Monk da parte di due figure cooperanti in arte, distinte per profilo ma convergenti in spirito; tra svariate espressioni collaborative del trombonista romano Giancarlo Schiaffini (testimonial e portabandiera della nostra scena free dalla prima e più storica incarnazione) ed il vibrafonista milanese Sergio Armaroli (di fatto polistrumentista ma più ancora artista ed esteta poliedrico e multimediale) vi è un recente primo capitolo discografico (Deconstructing Monk in Africa, del 2021), ripartito tra una congerie di devices percussivi, per lo più etnici, evocanti lo spirito ‘afro’ del jazzman, ed il trombone solista, cui s’affidava la profilazione metropolitana e di ricerca del medesimo, con dichiarati riferimenti anche alla musica post-accademica europea.
Ad altri piani di de-costruzione i due puntano espandendo la formazione a quartetto, nella cui line-up non meraviglia la titolata presenza del contrabbassista friulano Giovanni Maier (già apprezzato per decadi di esperienze avant-garde) e, su suggerimento di quest’ultimo, l’arruolamento del giovane batterista sloveno Urban Kušar, particolarmente attento all’implementazione timbrica del proprio set strumentale.

S’apprezza dunque un approccio ulteriore, dispensato nella selezione pescante fino alla fine degli anni ’50, attingendo allo storico album Brilliant Corners come ad altri capisaldi quali Pannonica o Misterioso, comunque discostandosi alla precedente e complementare soluzione in forma di suite, dalla fisionomia libera e in parte “naturalistica”, orientata sulle composizioni blues, qui investendosi in un più ampio ventaglio repertoriale.
La drammaturgia riesce pertanto variamente configurata, cosicché nell’avvio la tempra marciante di Friday the 13th viene resa entro uno spirito apparentemente nonchalant, con un maggior compattamento d’insieme nella successiva Bemsha Swing; il tratto distaccato e le originali inflessioni scultoree della dedicataria Pannonica appaiono de-costruite in un carattere fluido ed intensamente onirico.
Una peculiare incarnazione dell’essenza gospel di Blue Monk è intessuta dalle lamine vibranti, e le movenze d’insieme suonano pervase da un intimo spirito ‘southern’; assai più swingante e spedita la riproposta di Misterioso, abitato da un importante interplay, transitante nelle figurazioni ben più astratte della seconda parte.
Allure capricciosa e spirito della sorpresa pervadono passaggi quali Evidence e Oska T, toccando l’epilogo nella disarticolata versione di Blue Hawk, tendente ad evidenziare fermenti free preconizzati con modalità proprie dall’irripetibile caposcuola.
Insomma, alquanto differenziato il ventaglio formale, su cui variamente s’investono i combinati istinti rappresentativi, che alla drammatizzazione più comunemente esperita sembrano preferire un legante fluido ed un certo grado di spettralità; ben distinte le traiettorie dei due strumenti di natura solistica, ruolo a tratti assunto anche dalle corde basse di Giovanni Maier, di scultoree nervature, non dovendosi ignorare anche l’impulso ritmico sostenuto in più parti da vibrafono e balafon, sostenuti e a tratti incalzati dal drumming tecnicamente scabro, ma pronto e saettante di Urban Kušar il tutto in una transitiva dimensione d’ascolto.

E, pur nel polimorfo stile d’insieme e nell’opportuno avvicendamento delle parti, diremmo che la neo-incarnazione monkiana tocchi eminentemente al veterano Giancarlo Schiaffini, non nuovo alla pratica e revisione di Monk, come abbiamo raccolto dalle sue dirette parole: “Risale al 1992 il mio primo approccio a Monk con un gruppo a nove elementi per un disco della Pentaflowers (“About Monk”). Qui ho soprattutto lavorato sugli arrangiamenti e ancor di più sui ri-arrangiamenti, cercando di meglio evidenziare le componenti più interessanti o più significative, o che forse erano tali per me. Un lavoro di smontaggio e ri-montaggio dei brani per cui, nel lavorare a quattro, ho poi condiviso la responsabilità con tutti. Ciò che nell’essenza ho tentato di fare è proporre una mia versione di Monk senza tradirlo”.

Si direbbe pertanto che il contitolare Sergio Armaroli oltre che improntare timbricamente il soundscape funga da bussola ispirativa come pure da controllore armonico e, non rinunciando alle naturali propensioni free-style e sottilmente sovversive, s’adopri a conferire al complessivo disegno una concezione labirintica. “Condivido l’impostazione di cui parli: concezione labirintica e intenzione sovversiva” secondo Armaroli. ”Ma mi preme una precisazione più tecnico-musicale: nel primo album in duo, il ‘Monk de-costruito’ prevedeva l’abbandono dell’improvvisazione sulla struttura armonica del blues e lo sviluppo estremo del concetto di variazione tematica che investiva anche l’aspetto timbrico (con una impostazione autenticamente novecentesca di melodia di timbri). In questo “Monkish” invece l’improvvisazione è condotta in un modo apparentemente tradizionale: tema e improvvisazione in un senso contrappuntistico, a quattro voci potremmo dire e in cui, ancora una volta, la struttura armonica è suggerita quasi “in negativo”.

Se di certo apprezziamo lo spirito colto del vibrafonista, non meno ne rileviamo lo stile espositivo in parte criptico, carattere del resto dispensato in buona parte dei passaggi del programma. E se la letteratura monkiana è stata rivisitata e reinterpretata anche secondo discendenze a volte impattanti e sanguigne (che non tradiscono lo spirito di revisione formale e in sostanza di rivolta del capitale autore e pianista), i presenti materiali palesano piuttosto un costruttivo ma mai costrittivo spirito ludico.

Si completa insomma un progetto ora esposto in due formule co-condotte da Schiaffini ed Armaroli, il quale conclude a commento per noi: “Tornando alla precedenti considerazioni, direi che il tutto di certo non ha una connotazione “politica” o sociale ma essenzialmente formale e musicale e, ancora, torno alla tua definizione di “naturale spirito eversivo”: mi sembra che metta in risalto uno stato di necessità che (e ne sono felice) non è poi così nascosto, sia nel mio modo di concepire il suono che di vivere “il jazz”… e poi, la musica come linguaggio mette sempre un certo ordine “formale” o meglio stilistico. Ma questo è un altro discorso… e riguarda più chi ascolta e percepisce il risultato complessivo. L’improvvisazione vissuta è sempre uno stato di disequilibrio ed anche di felice disagio; appunto un “naturale spirito eversivo” per non cadere nel formalismo (oggi imperante!)”.

Nella presente riproposta di materiali monkiani, si palesa come questi siano lungi dall’aver esaurito il potenziale germinativo ed ispirativo e, nella comune e fresca concezione, spiccatamente anti-mainstream, i quattro sembrano imbastire una sorta di wormhole trans-temporale che ci lascia riconfigurare il passato storico da un’ottica futuribile e meta-stilistica.

Musicisti:
Sergio Armaroli – vibrafono, balafon cromatico
Giancarlo Schiaffini – trombone
Giovanni Maier – contrabbasso
Urban Kušar – batteria, percussioni

Monkish sul sito DODICILUNE

Monkish su Spotify

Tracklist:
01. Friday The 13th (6:09)
02. Bemsha Swing (3:40)
03. Pannonica (3:37)
04. Blue Monk (5:17)
05. Misterioso (5:33)
06. Crepuscule With Nellie (3:05)
07. Blues Five Spot (4.27)
08. Evidence (2:16)
09. Raise Four (4:27)
10. Oska T. (6:31)
11. Ba-lue Bolivar Ba-lues-are (6:37)
12. Blue Hawk (6:25)

All compositions by Thelonious Monk