Intervista di Luca Franceschini

Quest’estate ho visto parecchi concerti ma i due di Willie Peyote occupano un posto speciale nella mia personale classifica. Il rapper torinese, vero nome Guglielmo Bruno, è arrivato alla maturità artistica e alla consacrazione commerciale con “Sindrome di Toret”, uscito lo scorso autunno e delle mille e più voci all’interno del panorama Hip Pop nostrano, la sua è indubbiamente tra le più interessanti. Ricchissimo a livello musicale, con uno spettro di influenze che pesca molto dal Neo Soul e dalla Black Music in generale, profondo e mai banale nei testi, con argomenti importanti affrontati però sempre con una certa leggerezza; per finire, un tiro pazzesco dal vivo, grazie ad una band bravissima e rodata, che garantisce esibizioni frenetiche dove stare fermi è praticamente impossibile. Il 23 novembre è partita l’ultima serie di date che chiuderanno il ciclo di “Sindrome di Toret” per aprirne un altro, si spera ancora più fortunato. Qualche giorno prima ho raggiunto Guglielmo per telefono, in una pausa tra le prove e i lavori di allestimento scenico e mi sono fatto raccontare un po’ quello che è successo quest’estate, cosa succederà da qui a gennaio, oltre che qualche riflessione sull’attualità e il valore di certe sue canzoni. Nel frattempo guardatevi le date e scegliete quella più vicina a voi…

Stai per iniziare l’ultima leg di questo tour. Ho visto che introdurrai dei fiati sul palco ed in generale hai anticipato che dovremo aspettarci qualche novità…
Il tour è appunto lo stesso del disco che è uscito l’anno scorso. Dopodiché, è la prima volta che in tutta Italia portiamo l’orchestra completa per cui abbiamo anche “rinfrescato” lo show, per così dire, con pezzi che non abbiamo mai fatto dal vivo. Non sono uno a cui piace fare spoiler però dico che se siete già venuti a vederci quest’estate, si tratterà di un altro concerto, lo posso garantire!

Una delle cose che mi colpisce molto di te è proprio che dal vivo ti porti dietro una band e il fatto che sei anche molto più ampio nelle tue influenze, c’è tanta Black Music nel tuo sound. Io penso che artisti come te, Ghemon, Salmo, abbiano davvero un valore aggiunto nel loro modo di proporsi dal vivo…
In realtà è un qualcosa che suona strano solo in Italia perché in America il rap è trent’anni che lo suonano con la band, noi invece non ci siamo ancora abituati. Dopodiché è vero che io, Salmo e Ghemon abbiamo un background molto più ampio, abbiamo suonato in altri gruppi e fatto altri generi, era naturale portare tutto in quello che facciamo oggi. La musica suonata a mio parere ha molto più calore delle basi: le basi ti impongono di fare un concerto sempre uguale, con la band è un concerto sempre diverso e proprio per questo è più interessante.

Ma secondo te il pubblico se ne accorge? Non parlo del tuo pubblico, che evidentemente sa cosa aspettarsi. Te lo dico perché mi è capitato di vedere diversi artisti Rap che utilizzavano le basi, fare concerti anche piuttosto confusi e raffazzonati ma a chi era lì sembrava non importasse molto…
Io penso che di certe cose se ne accorga anche un sordo! Nel momento in cui le due esperienze ti vengono messe accanto non puoi non sentire la differenza! Ovvio che se vai a vedere solo un concerto non lo noti ma se nell’arco della stessa sera suona un gruppo con la band e uno con le basi, la differenza è sostanziale, anche uno che non ha educazione musicale lo vede: le orecchie sono quelle, l’impatto sonoro è quello. Poi è ovvio che per fare musica non basta suonare ma bisogna anche essere circondati da gente che faccia suonare bene quello che fai.

So che sei andato a suonare allo Sziget, oltretutto la stessa sera di Kendrick Lamar: com’è andata?
E’ stata una bella esperienza: era una vita che volevo andarci, adesso mi ci hanno chiamato a suonare quindi direi che non potevo chiedere di meglio! Poi suonare la stessa sera di Kendrick Lamar è stato ancora più soddisfacente! È una bella situazione, ci sono persone da tutto il mondo, da tutta Europa, l’ambiente è incredibile, ci sono 50 palchi che suonano 24 ore al giorno, è veramente divertente! Ma a parte lo Sziget, quest’estate mi sono tolto altre belle soddisfazioni, tipo aprire Anderson Paak e far baldoria con lui nel backstage… è stata un’estate particolare! Poi lo Sziget è stato molto bello perché a rappresentare l’Italia c’eravamo solo io e Motta quindi eravamo davvero onorati dell’occasione che ci è stata data.

Com’è andato il tuo concerto?
Kendrick ha iniziato con 40 minuti di ritardo, è andato un po’ più lungo rispetto all’ora in cui doveva finire e quindi gran parte della gente è rimasta a vedere lui. Sotto il mio palco c’erano qualche migliaia di italiani, gli stranieri sono arrivati dopo, non moltissimi ma mi sembrava che apprezzassero. Molte persone sono andate anche dal fonico a chiedere informazioni per poterci cercare ulteriormente… non so, io l’idea di portare la musica italiana all’estero continuo ad averla per cui non è detto che sul prossimo lavoro non faremo qualche tentativo concreto in tal senso.

Senti, già che hai nominato Kendrick Lamar: si parla sempre di questo confronto tra rap italiano e rap americano… al di là del fatto che lui nello specifico è uno dei più grandi, c’è davvero tutto questo abisso tra i due paesi oppure le cose si stanno in qualche modo muovendo?
Sicuramente loro sono culturalmente più preparati, così come noi lo siamo nel nostro tipo di cantautorato, per dire. Se è per questo sono più bravi anche nel basket e anche lì è una questione di cultura, visto che crescono con la palla in mano, allo stesso modo in cui noi iniziamo a giocare a calcio sin da piccoli. Detto questo, credo che l’errore sia stato nel voler tradurre in italiano una roba che in realtà è americana. Oggi per fortuna esiste un modo di fare rap in italiano che è molto più adatto alle nostre tradizioni, che è molto più peculiare. Artisti come Frah Quintale, ad esempio. Ecco, io penso che il futuro sia questo: non cercare di scimmiottare gli altri ma affondare le radici nella tradizione che ci contraddistingue, visto che è un valore in più.

C’è anche un problema linguistico, forse…
Sì però è anche vero che noi ascoltiamo anche tante cose che vengono dall’estero e le apprezziamo, per cui la lingua è importante fino a un certo punto. Se pensi ad un artista come Stromae, che è riuscito a farsi riconoscere come un genio perché effettivamente è un genio… eppure il francese, a parte Francia, Canada e qualche zona dell’Africa, non è che sia proprio la lingua più diffusa del mondo… io penso che il valore vada oltre le barriere linguistiche. E poi oggi viviamo in un’Europa in cui tantissimi tra le nuove generazioni vanno a vivere all’estero, se non definitivamente almeno per un certo periodo, ormai credo che le barriere linguistiche non siano più così fondamentali…

Quest’estate hai registrato un nuovo pezzo, “L’effetto sbagliato”. È l’occasione per chiederti due cose: la prima è perché un brano nuovo fatto uscire come singolo, senza che ci sia un nuovo disco in arrivo. La seconda è relativa al ruolo sociale dell’artista: siamo in un’epoca storica in cui ci si lamenta spesso del qualunquismo che sembra permeare l’ambiente musicale, come se non ci fosse più la voglia di affrontare certi problemi. Nel tuo caso è diverso: hai sempre trattato argomenti scomodi e questo stesso brano non fa eccezioni…
Abbiamo fatto un pezzo perché il disco era uscito ad ottobre, siamo stati in tour anche durante l’estate e volevamo semplicemente dare un segnale che non fossimo morti tra una tappa e l’altra! Avevamo voglia di fare un pezzo e inoltre questo argomento mi premeva: si parla dell’annicchilimento culturale delle grandi città italiane, Torino in primis, visto che ci vivo e la conosco meglio, ma poi prende spunto anche dal fatto che la mia ragazza vive a Shangai ed in quel periodo mi sentivo solo, quindi il ritornello l’ho scritto pensando ad altro. Mi piace scrivere brani che abbiano una doppia chiave di lettura, perché poi se uno vuole approfondire trova anche altre spiegazioni. Sul ruolo dell’artista: guarda, io credo che ognuno debba essere libero di fare quello che vuole, non credo che tutti debbano prendere posizione. Se hai una coscienza politica è giusto che tu la metta in mostra, dopodiché fingere di averla è peggio che non averla! Preferisco chi si fa i cazzi suoi e parla di puttane e soldi piuttosto che chi si mette a fare il qualunquista, nascondendosi dietro un’indignazione di bassa lega, mettiamola così…

A proposito di qualunquismo, direi che tu non ne sei affetto: ne “I cani” esprimi un concetto particolarmente scomodo, non è così scontato che oggi tutti siano d’accordo sul fatto che c’è una bella differenza tra un cane e un essere umano…
Fa ridere che oggi la gente pianga per un cane abbandonato e sorrida davanti ai barconi che si ribaltano coi bambini che muoiono. Quando avevo cinque anni piangevo per un cane che moriva in un film e non per un soldato caduto in un film di guerra. Arrivato a trenta, penso che gli esseri umani abbiano un valore superiore rispetto agli animali, se non siamo d’accordo su questo, allora è inutile fare ogni altro tipo di discorso!

Cosa sta succedendo secondo te? Oggi non sembra per niente facile mettersi d’accordo su questo punto…
Non lo so, penso che di base si stia perdendo l’empatia: la gente non vuole più condividere la vita, le persone sono troppo concentrate su se stesse, incattivite per la situazione politica e per la narrazione che ne viene fatta e di conseguenza non riescono più a provare empatia per un altro essere umano. Io penso che bisognerebbe ripartire dall’educazione ma non credo sarà una cosa che accadrà da un giorno all’altro, visto che siamo il paese che di gran lunga investe meno in questo settore…

Senti, una domanda sul tuo modo di scrivere: da dove parti e come fai ad arrivare alla fine di un brano? In che modo fai interagire testo e musica?
In realtà non ho un unico modus operandi, l’abitudine mi spaventa e non ho mai voluto essere vincolato ad un percorso sempre uguale. Scrivo come capita, certe volte parto dalla musica, altre volte dal testo, certe volte mi viene in mente un’idea specifica, altre invece mi lascio andare ad un flusso di coscienza. Non c’è uno standard, anche perché non sono scaramantico, come quei calciatori che fanno tre passi e si fanno il segno della croce…

Beh direi che un brano come “C’era una vodka”, giusto per fare un esempio, sia venuto fuori alla grande, no? Credo che ormai rappresenti uno dei tuoi pezzi simbolo…
E’ un brano dove prendo di mira il mio stesso alcolismo (ride NDA)! Diciamo che all’epoca non mi cagava nessuno per cui l’ho scritta sperando che fosse una hit, senza sapere che poi sarebbe effettivamente successo. Come per “Io non sono razzista ma…” pensavo che alla base del testo ci fosse un’idea che aveva le potenzialità per attecchire ma poi che questo accada è un altro paio di maniche, non è mai scontato. Direi che qui funziona tutto, dal riff di tromba, alle battute… una canzone per funzionare deve avere tutto, non basta un ingrediente solo… e poi l’ironia è sempre importante: “Io non sono razzista ma…” parla di un argomento importante ma se l’avessimo declinata in maniera seriosa sarebbe stato pesante, non avrebbe funzionato allo stesso modo…

In effetti nel mondo dell’Hip Pop italiano ci si prende un po’ troppo sul serio… da questo punto di vista, ad un tuo concerto ci si diverte e ci si rilassa parecchio…
Beh sai, la vita è già una merda così, tanto vale farsi una risata ogni tanto, no (risate NDA)?

Photo credit: Alessandro Pedale